All’inizio della quinta puntata della prima stagione di Boris, Antonio Catania, nei panni di Diego Lopez, riceve dalla rete un ordine: deve capire cosa funziona all’interno della serie Libeccio. A forza di vedere dvd, Lopez capisce: il segreto è la sottotrama comica. E ha qualcosa a che fare con la grande commedia anche Massimiliano Allegri, i cui spezzoni di una conferenza stampa di presentazione in soldoni normalissima hanno iniziato a popolare le timeline dei social network nel giro di pochi minuti dalla diretta. Una viralità talmente fisiologica che porta a chiedersi: per quale motivo Allegri piace così tanto agli italiani? Per quale motivo gli basta sedersi al fianco di Igli Tare dicendo «Buongiorno a tutti, bentrovati» per scatenare una risata fragorosa in sala stampa? C’entra davvero soltanto il meme che fu cavalcato persino dalla Juventus o c’è dell’altro?
In circa 45 minuti di conferenza, il tecnico toscano ha confermato i suoi tempi da battutista consumato: non è quello che dice a suscitare l’ilarità, ma come lo dice. La risposta data alla domanda tutto sommato semplice di Franco Ordine («Allora, si va col 4-3-3?») non è frutto di chissà quale artificio mentale, ma quel «Dove?», pronunciato con i tempi giusti, è diventato il primo pezzo di intervista da tagliare e gettare in pasto ai social. Non c’è molto altro da dire sulla conferenza di Allegri, che ha dovuto passare il primo quarto d’ora a dribblare sostanzialmente sempre la stessa domanda: quella che prevedeva la risposta per cui il Milan fosse in lotta per lo scudetto, mentre Allegri faceva un continuo riferimento a un piazzamento in Champions League. Proprio da questo punto di vista la conferenza di lunedì diventa uno spunto interessante per capire il fenomeno-Allegri fuori dal campo: abituata alle cortine fumogene alzate dall’allenatore nel corso degli ultimi anni, è come se persino la stampa si fosse appiattita, rinunciando invece di rilanciare.
Per arrivare a una domanda sull’idea tattica che il tecnico può avere del Milan del futuro, oltre il timido approccio sul modulo di Ordine disinnescato con la già citata battuta e con «intanto mettiamone in campo dieci, poi vediamo», bisogna aspettare quasi 35 minuti. Gli viene chiesto se ha in mente una squadra improntata sul possesso, la risposta è così allegriana da essere diventata il nuovo motto del Faina: «Quando abbiamo la palla dobbiamo fare gol. Quando non l’abbiamo non dobbiamo prenderlo». Una frase così è parte della “Allegri experience”, caratterizza un uomo ormai pienamente padrone di quel che fa in conferenza, capace di portare tutti dalla sua parte con una naturalezza che non può non essergli riconosciuta. E così, persino quando cerca di addentrarsi in una parte che da sempre lo appassiona, quella dei numeri, nessuno gli fa notare una grossa sbavatura: «Ci sono dei numeri da cui non si può scappare», dice prima di indicare che solamente la Juventus di Sarri ha vinto lo scudetto senza avere la miglior difesa, arrivando persino a indicare il numero dei gol presi. E fin qui tutto bene: evidentemente Allegri ha studiato, sa quel che dice. Ma poi si fa prendere dal gusto della giocata, e spara alto: «Se prendi 40 gol, non puoi arrivare nelle prime quattro». Eppure, prendendo a riferimento gli ultimi dieci anni di Serie A, soltanto in tre campionati (2017/18, 2021/22, 2024/25) non c’è stata almeno una squadra capace di arrivare in zona Champions League pur subendo almeno 40 gol, con picchi che addirittura lambiscono i 50 (Milan 2023/24, secondo con 49 gol subiti, e l’Atalanta terza nel 2019/20 e nel 2020/21 rispettivamente con 48 e 47). Ma la “Allegri experience” non prevede contraddittorio, ci si entra e si viene trasportati dalle onde.
Allegri, alla fine, è il Mourinho non incendiario che possiamo permetterci. È velatamente polemico, ma senza la volontà di Mou di andare, se necessario, al duello corpo a corpo, uno contro uno. È sagace come il portoghese, ma rinunciando allo scontro frontale si fa apprezzare da tutti, mentre lo Special One finisce per avere dalla sua soltanto chi è vestito come lui in quel momento. L’avversario verbale di Allegri è lontano, sfumato, incorporeo: il suo obiettivo è il giochismo, la tendenza a sostenere che soltanto chi promuove un calcio di un certo tipo possa arrivare al traguardo finale. È per questo che Allegri piace così tanto agli italiani: non parla a chi è vicino a lui, parla a chi è lontano, a chi da decenni commenta il calcio nei bar più che nelle tribune stampa o in quelle televisive. Per usare un concetto preso in prestito dalla politica, sa parlare alla pancia degli italiani: chissenefrega del come, l’importante è vincere, perché «i risultati sono la cosa che nel calcio conta di più», come afferma a un certo punto della conferenza con un’essenzialità che sfocia nella banalità e ci sguazza dentro come un bambino in piscina.
Quando Carlo Pellegatti, l’unico a concedere un paio di guizzi da giornalista di razza, gli chiede se non si sia stufato di passare come quello che allena squadre che gioca male, l’allenatore rivela la sua vera essenza. «È un divertimento, è il gioco delle parti: io mi diverto molto su queste cose, ci gioco sopra», dice Allegri, finalmente sincero. Ed è lui il primo a sapere che questo gioco funziona soltanto finché arrivano i risultati: «Alla fine, se vinci sei un bravo ragazzo, se perdi…». Non completa la frase, vira sul calcio come arte, sulla rovesciata di Ronaldo, sulla centralità dei giocatori, un altro caposaldo della sua narrativa.
L’importanza della tecnica è un retaggio dell’Allegri calciatore, uno che in campo poteva fare quello che vuole col pallone tra i piedi ma che ha finito per pagare una certa pigrizia: qualche gemma dispensata di tanto in tanto e lunghe pause, quasi ad ammirare ciò che aveva fatto, che fosse un’apertura di 50 metri o un pallonetto messo all’incrocio dei pali. E allora le conferenze stampa di Allegri vanno prese come un’estensione di quello che fu da calciatore: un divertissement, un momento di spettacolo per lo spettacolo, qualcosa che resta senza che davvero ci siano dietro concetti che meritino di rimanere in testa. Non potendo contare su qualche frase relativa allo scudetto, chi ha dovuto fare il resoconto della presentazione di Allegri si è aggrappato all’obiettivo Champions e al concetto di remare uniti, tutti dalla stessa parte, inclusa la società, ora che al Milan tutti sanno bene qual è il ruolo da ricoprire. Sembrava un chiaro riferimento polemico nei confronti della sua ultima esperienza juventina, che si chiuse con una deflagrazione nel bel mezzo dell’Olimpico, la Coppa Italia praticamente tra le mani e uno show gratuito a uso e consumo dei tifosi bianconeri, ai quali decise di concedere l’istantanea da tramandare ai posteri subito prima della fine, un qualcosa di juventino del quale nutrirsi anche nei mesi dell’addio. Nessuno ha scelto di coglierlo, quel riferimento, e l’Allegri experience è scivolata via placida, divertita, serena. Ha ringraziato tutti alzandosi alla fine e anche in quel caso tutti hanno riso. Chissà perché, ci siamo chiesti noi. Allegri, profondo conoscitore di uomini, non si sarà fatto nessuna domanda. Lui, quella risata, se l’aspettava.