L’appuntamento è nell’elegante quartiere di Mayfair. Siamo a Londra, in una delle zone centrali della capitale inglese: tra i luminosi stanzoni del palazzo settecentesco dove ha sede l’Ambasciata italiana del Regno Unito, Guglielmo Vicario sembra perfettamente a suo agio nella sua nuova casa. L’Inghilterra, quella dove ha deciso di fare il grande salto: dopo aver entusiasmato tutti con due stagioni da grande protagonista all’Empoli, a 27 anni ha trovato al Tottenham l’opportunità per costruirsi una dimensione più ambiziosa. Non poteva essere un passaggio scontato, quella dalla provincia toscana a una delle metropoli intorno a cui è costruito il campionato calcistico più in vista di tutto il mondo. «Per me è difficile giudicare il mio rendimento, perché è qualcosa che riesco a controllare fino a un certo punto», dice il portiere friulano. «Quando valuto quello che faccio, valuto quello che posso controllare: il lavoro quotidiano, l’impegno, la capacità di adattamento». A parlare per lui sono però le prestazioni, quelle di una prima stagione londinese che ha mantenuto inalterati i livelli di eccellenza a cui Vicario ci aveva già abituati in Serie A. Se ne sono accorti anche oltre i nostri confini: Jamie Carragher lo ha definito un’autentica «rivelazione», il New York Times ha scritto che con lui il Tottenham con lui ha «scovato l’oro», James Maddison ha confessato di esserselo andato a cercare su Youtube, perché non lo conosceva, e che ne è rimasto impressionato perché «difficile da superare». I tifosi già se ne sono innamorati e nella casa degli Spurs il suo nome, dopo una prestazione irreale contro il Chelsea, è già risuonato sulle bocche degli spettatori. Nella stagione che ha definitivamente consacrato Guglielmo Vicario, non a caso è anche arrivato il debutto in Nazionale, lo scorso marzo contro l’Ecuador. Anni fa un giocatore italiano che lasciava la Serie A rischiava di finire ai margini dell’azzurro, e in generale delle cronache nostrane: oggi non è più così, visto che il passaggio di Vicario in Premier, piuttosto che essere un rimpianto per il nostro campionato, è diventato motivo d’orgoglio, perché un nostro connazionale ha saputo imporsi nel campionato iper-ricco e iper-competitivo che corrisponde al nome di Premier League.
Ⓤ: Beh, una realtà molto diversa da tutte le altre da cui sei passato.
Era quello che volevo, quello di cui avevo bisogno. Sono arrivato in una squadra che ha appena inaugurato un nuovo ciclo, con un nuovo allenatore, nuovi leader all’interno dello spogliatoio. E poi anche una nuova idea di calcio, che è dispendioso ma anche molto coinvolgente per tutti. Al Tottenham ho trovato un club che ti dà tanto, ma a cui devi essere anche disposto a dare tanto.
Ⓤ: E tu cosa hai dato?
Il farmi trovare pronto. Sono arrivato in un ambiente nuovo, con dinamiche completamente diverse, e mi è sembrato giusto entrarci e comportarmi con grande rispetto, umiltà, dedizione e impegno. A questi livelli nessuno ti aspetta, perciò bisogna cercare di dare sempre il massimo.
Ⓤ: Questa disponibilità di cui parli ti ha anche cambiato in campo?
Sì, mi sono dovuto adattare a delle richieste diverse da quelle degli anni passati. In gran parte dovute al nostro modo di giocare: andare a coprire porzioni di campo in avanti significa per forza dovermi adattare a nuove esigenze, e farlo nel modo più corretto e rapido possibile. Molto lo si impara in allenamento, nel ricreare delle situazioni ad hoc, in questo modo si riesce a entrare in certi meccanismi che in passato potevano essere impensabili.
Ⓤ: Questo fa il paio con quello che ha detto Postecoglou, il tuo allenatore, su di te: mi piacciono i giocatori che hanno fatto la gavetta come Vicario, perché sono più malleabili. Quanto vale la gavetta dal tuo punto di vista?
