Non è il caso di disperarsi troppo se Tonali e Vicario vanno in Premier League

Viviamo un'era in cui tutti i campionati sono subalterni a quello inglese, quindi è una buona notizia che il calcio italiano abbia ripreso a produrre talenti d'esportazione.

Da anni, ormai, si parla della Premier League come se fosse una sorta di NBA in salsa calcistica. Come di un campionato che, forte di una posizione economica dominante, attrae i migliori talenti del mondo e li tiene stretti a sé per i migliori anni della loro carriera. Questo discorso è tornato di moda negli ultimi giorni, quando sono uscite le notizie sul trasferimento di Sandro Tonali al Newcastle ed è stato annunciato ufficialmente il passaggio di Guglielmo Vicario al Tottenham, e allora la narrazione preponderante è quella per cui la Serie A è stata nuovamente razziata, depredata di due grandi campioni, è diventata una succursale, una sorta di lega di sviluppo per i calciatori che aspirano a trasferirsi in Inghilterra, proprio come succede nel basket europeo e nei campionati universitari, puri e semplici trampolini proiettati verso la NBA. In realtà il paragone/suggestione non regge, nel senso che è formalmente inesatto: il sistema sportivo americano non ha niente a che vedere con quello europeo, e soprattutto la NBA non versa dei soldi alle società che hanno formato e/o hanno lanciato i giovani che si rendono eleggibili per il Draft – l’unica strada possibile per arrivare a giocare nella lega. Il caso della Premier League, quindi, è molto diverso. A dirlo sono i numeri di Transfermarkt: in attesa di capire quali saranno le cifre ufficiali delle operazioni relative a Tonali e Vicario, il flusso di mercato Serie A –> Premier League ha generato un giro d’affari di 420 milioni di euro nelle ultime due stagioni. Se invece guardiamo agli ultimi dieci anni, la cifra cresce fino a sfiorare il miliardo e mezzo di euro (1475 milioni).

La verità, quindi, è che in questa estate 2023 non sta succedendo niente di nuovo. Oppure, diciamola meglio: in questa estate 2023 non sta succedendo niente di diverso rispetto a quanto successo negli ultimi dieci anni, vale a dire il periodo in cui la Premier League ha divorato il calciomercato globale approfittando del suo strapotere economico-finanziario, di una condizione di superiorità costruita nel tempo, dei frutti del lavoro visionario portato avanti negli anni Novanta e nei primi anni Duemila. In realtà anche i confini geografici di questo dominio sono molto più vasti di quanto si può pensare, nel senso che nella lista dei campionati subalterni alla Premier non c’è solo la Serie A: le società della Liga spagnola, infatti, hanno incassato molto di più rispetto a quelle italiane, nell’ultimo biennio (oltre 470 milioni) ma soprattutto negli ultimi dieci anni (sempre secondo Transfermarkt siamo oltre i 2,1 miliardi di euro). E lo stesso discorso vale anche per Ligue 1 e Bundesliga, con cifre e proporzioni del tutto similari.

Numeri alla mano, è evidente che stiamo vivendo un’era in cui esiste una lega europea decisamente più ricca e quindi attrattiva delle altre. Ciò che va sottolineato, però, è che la situazione di oggi è perfettamente sovrapponibile a quella di trenta o quarant’anni, ai vecchi rapporti di forza tra la Serie A e gli altri campionati continentali, solo che allora era proprio la Serie A a occupare il trono, a fregiarsi del titolo di torneo più ricco, più glamour, più appetibile. Il nostro problema, nostro intesi come noi italiani, in realtà è proprio questo: non riusciamo ad accettare i nuovi equilibri – sarebbe meglio dire i nuovi squilibri – del calcio degli anni Dieci e Venti, non crediamo possibile che Tonali e Vicario possano preferire Newcastle e Tottenham a Milan e Inter. Insomma, non vogliamo proprio realizzare che questa tendenza di mercato è un fatto di pura e semplice convenienza economica, che i soldi furono la motivazione alla base delle scelte fatte da Effenberg e Hagi, che negli anni Novanta preferivano Fiorentina e Brescia rispetto a Bayern Monaco e Real Madrid.

