Il calcio africano sta assomigliando sempre di più a quello europeo?

Da quando le Federazioni locali hanno iniziato a reclutare e a formare giocatori come si fa nel nostro continente, le cose sono cambiate. In meglio.

Una volta, intervistato da una nota emittente africana, il celebre attore beninese Djimon Honsou, candidato due volte per l’Oscar come miglior attore non protagonista, ha svelato il segreto del suo successo: «Mi piace mescolare storie africane e stile occidentale». Una filosofia, evidentemente, sposata anche dalla CAF, come testimoniano le ultime modifiche al format della Coppa d’Africa, diventato extralarge (24 partecipanti) sull’esempio dell’Europeo. Anche la scelta di spostare il torneo in estate, presa nel 2019 per venire incontro alle esigenze dei top club – mai troppo contenti di liberare i propri tesserati nel momento topico della stagione – era stato un tentativo di ispirarsi al modello europeo. Una rivoluzione durata, però, il tempo di una sola edizione, quella del 2019, giocata nell’arsura egiziana. Alla fine, come sempre, è stata la natura a trionfare sull’uomo. Così come quella di due anni fa in Camerun, anche la 34esima edizione della Coppa d’Africa, inizialmente programmata in Costa d’Avorio tra giugno e luglio, si sta giocando invece nell’inverno boreale. Motivo principale: le condizioni meteorologiche.

Se giocare in inverno, nel pieno della stagione, è forse l’ultimo baluardo di una tradizione antica a rimanere in piedi, per tutto il resto la Coppa d’Africa guarda all’Europa, diventando sempre più appetibile per il pubblico europeo. Anche perché sempre più giocatori africani militano in Europa, favorendo un’operazione di identificazione e riconoscimento da parte degli spettatori al di sopra del Mediterraneo. Secondo un report pubblicato da Football Benchmark, intitlato “La potenza africana in Europa”, a novembre 2021 c’erano oltre 500 giocatori africani nelle 11 migliori leghe europee, ovvero circa il 6% della base totale di giocatori. La pattuglia più nutrita proveniva dall’Africa subsahariana, con gli Stati dell’Ovest a dominare la graduatoria: Senegal, Marocco e Nigeria producevano il maggior numero di giocatori presenti nei campionati europei – rispettivamente con 62, 55 e 54 tesserati– seguiti a ruota da Costa d’Avorio (50), Ghana (46), Algeria (32), Mali (32), Camerun (28), Repubblica Democratica del Congo (23) e Guinea (13). La Ligue 1, anche per ovvie contiguità linguistico-culturali retaggio del periodo coloniale, resta la meta preferita dei calciatori africani: a novembre del 2021, alla lega francese ne erano iscritti ben 107. Davanti per distacco a Pro League belga (82), Süper Lig turca (82), Primeira Liga portoghese (48), Premier League inglese (44), Serie A italiana (42), Bundesliga tedesca (29), Eredivisie olandese (28), Liga spagnola (25), Premier Liga russa (18) e Bundesliga austriaca (9).

Come fa notare KPMG, non è raro che una grossa fetta di giocatori africani scelga di rappresentare la propria terra d’origine, senza aver mai giocato nella lega professionistica di quel Paese. Anzi, si tratta di un trend in rapida e costante ascesa. Ultimamente le Nazionali, specie quelle nordafricane (ma non solo), hanno cominciato a fare scouting alla stregua dei club, allestendo delle vere e proprie reti di osservazione e reclutamento per intercettare i migliori talenti delle diaspore europee. Il radar delle federazioni è puntato soprattutto sulla Francia, e non è un caso. Per citare un dato relativo agli ultimi Mondiali, 34 calciatori con passaporto francese sono scesi in campo con la maglia di una Nazionale africana. A guidare questa speciale classifica era la Tunisia (10) di Wahbi Khazri, match winner proprio contro i Bleus, seguita da Senegal (9), Camerun (8), Ghana (4) e Marocco (3)

L’Algeria, in questo senso, è stata una delle prime federazioni a usare questo tipo di approccio. La FAF ha addirittura istituito un programma, denominato “progetto radar” e fortemente voluto dall’ex presidente Kheirredine Zetchi, per scovare e attrarre giocatori in giro per l’Europa. «Io stesso sono figlio dello scouting», ha raccontato Mansour Boutabout, centravanti algerino con all’attivo sei reti in Nazionale tra il 2003 e il 2008, in una recente intervista a So Foot. Le Volpi del Deserto sono già una delle Nazionali nordafricane con la maggior presenza di atleti con doppio passaporto, ma nei prossimi anni la quota è destinata ancora ad aumentare. Houssem Aouar è stata una delle ultime new entry: «Ho un legame molto forte con l’Algeria, ci andavo ogni estate», ha spiegato il trequartista della Roma.

