Sarà forse la maledizione di Baggio – o dei tifosi viola, per quante ne han tirate. Tutte le volte che la Juventus ha comprato dalla Fiorentina il suo giocatore-simbolo, dopo lo sgarbo del Divin Codino, è finita per andare incontro a un ciclico fiasco riassumibile pressappoco così: muscolare performance di calciomercato, annuncio in pompa magna, ambizioni di rinascita bianconera attorno al nuovo acquisto, scintille iniziali, smarrimento, crisi, caos e addio costellato di delusione. Era accaduto con Felipe Melo, strapagato 25 milioni nel 2009, via dopo due settimi posti. È accaduto di nuovo, in misura minore, con Bernardeschi e Chiesa (quasi 100 milioni in due): ai fiorentini aveva fatto ancora più male vedere i due talenti generazionali del proprio vivaio con indosso la maglia rivale, eppure nessuno di loro a Torino – nonostante indubbi picchi di luce, se non stagioni, Europei – ha più incantato come sotto la Fiesole. Mai però tale ricorrente parabola ha flirtato con il fallimento come quella di Dusan Vlahovic. Il fu signore d’inverno: quei 70 milioni sborsati dalla Juve tre anni fa rappresentano tuttora il colpo più salato nella storia della Serie A durante la finestra di riparazione.
«Quale momento migliore, se non nel giorno del suo 22esimo compleanno?», si crogiolavano allora a Vinovo. Ebbene. Tre candeline più tardi, in un altro 28 gennaio, l’agognato centravanti serbo è già uscito di scena: non rinnoverà il contratto con il club, in scadenza nel 2026, rischiando una frettolosa cessione ora o più verosimilmente a giugno. Fuori posizione, fuori dal progetto. Rapporto logoro e fischi allo Stadium. Sorge allora una domanda: cos’abbiamo capito dell’intero capitolo Vlahovic alla Juve?
Andrebbe chiesto alla Juve stessa, trovatasi al centro di un macroscopico equivoco. Sin dal principio: per peso economico e all’interno della rosa, Vlahovic avrebbe dovuto colmare il vuoto lasciato pochi mesi prima da Cristiano Ronaldo. E perfino riscattare quel che con CR7 non aveva funzionato. Sia stato un salto della fede o un abbaglio valutativo, l’operazione Vlahovic – così come la intese la dirigenza bianconera – era del tutto irrealizzabile. Fragorosamente sproporzionata: contando pure i bonus e un pesantissimo ingaggio – il più alto fra tutti i suoi compagni – a oggi il serbo è costato al club oltre 130 milioni complessivi. A fronte di 53 gol e una Coppa Italia in bacheca. Briciole.
Sia chiaro, i puri numeri individuali non sarebbero pessimi di per sé: si tratta comunque di 0,4 reti a partita, in un palcoscenico d’altro livello rispetto ai tempi di Firenze. Il problema è che Dusan è un attaccante dispendioso anche in campo: per ciascun gol che segna se ne divora altri, gioca pochi palloni, rallenta la manovra della squadra. È tecnicamente ruvido: il suo controllo di palla è diventato un meme. Non fa la differenza nei momenti decisivi e pecca di personalità, scivolando talvolta nella vena polemica – quest’anno aveva zittito il mondo per una doppietta al Genoa incerottato, mica in una semifinale di Champions.
Insomma, di responsabilità ne ha anche lui. Pretendere che mantenesse quel suo tocco da Re Mida dell’area di rigore, biglietto da visita dell’ultimo spicchio in viola (41 centri in 64 gare), era francamente troppo. Ma all’epoca Vlahovic era indicato come il futuro bomber del campionato: non ne ha più intaccato il baricentro, ormai retrocesso pure nelle gerarchie bianconere dopo l’arrivo di Kolo Muani. «Fuori per scelta tecnica», la recente sentenza di Thiago Motta contro Napoli e Milan. È tornato titolare ieri, nel de profundis europeo per mano del Benfica: ectoplasma. Smarrito, a fondo con la sua nave.
Ha avuto pazienza, l’universo juventino – mosso da cuore e portafoglio. Dapprima s’era data la colpa agli infortuni, poi agli schemi di Allegri – col quale comunque Vlahovic ha vissuto il suo periodo più incisivo, nella stagione passata – e a quelli di Motta. «Giocando con un’altra punta e senza compiti difensivi mi esprimo meglio», le frecciatine del numero 9 dal ritiro della Nazionale serba. A conti fatti è soprattutto Dusan ad aver mancato il salto dimensionale, l’appuntamento con un ruolo da protagonista.
Il tempo in bianconero sta per scadere, e non sembrano esserci gli estremi per i supplementari. Quello di Vlahovic – ed è l’aspetto da tutelare – invece no: ha 25 anni, è nel fiore della carriera e può ancora dimostrare il suo valore altrove. Perché la Juve non ha saputo sfruttarlo, in una storia di mutue disillusioni fino al muro contro muro. Al termine della stagione in corso, per non perderlo a zero più in là, sarà costretta a venderlo a meno di un terzo del valore d’acquisto. “Million Flop Juventus”, titolava profetico Forbes nel 2023, quando la telenovela-Dusan dava i primi segni di cedimento. L’unico affare è stato lato Fiorentina, ancora una volta. E visto com’è iniziata l’avventura bianconera di Nico González, qualcuno a Vinovo starà facendo gli scongiuri. Qualcun altro, le valigie.