Dobbiamo cambiare il nostro modo di approcciare il calciomercato, di parlarne, dobbiamo rivedere la prospettiva. E quindi, a pensarci bene i trasferimenti di Tonali e Vicario dovrebbero addirittura inorgoglire i nostri club. Sempre guardando agli ultimi dieci anni, infatti, i calciatori italiani in grado di sedurre i club di Premier League sono stati pochi: Balotelli, Darmian, Ogbonna, Paloschi, Zappacosta, Jorginho, Kean, Cutrone e Scamacca si sono trasferiti in Premier dopo essere cresciuti in un club di Serie A e/o del nostro Paese, e tra questi solo Ogbonna e Jorginho si sono affermati in modo netto e definitivo, tutti gli altri sono stati rispediti indietro, sono venuti a giocare da noi – anche per Scamacca si parla di un possibile ritorno in Italia. Con Tonali e Vicario, per dirla in modo brutale, si è riaperto un canale che sembrava essersi ostruito quasi definitivamente, quando invece quello dei talenti stranieri ha continuato a produrre soldi e plusvalenze per i club italiani: Cuadrado, Pogba, Marcos Alonso, Salah, Rudiger, Alisson Becker, Cancelo, Lukaku, Bentancur, Tomiyasu, Koulibaly, Romero e Kulusevski sono solo alcuni dei giocatori che si sono trasferiti in Inghilterra dopo aver fatto benissimo in Serie A. Alcuni calciatori in questo elenco sono tornati al mittente, altri hanno dimostrato di essere dei campioni degni di certe cifre. Di certi stipendi.

Anche se ovviamente non può essere considerato come la realizzazione di una grande ambizione, anche se ovviamente i nostri club dovrebbero lavorare insieme alle istituzioni sportive, alla politica, alle imprese del territorio, per provare a colmare il gap, la Serie A e il calcio italiano – inteso come multiverso sportivo, economico-finanziario ma anche giornalistico – hanno il dovere di calarsi in questa nuova realtà. Di sperare in tanti nuovi casi-Tonali e Vicario. Continuare a cedere in Inghilterra – o anche ai top club di altri Paesi: Real Madrid, Barcellona, Bayern Monaco, PSG – significherebbe alimentare un circuito virtuoso fondato sulle idee, sulla valorizzazione del talento, costruire una competitività di secondo livello che, esattamente come avvenuto quest’anno, può portare a vivere stagioni importanti anche nelle competizioni europee. E ad attuare progetti non solo vincenti, ma anche economicamente sostenibili, come quelli di Milan e Napoli.

È un discorso di risultati ma anche di posizionamento sul mercato: gli slot delle squadre inglesi non sono infiniti, soprattutto alla luce delle limitazioni – quattro giocatori cresciuti nel proprio vivaio, quattro nel vivaio di una squadra dello stesso campionato – imposte dall’Uefa nella compilazione delle liste per le coppe. E allora l’Italia e la Serie A possono aspirare a diventare una buona alternativa tra i pianeti subalterni, ad accaparrarsi e valorizzare gli esuberi di un sistema in cui girano fin troppi soldi, in cui i giovani rischiano di bruciarsi troppo presto, e quindi è inevitabile commettere errori di valutazione. Basta evocare qualche caso del passato recente per capire cosa intendiamo: Tomori dal Chelsea al Milan, Abraham dal Chelsea alla Roma, Lukaku di ritorno dal Chelsea all’Inter, Anguissa dal Fulham al Napoli, Smalling dallo United alla Roma e Lookman dal Leicester all’Atalanta sono solo alcuni dei colpi messi a segno sfruttando le congiunture tra spazio, tempo ed economia, il sovraffollamento delle rose in Premier League.

Guglielmo Vicario sarà il quarto giocatore italiano a vestire la maglia del Tottenham dopo Nicola Berti, Paolo Tramezzani e Carlo Cudicini (Timothy Rogers/Getty Images)

In attesa di capire come – anzi: se – il calcio europeo riuscirà a ridimensionare quello che è diventato un enorme squilibrio economico e competitivo, in questo senso l’ultima indiscrezione è quella per cui l’Uefa stia studiando un provvedimento che limiterebbe le spese per stipendi e cartellini in base al fatturato di ogni club, l’obiettivo non può essere che uno: accettare questo nuovo contesto e trovare il modo per renderlo profittevole. In senso economico e sportivo. La verità è che andrebbe rivista – se non riscritta completamente – anche l’idea stessa di competitività e di salute legata a un movimento calcistico: le squadre di Ligue 1 non conquistano una coppa europea dal 1996 e la Federcalcio di Parigi è reduce da anni di scandali anche piuttosto gravi, eppure la Francia è una delle Nazionali più forti del mondo, di certo è quella con la rosa più ricca e profonda.

È chiaro che le dinamiche storico-economiche e politico-culturali, quelle che hanno reso la Francia un Paese che esporta calciatori più che importarli, abbiano un peso sulle percezioni, sulle valutazioni interne ed esterne. Ma è pur vero che le cose cambiano, che persino gli equilibri secolari possono mutare, e allora forse ha senso partire proprio da qui: la Serie A e il calcio italiano devono riuscire a immaginarsi in vesti nuove, diverse, a immergersi in un’era calcistica in cui la necessità primaria è quella di vendere calciatori piuttosto che comprarli, di produrre talento da esportazione mentre si ricostruisce il sistema. Servirà uno shift culturale, servirà una rivoluzione del pensiero. Non sarà semplice, ma potrebbe essere l’unica strada per ripartire davvero.