Sono giorni in cui Los Angeles e molte altre città americane stanno vivendo come sospese tra divertimento e preoccupazione. Da una parte gli eventi, le fanzone e le iniziative legate al Mondiale per Club si aggiungono alla vita pulsante dei grandi centri coinvolti nel torneo, dall’altra alcuni quartieri della metropoli californiana fanno i conti con le proteste in seguito ad alcune retate dell’ICE, l’agenzia federale statunitense responsabile del controllo della sicurezza delle frontiere e dell’immigrazione, considerate troppo energiche e pressappochiste. Per tutta riposta, l’invio da parte del presidente Trump dei Marines e della Guardia Nazionale ha alimentato la tensione. Esattamente come nell’estate del 2020, ai tempi dell’omicidio di George Floyd a Minneapolis, i temi di razzismo e immigrazione sono tornati al centro del dibattito americano – ammesso che ne fossero mai andati. Ecco, in questo contesto a dir poco magmatico la Nazionale di calcio americana ha un peso enorme. Perché sta disputando la Gold Cup, il campionato continentale CONCACAF. Ma anche perché rappresenta un presidio di integrazione e inclusività, e quindi è un avamposto politico importante contro le politiche di Trump.
«Non è che ci sia un record o qualcosa del genere su quante minoranze siano state nella nazionale prima, ma sento che questa è la generazione più diversificata della Nazionale». Queste frasi le ha pronunciate Chris Richards, centrale del Crystal Palace, uno dei leader della linea difensiva di Team USA. Durante la maggior parte della storia moderna della USMNT, una dichiarazione come quella di Richards non avrebbe avuto grosse implicazioni politiche. Ma oggi, mentre l’amministrazione Trump scoraggia apertamente il discorso sulla diversità nella vita pubblica, assume tutto un altro significato. Sullo sfondo della polarizzazione interna e della crescente pressione per ottenere un risultato importante alla Coppa del Mondo casalinga del prossimo anno, una squadra come la Nazionale di Pochettino – che ha molti giocatori nati o che comunque risiedono all’estero – è stata piuttosto cauta nel commentare le questioni sociali e politiche degli Stati Uniti.
La diversità etnica della rappresentativa USA, però, è un fatto. Un fatto evidente. «Quando avevamo Gregg Berhalter come commissario tecnico, dovevamo scegliere i termini-pilastro della nostra squadra. E così abbiamo parlato di scegliere ‘diverso’: dopo esserci guardati attorno, eravamo tutti in una stanza, ci siamo resi conto del tatto che ogni singola persona nella nostra squadra provenisse da un contesto completamente differente». Queste altre parole, piuttosto significative, le ha dette al Guardian il centrocampista Tyler Adams, capitano degli USA agli ultimi Mondiali. E ancora: Tim Ream, che a 37 anni è di gran lunga il giocatore più anziano in una squadra dall’età media piuttosto bassa, ha detto che «la Nazionale degli Stati Uniti è un microcosmo che rappresenta perfettamente quello che è il nostro Paese. Ci sono così tanti background, così tante culture diverse, modi differenti di fare le cose, idee e credenze diverse. Eppure è tutto ok, andiamo tutti d’accordo».
St Louis, l’area di New York e la California sono i tradizionali serbatoi calcistici degli Stati Uniti. L’ex difensore americano – nonché del Padova – Alexi Lalas ha recentemente ribadito la sua opinione secondo cui la Nazionale maschile trarrebbe vantaggio se fosse più esclusiva, cioè se le risorse federali venissero concentrate per lo sviluppo dei giocatori in questi centri. Ma fare ciò significherebbe escludere un enorme bacino di potenziali talenti. Non ci sarebbe per esempio Birmingham, Alabama, città natale di Richards. Il difensore del Crystal Palace ha sempre confessato di essere «l’unico giocatore nero» in tutte le squadre in cui ha giocato prima di entrare nell’academy dei FC Dallas. Durante le qualificazioni alla Coppa del Mondo 2022, ha notato quanto in Nazionale fosse cambiato il trend: «Ricordo che a un certo punto c’erano Antonee Robinson, Mark McKenzie, io e Sergiño Dest. A quel punto ho pensato: ‘Oh, questa è una linea difensiva tutta nera. Zack Steffen era in porta, Weston McKennie giocava a centrocampo, avevamo Timothy Weah sull’ala e in campo c’era anche Yunus Musah. Otto titolari neri, e mi sono detto: “È una cosa strana”. Non mi era mai capitato, prima della Nazionale».
In effetti ci sono dei numeri piuttosto significativi: la formazione iniziale di Team USA per una delle primissime gare giocate dopo lo stop causa pandemia, un’amichevole contro il Galles a novembre 2020, era composta da dieci giocatori con origini afroamericane e/o latine. Inoltre c’erano quattro calciatori (Musah, Reyna, il centrale Brooks e Dest) nati e cresciuti all’estero, tra Inghilterra, Germania e Olanda. Erano i giorni in cui gli USA erano scossi dalle marce di protesta che facevano capo al movimento afroamericane o latine, con quattro calciatori (Musah, Reyna, il centrale Brooks e Dest) nati e cresciuti all’estero, tra Inghilterra, Germania e Olanda. Erano i giorni in cui gli Stati Uniti erano scossi dalle marce di protesta che facevano capo a Black Lives Matter, movimento antirazziale e anti-discriminazione nato in seguito al già citato omicidio di George Floyd. Per la gara contro il Galles i giocatori degli USA, indossarono delle giacche prepartita con la scritta “Be The Change” ben visibile sul davanti. Sul retro, invece, avevano lo spazio per inviare un proprio messaggio personale. Un anno e mezzo dopo, sotto il motto “Be The Change”, la squadra ha inviato un messaggio molto diretto al Congresso riguardo la legislazione sulle armi e ha indossato fasce arancioni in un’amichevole contro l’Uruguay per sensibilizzare sull’argomento.
Ora quel tipo di posizionamento politico – netto, inequivocabile – non c’è più, o comunque è decisamente più sfumato. Inevitabile, se pensiamo a quanto sia cambiato lo scenario dopo il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca. I giocatori del nuovo ciclo ci tengono a sottolineare che «all’interno della squadra non si tengono grandi discussioni politiche»· Il Guardian ha attribuito questo virgolettato a Ream e Adams, che però poi hanno aggiunto: «Se devo o dobbiamo dire qualcosa, prendendo posizione, deve essere fatto in modo da poter unire le persone. Però poi al tempo stesso penso e pensiamo che verrà frainteso in un modo o nell’altro, quindi non ne vale la pena». La verità, però, è che la Nazionale USA continua a essere un’istituzione che va inevitabilmente contro le politiche di Trump. Ed è una cosa che riguarda il modo in cui è composta, prima ancora che le sue manifestazioni pubbliche. Il fatto che i giocatori abbiano scelto la parola “diversità” come termine-pilastro del loro gruppo, anche se è successo in passato, è un fatto. Nel frattempo il gruppo allestito da Pochettino continua a essere misto, diversificato, vario. E poi ci sono anche alcune parole significative. Le ha dette Chris Richards: «È un momento molto difficile per il paese. Il nuovo presidente ha portato un cambiamento, e se in passato sentivo che stavamo facendo progressi su certe cose, per esempio il sostegno delle minoranze, adesso sento che stiamo vivendo una regressione». Non c’è molto altro da aggiungere.
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