Ci sarà sempre un prima e un dopo. L’immagine di Cristiano Ronaldo a testa china e quella di Youssef En-Nesyri, capocciata da semifinale, a profanare la storia dei Mondiali: il Marocco tra le prime quattro a Qatar 2022 è stata un’agognata première, mai una Nazionale africana si era arrampicata così in alto. Qualcosa di atteso da generazioni, eppure puntualmente rinviato attraverso plurime eliminazioni ai quarti – fatali a Camerun (1990), Senegal (2002) e Ghana (2010). Quasi tre anni dopo, il calcio africano si guarda allo specchio e sorride: quella notte non resterà un’eccezione, ma anzi sta facendo da apripista a un movimento intero. Che nel frattempo continua ad accumulare talento – quello non era mai mancato – e si sta scrollando di dosso i rami secchi. Obiettivo: colmare il gap calcistico con il resto del mondo. Come mai era successo finora.
Il cambiamento è ancora dietro le quinte e non sempre si vede. Anche all’ultimo Mondiale per Club, nessuna della quattro africane partecipanti – Wydad Casablanca, Esperance Tunis, Al Ahly e Mamelodi Sundowns – è riuscita a passare il primo turno. Qualcuna si è fatta notare per un certo successo di pubblico, volato in massa sin dall’Egitto per riempire gli stadi americani dove giocava l’Al Ahly. Qualcun’altra ha ben figurato sul campo: il Mamelodi ha chiuso con quattro punti, spaventando il Borussia Dortmund (pirotecnico 4-3) e venendo eliminato soltanto dal pareggio a reti bianche contro il Fluminense, futuro semifinalista del torneo. Più di questi sprazzi, conta però la struttura alle spalle delle squadre.
I sudafricani del Mamelodi sono in questo senso il simbolo della nuova fase. Non tanto per il dominio calcistico in patria, sfidando i vertici del continente – come l’Al Ahly, per esempio, aggiungendovi però un altrettanto competitivo settore femminile – ma per il presidente che ha innescato l’ascesa. Si chiama Patrice Motsepe, è un magnate dell’industria mineraria e figura tra i dieci uomini più ricchi d’Africa. Soprattutto, dal 2021 è anche il numero uno della Confédération Africaine de Football – la Federcalcio continentale. Un organo di potere martoriato da malagestione e corruzione cronica, ripetutamente incapace di sfrutturare qualunque volano di sviluppo a disposizione. Come racconta New Lines Magazine, in un lungo articolo di approfondimento, Motsepe ha ereditato un’istituzione travolta dai debiti – oltre 157 milioni di dollari – e praticamente senza più liquidità in seguito a sperperi e iniziative fallimentari. Nel giro di pochi anni, il nuovo presidente ha avviato una faticosa operazione di risanamento finanziario e restituito credibilità a un’organizzazione che l’aveva persa da un pezzo.
Oggi all’interno della CAF si riconosce così «un chiaro cambio di governance, nel segno dell’integrità e dell’effettivo supporto ai paesi membri». La differenza fondamentale, quasi una garanzia sul progetto, è che se i dirigenti pregressi arrivavano a sfruttare la Federcalcio per scopi di arricchimento personale – una tendenza purtroppo non esclusiva all’Africa – questo rischio con Motsepe non si presenta più. Perché fra tutti gli asset nel portafoglio di un imprenditore già miliardario, la CAF è di gran lunga il meno redditizio. E tra le altre cose lui fa parte del Consiglio di amministrazione del World Economic Forum. Dove il Mondiale in Sudafrica aveva fallito, insomma, può riuscire il presidente sudafricano.
È una differenza fondamentale rispetto al passato: permettere di fare sistema a campionati isolati, infrastrutture carenti e a un serbatoio di giovani disperso lungo le vie del calcio è la prerogativa essenziale verso un duraturo sviluppo organico. Si pensi al paradosso della Nigeria, che conta in bacheca più Mondiali Under 17 (cinque) di qualunque altro paese. Da decenni però, a livello di club o Nazionale maggiore non c’è quasi mai stato un reale seguito di quelle vittorie. Servono dunque input chiari e strutturali, come quelli disposti dal Marocco – sia pure per fare del calcio uno strumento di governo e orgoglio nazionale, per espresso volere di re Mohammed VI. Oggi si può dire che il sovrano ci è riuscito. E sotto l’egida della Federcalcio marocchina prolifera un’affermata scuola di allenatori, centri sportivi all’avanguardia e ampia valorizzazione dei vivai. I trionfi di Ziyech e Hakimi sono soltanto la punta dell’iceberg.
Al Marocco che traccia la via e alla CAF rivoluzionata che tiene dritta la rotta, si aggiunge poi un sentimento comune sempre più frequente fra i professionisti dei top club. Magari giocano e si affermano in Europa, ma oggi, a differenza di non troppi anni fa, i campioni si scrollano di dosso la soggezione post-coloniale e scelgono di rappresentare la loro rappresentativa africana di riferimento. Hakimi, nato in Spagna, è forse il caso più eclatante. Ma non è l’unico: Brahim Díaz segue le sue orme, mentre Kalidou Koulibaly – nato in Francia – e Alex Iwobi – in Inghilterra – fanno lo stesso per Senegal e Nigeria. Succede sempre più spesso, per ora senza altri exploit in termini di risultato. Ma ci vuole tempo. E stavolta gli ingredienti ci sono tutti. Il prossimo Mondiale dirà se l’Africa sarà pronta davvero.