L’ho sempre vista come qualcosa di necessario. Da tutti i punti di vista: calcistico, fisico, individuale, mentale. Dopo l’anno di Primavera a Udine ero il primo a essere consapevole di non essere pronto per il calcio professionistico. Ci tenevo a crearmi un percorso diverso, nei campionati minori, perché la ritenevo la cosa giusta da fare. Tutte quelle esperienze si sono poi rivelate di grande aiuto nel mio percorso calcistico e non solo. Di certo, non mi sarei nemmeno aspettato ai tempi di poter arrivare in una grande squadra. Anzi, nemmeno ci pensavo…
Ⓤ: Non pensavi di meritartelo prima?
No, perché anche se avessi avuto la possibilità di fare un grande salto in avanti sarei subito tornato indietro. Perché non sarei stato pronto.
Ⓤ: Ma oggi ci sei arrivato. E ti sei anche guadagnato la Nazionale. Cosa significa l’azzurro per te?
Estremo orgoglio. Ogni bambino che sogna di diventare calciatore ha il desiderio di indossare quella maglia. Per me è una seconda pelle, è il simbolo del mio Paese, della mia famiglia, dei miei amici. Qualcosa a cui cerco di rimanere attaccato giorno dopo giorno, con il lavoro, con la voglia di dimostrare. Quella maglia porta con sé un senso di responsabilità, anche verso gli italiani che, come me, vivono all’estero. Perché la Nazionale ricrea quel senso di unione, di ritrovarsi insieme per guardare la partita. Per questo scendere in campo con la Nazionale ci obbliga a dare il massimo, e in più quest’anno c’è un titolo da difendere.
Ⓤ: Un tuo momento in Nazionale da sottolineare è quello che è successo nel post Italia-Ucraina dello scorso settembre a Milano: sei andato ad abbracciare Donnarumma dopo che era stato bersagliato di fischi e sui social hai pubblicato un post in cui gli hai espresso tutta la tua vicinanza.
Tra di noi non c’è rivalità: siamo compagni di un percorso, perché la cosa più importante è l’obiettivo comune. Ci sta che ognuno voglia giocare, voglia essere protagonista, ma il bene comune è la Nazionale. Gigio non ha bisogno dei miei interventi o di pacche sulle spalle, ma io mi sono sentito di andare da lui, era stata una serata difficile e lui ne è venuto fuori da protagonista. Quella partita è stata determinante nella qualificazione.
Ⓤ: A proposito di numeri uno: hai sempre voluto fare il portiere?
Come tutti i bambini ho iniziato in mezzo al campo, perché da piccolo vuoi segnare, fare un dribbling. Nell’immaginario collettivo non c’è l’idea di parare, nessuno da bambino vuole andare in porta. Non ricordo nemmeno com’è iniziata la mia avventura di portiere, ma era qualcosa che mi divertiva, mi piaceva fare qualcosa di diverso rispetto a tutti gli altri. Questo è un tratto che mi ha sempre caratterizzato: cercare di differenziarmi dalle cose comuni.
Ⓤ: Anche perché, nei tuoi anni adolescenziali, hai avuto modelli decisamente ingombranti.
Sono cresciuto con il mito di Gigi Buffon. Non avevo nemmeno dieci anni quando ha vinto il Mondiale con quelle grandi prestazioni. A quel punto è stato logico per me cercare di rivedermi in quello che faceva, in come si comportava, nella leadership che trasmetteva. In parallelo, andavo allo stadio dell’Udinese che in porta schierava Handanovic, che è stato un altro grande portiere che mi ha influenzato.
Ⓤ: C’è una qualità che ritieni ti abbia portato fino a questi livelli?
Più che un aspetto tecnico, direi una componente caratteriale, che è quella di avere rispetto dei compagni e al tempo stesso di farsi rispettare. Quindi dare ordine alla difesa, mettere a posto certe situazioni, indicare un giusto posizionamento a un compagno, e così via. Sono tutti dettagli che possono essere determinanti, perché magari così eviti un contropiede o una situazione rischiosa. Spesso il portiere è il più lucido tra i giocatori in campo, perciò è necessario che sappia interpretare il ruolo di leader di un reparto.
Ⓤ: Anche se poi spesso si dice che il portiere è il più “pazzo” tra quelli in campo.
È una pazzia che ricollego al fatto di voler prendersi il ruolo con più responsabilità nel gioco. Il portiere è il giocatore con il margine di errore più risicato di tutti quelli in campo. Se concede un gol, immediatamente si pensa che potesse fare di più. Quindi per me la follia è figlia di questa responsabilità, ma poi il portiere dev’essere equilibrato, deve cercare di mantenere quella barretta nella sua testa nella posizione più orizzontale possibile, non facendola pendere mai né verso la negatività né verso l’esaltazione. E bisogna essere razionali, perché in brevissimo tempo bisogna capire qual è la cosa giusta da fare.
