Se Oklahoma City ha vinto delle Finals meravigliose, perché la NBA è sempre meno popolare?

Il successo dei Thunder contro gli Indiana Pacers è arrivato al termine di una serie lunghissima e avvincente. Eppure il pubblico NBA continua a essere diviso, a criticare la lega, a rimpiangere il passato.

Hanno vinto gli Oklahoma City Thunder. E allora un domani, quando dovremo isolare un’ideale polaroid di questa serie, ripenseremo ai 15 punti di Shai Gilgeous-Alexander negli ultimi 12 minuti di gara-4, a Jalen Williams che vive in gara-5 il suo personale “momento Jordan”, il 34-20 del terzo quarto in gara-7 che ha spezzato l’ultima resistenza della squadra che ha costruito il suo percorso ai playoff sulle rimonte e sulla capacità di tirare fuori risorse e soluzioni insospettabili nei momenti decisivi. Allo stesso tempo, però, avrebbero potuto vincere anche gli Indiana Pacers, e a quel punto avremmo ricordato per sempre la schiacciata di Siakam in gara-6, T.J. McConnell che diventa il “go-to-guy” nei possessi chiave, Tyrese Haliburton che quasi si immola fisicamente per il sogno di una vita, infortunandosi al tendine d’Achille dopo aver giocato sul dolore, Rick Carlisle che dimostra, ancora una volta, come si allena a un certo livello.

Ecco, questa è la NBA, queste sono le NBA Finals, non esiste un palcoscenico migliore per alimentare ed esaltare tutto ciò che è il basket quando è giocato dai migliori giocatori e dalle migliori squadre del mondo. E non può essere solo il risultato a determinare la narrazione della lega, tra passato, presente e futuro. Eppure, nell’imminenza di gara-5, Mike Vourkunov si era chiesto su The Athletic se proprio le Finals non «avessero perso ciò che le rende speciali», analizzando i diversi aspetti che avevano portato a una progressiva scomparsa di un certo tipo di iconografia, che in passato era stata anche anche brand identity, e che aveva fatto sentire i fan parte dello spettacolo. La riflessione di Vourkunov, che oggi appare paradossale, era invece legittima. Perché è una riflessione che giornalisti, tifosi e osservatori esterni si sono posti nell’epoca in cui i dati relativi all’audience televisiva sembrano descrivere un distacco sempre più netto tra la lega e la sua fanbase. Un distacco che, a quanto pare, non è stato possibile colmare nemmeno durante l’appuntamento più importante dell’anno: nelle due settimane delle partite, infatti, ci siamo imbattuti in un’infinità di articoli che evidenziavano come i rating tv fossero i più bassi dal 2020, l’anno dei Los Angeles Lakers di LeBron James divenuti campioni nel silenzio dell’AdventHealth Arena di Orlando.

Ma possono questi numeri costituire un indicatore reale, anzi realistico, di una perdita di interesse verso il prodotto NBA nel suo complesso? È davvero possibile sostenere che, fino a gara-7, a nessuno sia importato delle Finals 2025 perché sulla ABC si erano sintonizzati meno telespettatori rispetto ad altre Finali del passato più o meno recente? Il discorso è ampio e si articola su piani di valutazione diversi e ulteriori, piani che sono connessi a quella visione di «NBA come impresa commerciale», e per questo soggetta alla logica di «un’analisi costi-benefici», che Flavio Tranquillo ha spiegato recentemente durante una puntata del Basement di Gianluca Gazzoli. In questo senso, come ha fatto notare Jeff Zillgit su Usa Today a commento dei report diffusi dai vari network, i rating televisivi non definiscono integralmente il grado di coinvolgimento dei fan per via dell’avvento dello streaming e delle altre forme di trasmissione sulle varie piattaforme. E allora incardinare la reciprocità del rapporto tra problemi e soluzioni a un contesto dai contorni così indefiniti costituirebbe un rischio che nessuno è disposto a correre. Non alla vigilia della stagione in cui inizieranno a entrare i primi miliardi del nuovo e ricchissimo contratto televisivo ufficializzato nel luglio del 2024. E allora perché si è parlato così tanto e così a lungo di una grande occasione sprecata, di un’edizione delle Finals in tono minore nonostante le due squadre abbiano fissato nuovi standard di eccellenza per ciò che riguarda i livelli di competitività, intensità e agonismo del gioco?

La sensazione è che a mancare sia il vero elemento distintivo che negli anni ha permesso alla NBA di guadagnarsi il proprio spazio all’interno del business – sia locale che globale – degli sport professionistici, e cioè la capacità di intercettare le richieste e i bisogni del pubblico, ciò che la gente cerca in un confronto tra i migliori atleti del mondo. Che ormai non riguarda più l’evento-partita inteso come espressione del valore di giocatori e allenatori, ma tutto ciò che caratterizza e indicizza quella partita nell’era della FOMO che governa ogni cosa. Se dovessimo parlare solo di sport non avremmo potuto augurarci nulla di meglio e nulla di diverso da quanto abbiamo visto. Ma siccome non è più possibile parlare solo di sport, non stupisce che tutto sia stato fagocitato dalle polemiche sulla popolarità perduta, o che le dichiarazioni più significative del commissioner Adam Silver abbiano riguardato un dettaglio teoricamente marginale come la mancanza della personalizzazione dei parquet delle due arene con l’immagine del Larry O’Brien Trophy: «La gente non si rende conto che i loghi adesivi sono stati rimossi una decina d’anni fa perché si riteneva fossero particolarmente scivolosi», ha detto Silver, aggiungendo però che anche lui prova «una grande nostalgia nei confronti di certe tradizioni» e che quindi non è da escludersi un ritorno al passato già nelle Finals del 2026.

