Il 4 gennaio, al termine di Cremonese-Juventus – quarta partita delle ultime sette che i bianconeri hanno vinto per 1-0 – Massimiliano Allegri viene invitato da Sky a commentare la rinnovata e ritrovata solidità difensiva della sua squadra, che non prende gol praticamente da inizio ottobre e che è appena arrivata a 727 minuti di imbattibilità in campionato. Sorprendentemente, o forse no, il tecnico livornese decide per una volta di andare oltre un dato statistico che gli darebbe ragione e di sottolineare quello che lo zero alla casella delle reti subite non racconta, o non racconta del tutto, almeno secondo lui: «La fase difensiva va migliorata anche se non abbiamo preso gol. La sensazione era che potessimo prenderlo e queste sensazioni vanno eliminate». Queste frasi Allegri le dice con un senso di insoddisfazione tangibile, che va oltre le parole pronunciate davanti ai microfoni, che si manifesta anche nella sua prossemica. Tempo tre giorni e il suo linguaggio del corpo cambia radicalmente: la Juventus batte anche l’Udinese – naturalmente con il punteggio di 1-0, il quinto 1-0 stagionale, quota record per i primi cinque campionati europei top – e stavolta Allegri si presenta sorridente ai microfoni, soddisfatto di una squadra che «ha difeso bene ed è stata brava perché ha pressato in avanti: i nostri avversari non sono mai entrati in area e questa è la cosa più importante. A Cremona abbiamo fatto buona prestazione a livello di attenzione, oggi abbiamo fatto meglio».
Il senso della difesa, da intendersi come condizione indispensabile per raggiungere un obiettivo individuale e collettivo, è uno dei mantra preferiti di Allegri, la sua personale coperta di Linus, uno di quegli aspetti che non manca mai di sottolineare nelle interviste e nelle conferenze stampa, al pari della partita «da giocare bene tecnicamente». Per questo, se ne facciamo una questione puramente numerica e statistica risulta difficile capire come e perché, per Allegri, ci sia stata così tanta differenza tra due prestazioni in realtà molto simili, arrivate a pochi giorni di distanza l’una dall’altra. La Juventus sta vivendo una fase di profondissimo overperforming difensivo, un’anomalia fuori scala che non conferma le regole piuttosto tende a riscriverle attraverso termini e modalità che non sono replicabili o ripetibili. Stando ai dati raccolti da FBref, infatti, nelle otto vittorie consecutive – con altrettanti clean sheet – che hanno permesso alla Juventus di scalare sei posizioni in classifica, dall’ottavo al secondo posto, la probabilità che i bianconeri non subissero gol in relazione alla quantità e alla qualità delle occasioni concesse era appena dello 0,13%, a fronte di un numero di expected goals concessi in stagione di molto superiore a quello della Roma (17,9 a 12) ma con meno della metà delle reti al passivo (7 contro 16).
Che si tratti di casualità (ad oggi sono otto i tiri degli avversari respinti da palo o traversa), di imprecisione degli attaccanti o di grande rendimento dei due portieri – in questo post su Facebook lo scout Francesco Federico Pagani ha evidenziato come Szczesny e Perin sono i primi due nella classifica stilata in base alla differenza tra gli expected goals on target fronteggiati ed i gol incassati – più che di una Juventus che difende bene e con efficacia, si dovrebbe parlare di una Juventus che sembra partecipare a una partita di poker con un atteggiamento fin troppo avventato, che sembra giocare costantemente al rialzo nonostante le probabilità di successo siano contro di lei, scommettendo ogni volta contro l’evidenza dei fatti e delle statistiche e riuscendo comunque ad uscirne vincitrice. Non a caso su Twitter, nel mare magnum dei meme ridanciani a sfondo esoterico che vedono in Allegri una sorta di Lord Voldemort in grado di evocare ogni tipo di forza oscura per realizzare i suoi propositi di rimonta, c’è persino chi ha paragonato le partite della Juventus a una roulette russa con cinque proiettili e un vuoto. E il vuoto, manco a dirlo, è uscito per otto volte consecutive.
Ovviamente non è realistico pensare che la Juventus, e quindi Allegri, affidino le sorti della propria stagione al caso o all’equivalente calcistico dell’all-in su testa o croce, eppure queste immagini risultano di facile impatto. Perché, come già spiegato, i numeri non dicono la verità, o comunque non la dicono del tutto. Soprattutto nella misura in cui si cerca di dare una spiegazione razionale a questa distanza tra reale e percepito, alla netta differenza tra la qualità delle prestazioni offerte – dal punto di vista difensivo, ma non solo – e i risultati ottenuti da una squadra che dà sempre l’impressione di fare il minimo indispensabile per scelta più che per una reale necessità dettata dalle difficoltà e dalle situazioni contingenti. La questione prescinde dagli aspetti tecnici, tattici, o dall’insostenibilità di un sistema organizzato per blocchi posizionali piuttosto bassi in un contesto diverso da quello della Serie A – si vedano, ad esempio, i 12 gol incassati nelle sei gare del girone di Champions. Piuttosto riguarda l’approccio filosofico che Allegri ha nei confronti della singola partita, per non dire del calcio stesso, del gioco in quanto tale. Un approccio costruito sull’idea di un culto della difesa come elemento identitario e di autodeterminazione in campo e fuori, la pietra angolare su cui edificare quella percezione di solidità, anzi di invulnerabilità, cui ha legato a doppio filo la sua iconografia di allenatore vincente e di successo.