Il Marocco ha percorso una strada simile. Dei 26 convocati per l’ultimo Mondiale, 14 erano binazionali formati all’estero: 4 nei Paesi Bassi, 3 in Belgio, 3 in Francia, 2 in Spagna, 1 in Canada e 1 in Italia. Eppure, sotto il punto di vista della formazione e dello sviluppo dei calciatori, diversi passi avanti sono stati compiuti anche a livello locale. Il merito è soprattutto dell’Accademia Calcistica Mohammed VI, una sorta di Coverciano in salsa marocchina. Situata a Salé, alla periferia della capitale Rabat, l’Accademia calcistica che porta il nome del sovrano è la culla del calcio marocchino. «È una struttura molto importante che si pone al servizio di tutto il calcio nazionale», sottolineava l’allora direttore tecnico nazionale Jean-Pierre Morlans. Operativa da settembre 2009, e destinata alla formazione di giovani calciatori dai 12 ai 18 anni, l’Accademia è diventato serbatoio d’elezione per tutte le selezioni nazionali, producendo la nuova generazione di calciatori marocchini, tra cui Yousef En-Nesyri, Nayef Aguerd e Azzedine Ounahi, tre pilastri della Nazionale che in Qatar è diventata la prima rappresentativa africana a spingersi sino a una semifinale mondiale.

In Algeria, invece, la centrale riconosciuta del talento è Il Paradou Athletic Club, o meglio la sua accademia fondata nel 2007. A gestirla per diversi anni è stato il compianto Olivier Guillou, nipote di quel Jean-Marc riconosciuto unanimemente come l’architetto della generazione d’oro della Costa d’Avorio, che nel 2008 ne ha così spiegato i principi: «Lavoriamo molto sulla tecnica, sui passaggi corti e i movimenti per creare linee di passaggio», raccontava. «Non bisogna mai dimenticarsi di far “vivere” il pallone e di divertirsi giocando da squadra». I frutti di questo approccio sono arrivati nel corso degli anni: tra gli altri, il Paradou ha formato diversi giocatori delle Fennecs, tra cui Ramy Bensebaini e Youcef Atal.

Il Senegal campione in carica non aveva mai vinto la Coppa d’Africa prima del trionfo del 2022, ma aveva raggiunto per due volte la finale: nel 2002, quando fu sconfitto dal Camerun, e nel 2019, quando perse contro l’Algeria (Daniel Beloumou Olomo/AFP via Getty Images)

Mentre il Nord guarda con maggiore attenzione alle diaspore, nel West Africa continua ad espandersi il fenomeno delle accademie, fondate e/o gestite in collaborazione con partner europei. Dietro ai recenti successi del Senegal acchiappatutto, che negli ultimi due anni ha vinto qualsiasi cosa a livello continentale dai senior alla U17, si nasconde il ruolo svolto dalle tante accademie spuntate nel Paese all’alba del nuovo millennio. Da queste strutture il Senegal ha tratto il talento necessario per il rilancio dopo anni di vacche magre. Una quota piuttosto corposa di giocatori che in questi anni hanno fatto le fortune della Nazionale di Aliou Cissé si è formata tra Génération Foot, Oslo Football Academy e Diambars, l’accademia fondata da Patrick Vieira a Saly insieme ad alcuni soci. Tra tutte si è distinta la Génération Foot di Dakar, la culla di Ismaila Sarr e Sadio Mané, vera e proprio locomotiva della rinascita calcistica senegalese. Fondata nel 2000 da Mady Touré, con gli anni la GF si è data una struttura professionale, stipulando nel 2003 un partenariato con i francesi del Metz. «Progetti come quello della Génération Foot e della Diambars permettono all’intero movimento di fare passi avanti. Se il Senegal ha ottenuto buoni risultati negli ultimi anni, è anche grazie a queste accademie, che noi dobbiamo incoraggiare», ha spiegato Augustin Senghor, il presidente della federazione senegalese.

L’arrivo di addetti ai lavori europei nell’area è stato determinante. Un allenatore francese, Jean-Marc Guillou, è stato all’origine dei successi di Costa d’Avorio e Mali. Nel 1993 l’ex centrocampista di Angers e Nizza è sbarcato ad Abidjan e ha cambiato per sempre la storia del calcio in Costa d’Avorio. Come prima cosa, subito dopo aver preso confidenza con la città, a Sol Béni ha fondato un’accademia giovanile all’avanguardia, l’unica in Africa in quel momento: «L’Accademia Mimosifcom ha dimostrato che con un lavoro metodico e serio si può formare un’élite africana in grado di affrontare i migliori europei», ha raccontato lo stesso Guillou. La prima, storica qualificazione degli Elefanti ad un Mondiale, obliterata nel 2005, è stato un lungo percorso a tappe cominciato proprio a Sol Béni. C’è una partita che meglio di ogni altra racchiude l’essenza della leggenda degli Académiciens: la finale di Supercoppa africana del 1999 contro l’Espérance di Tunisi. In campo, con la maglia giallonera addosso, quella sera c’erano Boubacar Barry, Kolo Touré, Didier Zokora, Siaka Tiéné e Aruna Dindane. Praticamente l’intelaiatura della Costa d’Avorio guidata poi da Didier Drogba e destinata a volare in Germania nel 2006.