Ⓤ: Com’è la Premier League, vissuta da dentro?
Qualcosa di enorme. Tutte le settimane ho la fortuna di sfidare i più grandi giocatori del mondo. Ne potrei dire tantissimi di calciatori che mi hanno impressionato: penso a Salah, Isak, De Bruyne, Foden… La qualità la noti, ma poi hanno anche una fisicità, pur con tratti differenti, e una voglia di confrontarsi. Questa voglia di competere la vedi e te la trasferiscono. È molto stimolante. Ma non ci sono solo i grandi nomi, anche le squadre che non sono ai primissimi posti della classifica hanno giocatori con una qualità e una fisicità di primo livello.
Ⓤ: Le partite di quest’anno che più ti sono rimaste nella memoria?
Fortunatamente ce ne sono state varie. Penso, per esempio, alla vittoria in casa con il Liverpool: anche per come è arrivata, è stato un momento fantastico. Devo dire che anche certe sconfitte ci hanno lasciato positività e sensazioni giuste. Come quando abbiamo perso in casa contro il Chelsea: è stato qualcosa di epico per il modo in cui ce la siamo giocata (in nove contro undici, con un atteggiamento propositivo e un baricentro molto alto, nda). Quella partita è stata emozionante, perché noi abbiamo avuto la sensazione di aver dato veramente tutto, i nostri tifosi l’hanno capito e ci hanno dato il giusto tributo.
Ⓤ: Non a caso si è parlato molto di Tottenham e di Postecoglou dopo quella partita, anche se si trattava, appunto, di una sconfitta.
Ha fatto parte del percorso in cui ci ha coinvolti il nostro allenatore. Se avessimo giocato un diverso tipo di calcio in quella partita magari avremmo anche potuto fare risultato, ma non saremmo stati noi. Una cosa che abbiamo chiara è quella di anteporre sempre il noi come squadra e il chi siamo come gruppo ai risultati. Poi è chiaro che le vittorie sono importanti, ti danno serenità, ti fanno preparare le partite con entusiasmo. Però penso che per costruire qualcosa di importante bisogna mettere fondamenta solide, e per questo serve creare una mentalità di squadra di questo tipo.
Ⓤ: Cosa ti ha convinto di Postecoglou, oltre al credo calcistico?
Sin dal primo giorno, ho percepito la sua voglia di trasmettere qualcosa. È stato uno dei motivi che mi ha convinto ad accettare senza neanche pensarci troppo. Poi ho scoperto una persona di grande spessore umano. E il fatto che abbia avuto un percorso simile al mio, con tanta gavetta, sicuramente ha toccato una corda in più.
Ⓤ: Miglior atmosfera in Premier?
Il nostro è uno stadio veramente costruito per coinvolgere. Quando hanno intonato il mio nome… beh, non me lo aspettavo, nemmeno me lo sarei mai immaginato. Per me ha rappresentato un primo passo nel lasciare un bel segno. Nostro stadio a parte, ho trovato una grande atmosfera a Newcastle. Lì percepisci davvero il fatto che la città sia attaccata in maniera ossessiva alla squadra. In generale in Inghilterra il contesto attorno alle partite, l’atmosfera, la passione contagiosa, dove fai fatica a trovare un seggiolino vuoto, ti dà un mix di sensazioni e vibrazioni per cui vivi, per cui ti ricordi perché si vuol fare questa professione.
Ⓤ: A proposito di estero: non sono stati molti i calciatori italiani a essere riusciti ad affermarsi in campionati stranieri.
Sicuramente ci sono delle difficoltà, non solo per le differenze calcistiche, ma anche culturali, di vita. Questo incide molto in certe scelte, magari si ha paura di andare in una realtà diversa e la si esclude a prescindere. Io ero conscio delle diversità e delle difficoltà a cui sarei andato incontro con la mia scelta, ma sono stato guidato dalla voglia di apprendere qualcosa di nuovo, dal fatto di avere un’opportunità che possa farmi diventare una persona migliore. Perché quando incontri mondi e culture diversi, anche all’interno di uno spogliatoio, impari tanto. Sono tutte cose che ti porti dietro, anche come atleta.