La contraddittorietà delle parole di Silver è il miglior indice del disorientamento in cui è sospesa la lega. Da sempre all’avanguardia nella sintesi perfetta tra passato e futuro, tra tradizione e modernità, attualmente la NBA sembra quasi non riuscire ad andare avanti, come se fosse preda di una strana smania di accontentare tutti che ha come unico risultato quello di non riuscire comunque ad accontentare nessuno. Del resto l’eterogeneità, o per meglio dire il frazionamento, della fanbase è uno dei motivi per cui è così difficile risolvere una criticità che non è misurabile nei numeri ma nel sentire comune. Un tempo essere tifoso NBA significava riconoscersi a vicenda, essere parte integrante di un’organizzazione in cui le naturali divisioni venivano compensate da un profondo senso di comunità e dalla certezza di volere tutti le stesse cose. Oggi ci troviamo esattamente dalla parte opposta dello spettro, ci sentiamo prigionieri di una percezione per cui i tifosi che non sanno più quello che vogliono, percezione che è allo stesso tempo causa e conseguenza di un profondo stacco generazionale: da un lato ci sono quelli che non sono mai riusciti ad uscire dalla bolla degli anni Ottanta e Novanta e quindi non riescono ad accettare un mondo completamente diverso rispetto a quello che avevano conosciuto attraverso le tv private o a pagamento e le riviste di settore, sia a guardare l’evoluzione del gioco che quella dei suoi protagonisti; dall’altro i giovanissimi che hanno a disposizione mezzi e canali impensabili fino dieci o quindici anni fa ma che, in assenza di un’icona trasversale, non sanno cosa farsene di device sempre più diretti e immediati. In mezzo, infine, ci sono tutti quelli che hanno vissuto il passaggio dall’adolescenza all’età adulta negli anni Dieci del Duemila e che adesso si stanno chiedendo cosa ne sarà di loro quando smetteranno i vari LeBron, Durant, Curry, Harden e Paul.

Un cortocircuito che è si è poi nutrito di estremizzazioni e semplificazioni e senza che si riuscisse a trovare un punto di incontro. Al punto che lo stesso Silver ha dovuto ammettere che la questione dei loghi ha attirato la sua attenzione solo quando è diventato un trend topic sui social media, confermando tutte le difficoltà incontrate nell’intercettare e inseguire le mode dopo decenni passati a crearle ex-novo. La conseguenza è che, nonostante gli sforzi per migliorare quello che non funziona più (qualcuno ha detto format dell’All Star Game?), o per introdurre qualcosa che possa funzionare in un prossimo futuro (l’In-Season Tournament con le Final Four a Las Vegas), tutto appare immobile, fermo allo stesso punto, in un rapporto di proporzionalità inversa tra la grandezza degli accordi commerciali che la NBA riesce ugualmente a chiudere in tutto il mondo e la mancanza di partecipazione emotiva del pubblico di riferimento.

Pure la diatriba sugli small markets, che ricorre ogni volta in cui alle Finals non si affrontano le squadre più note a una platea generalista, ha un peso relativo. Anche se ci troviamo nella linea temporale in cui il passaggio di Luka Dončić ai Lakers – che a breve avranno un nuovo proprietario – viene considerato l’ennesimo indizio della necessità per la lega di avere ciclicamente un certo tipo di giocatori in un certo tipo di squadre, l’ipotesi che tutto dipenda dal fatto che Indianapolis e Oklahoma City non siano così attrattive per le superstar, e quindi per quella parte di appassionati legati ai nomi in copertina e sui cartelloni, è una lettura anacronistica. In fondo, a pensarci bene, una lega che in sette stagioni ha visto vincere sette squadre diverse assicura un competitive balance molto più vantaggioso rispetto ad altre realtà di tipo oligopolista. Senza contare che, come ha giustamente rilevato il New York Times in questo articolo, giocare – e vincere – in uno small market significa rafforzare la connessione con i tifosi e sviluppare un senso d’appartenenza che diventa a sua volta un marchio da poter sfruttare pure dal punto di vista commerciale.

Nei giorni che hanno preceduto gara-1 tra Indiana e Oklahoma City, Adam Silver ha fatto più volte riferimento alla «transizione» che Netflix e le altre piattaforme hanno imposto all’industria dello sport-entertainment. Forse, però, bisognerebbe parlare di una riflessione multisettoriale che non può avvenire per blocchi di argomenti e che deve riguardare il modo in cui la lega NBA intende affrontare la sfida del prossimo decennio. Per esempio facendo passare il messaggio che è possibile trovare grande basket e grandi giocatori anche al di fuori delle franchigie più glamour, in modi e tempi sempre nuovi e sempre diversi. Finché ci si concentrerà a compartimenti stagni sul milione di utenti in più o in meno, su come i cambiamenti che hanno influenzato il gioco non incontrino più il gusto di una determinata di spettatori o sulla “lotta di classe” tra centri d’influenza piccoli e grandi, non esiste cifra o contratto che tenga: continueremo a perderci ciò che conta davvero. Ad esempio che gli Oklahoma City Thunder hanno vinto il primo titolo della propria storia e che Shai Gilgeous-Alexander è stato nominato MVP delle Finals dopo esserlo stato anche in regular season. O che gli Indiana Pacers sono stati vicini, vicinissimi, a qualcosa che non avevano raggiunto nemmeno ai tempi del grande Reggie Miller – che, infatti, ha voluto abbracciare tutti i giocatori dei Pacers nel tunnel che li riportava negli spogliatoi. Qualcuno se n’è accorto?

Leggi anche