Il suo capolavoro, in questo senso, è rappresentato, dalle sfide contro Barcellona e Monaco nella Champions League 2017: allora, contro due attacchi da oltre 300 gol complessivi in stagione, la Juventus incassò una sola rete in 180′ – quella di un diciottenne Mbappé nella semifinale di ritorno allo Stadium, peraltro a qualificazione già abbondantemente raggiunta. Ma quella era la Juventus della BBBC ai massimi storici, l’unica squadra al mondo in grado di realizzare l’utopia allegriana di non concedere nulla, ma nulla davvero, all’avversario, a prescindere dalla forza effettiva, dai giocatori a disposizione, del sistema adottato; questa, invece, è una Juventus diversa, meno matura e consapevole – e, quindi, meno forte in senso assoluto – che può esaltarsi fino a un certo punto sguazzando nell’epica guerriera e primordiale da “noi contro tutti” che ha caratterizzato le grandi imprese del quinquennio d’oro. E che in virtù di tutto questo deve trovare certezze vecchie e nuove in qualcosa d’altro, qualcosa di diverso, qualcosa che vada bene in questa dimensione spazio-tempo in cui Barzagli e Chiellini non ci sono più e Bonucci è ormai la proiezione sbiadita del grande marcatore che fu.
Il fatto che Allegri nel momento peggiore – suo, ma anche della Juventus – abbia scelto di riproporre quello che sa fare e sa far fare meglio, rifugiandosi all’interno di una comfort zone che aderisce perfettamente al ruolo dell’allenatore minimalista e anti-sistema catapultato nell’epoca delle rivoluzioni perenni di Guardiola, Klopp e Nagelsmann, non rappresenta per forza un ritorno al passato. Questo dipende dal materiale umano a disposizione, certo, ma anche dai risvolti psicologici e comunicativi di una dialettica che non è più così efficace come un tempo e che si sostanzia nell’estremizzazione cercata e voluta di concetti che sono validi e verificabili solo fino a un certo punto. Nell’epoca in cui essere ciò che si racconta è diventato molto più importante del raccontare ciò che si è in realtà, Allegri ha più volte ribadito la centralità e l’importanza del difendere bene – o di quello che, secondo lui, significa difendere bene, quindi con molti uomini e fare densità all’interno della propria trequarti – nonostante i fatti abbiano spesso detto il contrario. Come in occasione del massacro del Da Luz del 25 ottobre scorso, quando i gol del Benfica di Roger Schmidt furono solo quattro e la Juventus mostrò un’interpretazione sconcertante della fase di non possesso. «Abbiamo regalato tre gol, ma più in generale siamo stati troppo leggeri su tutte le reti subite», disse Allegri nel post partita in maniera anche piuttosto semplicistica, alimentando il sospetto che la sbandierata necessità del difendere bene fosse un artificio retorico prima ancora che qualcosa di davvero importante, qualcosa da curare in maniera maniacale perché costituisce il discrimine tra la vittoria e la sconfitta, tra una stagione vincente e una fallimentare.
Nell’autunno del 2014, al termine di una gara contro il Genoa che la Juventus perse nel recupero dopo averla dominata per lunghi tratti, Allegri spiegò che «quando non si può vincere bisogna cercare di non perdere». Nel corso degli anni è come se questo principio fosse stato estremizzato a tal punto da trasformarsi in una specie di “visto che non si può perdere allora si può provare a vincere”, magari per 1-0, magari nei minuti finali, anche se mancherebbero i giocatori e i presupposti per credere che sia davvero così, che questo sia davvero il sistema per farcela. La Juventus non è, non può essere – o non può esserlo in maniera efficiente ed efficace, almeno in questo preciso momento storico – la squadra che esprime al meglio l’idea dell’arte del difendere, la squadra che quasi gode nel sentirsi costantemente assediata nella propria metà campo e nel frustrare qualsiasi iniziativa avversaria; eppure Allegri in qualche modo ha convinto – e sta convincendo – tutti che può essere ancora così, nonostante i dati sulle troppe occasioni concesse, i numeri che dovranno prima o poi aderire a un rendimento non ottimale, le evidenze oggettive e visive di ciò che accade sul campo. Ed ecco che allora il senso della difesa diventa qualcosa di intangibile ed aleatorio, qualcosa che non trova riscontri fattuali ma che pure esiste, una formidabile arma psicologica da brandire nei momenti difficili, un espediente come un altro per sopravvivere in attesa di tempi e anche di difese migliori. Nei fatti, non solo nelle intenzioni.