Dopo un divorzio traumatico con l’ASEC per divergenze sulle strategie operative, la storia di Guillou è proseguita in Mali, dove ha fondato la JMG Academy. La prestigiosa accademia di Bamako, legata dal 2015 al Salisburgo, ha fatto da incubatrice per talenti come Amadou Haidara, Diadie Samassekou, Mohamed Camara, Douda Guindo, Sekou Koita, Youba Diarra, Mamady Diambou, tutti successivamente volati in Austria, nel quartier generale della Red Bull. «In Mali cercheremo di non fare gli stessi errori fatti in Costa d’Avorio», ha annunciato Mamadou Wad, amministratore e braccio destro di Guillou alla JMG, alludendo agli insuccessi della generazione d’oro degli Elefanti, incapace di conquistare la Coppa d’Africa, poi arrivata solamente nel 2015.

In Ghana, invece, la figura chiave è stata quella di Tom Vernon. Nel 1999, l’allora caposcout del Manchester United ha posato la prima pietra della Right to Dream Academy. In venti anni di attività, l’accademia ha sfornato oltre 140 diplomati, tra cui la stellina della nazionale Mohammed Kudus, ed è oggi considerata a ragione uno dei più floridi vivai dell’Africa subsahariana. La vera svolta, però, è arrivata nel dicembre 2015, quando la Right To Dream ha rilevato l’FC Nordsjaelland, un club di massima divisione danese, mettendo subito Vernon al timone in qualità di presidente. Si è trattato di un fatto epocale: per la prima volta, infatti, un sodalizio africano metteva le mani su una una società europea. I benefici dell’operazione erano evidenti: la partnership con l’FCN, un club fondato nel 2003 sulle ceneri del Farum Boldklub, ha permesso ai migliori talenti forgiati dall’accademia di confrontarsi con un contesto di gioco europeo, sperimentando sin da subito un livello di gioco più elevato, e quindi di accelerare il percorso di crescita.

Il Camerun, invece, poggia ancora sulle robuste spalle di Vincent Aboubakar, protagonista nel 2017 dell’ultimo trionfo dei Leoni Indomabili con un gol in finale. Solo uno dei gioielli più preziosi prodotti dall’École de football des Brasseries, insieme ad altri attaccanti come Clinton Njie e Ignatius Ganaogo, o il centrocampista Carlos Baleba, la pepita prelavata a suon di milioni dal Brighton di De Zerbi dopo un breve passaggio al Lille, in Ligue 1. Fondata nel 1989 dalle Brasseries du Cameroun, etichetta birraria legata al gruppo francese Castel, l’accademia è una vera e propria istituzione del calcio camerunese. Eppure non vanta ancora agganci diretti, sotto forma di partenariati e collaborazioni, con club europei. L’obiettivo dichiarato del direttore generale Jean Flaubert Nono, iconico e roccioso difensore del Lione negli anni ‘80, è quello di trovarne uno nei prossimi anni. «Lavoriamo con ragazzi dai 12 ai 18 anni. Sono giovani, ma hanno già degli obiettivi ben chiari. Il nostro compito è lavorare per aiutare a realizzarli», ha raccontato a France 24.

La Nigeria, infine, può vantare un parco offensivo da far invidia a chiunque. Un tesoro prodotto in larga parte dalle accademie. La Nigeria, infatti, è uno dei Paesi africani con la maggiore concentrazione di accademie private, comprese quelle gestite dai club europee o aperte da ex calciatori, come la Papilo Football Academy di Nwanko Kanu o la Simoben di Victor Moses. La Ultimate Strikers di Lagos, dove è sbocciato il talento di Victor Osimhen, è una delle più celebri. Della stessa città è anche il Real Sapphire, club in cui si è formato Victor Boniface. È stata voluta fortemente da Frank Peters, il tycoon a capo del club, con l’obiettivo di sviluppare il calcio di base e valorizzare il talento nigeriano. «Ho osservato molte squadre di calcio in Europa. Dopo averle studiate attentamente, con particolare attenzione ai loro modelli di sviluppo giovanile, abbiamo deciso di creare la Real Sapphire Football Academy. Sono convinto che siamo sulla strada giusta e sono determinato a realizzare appieno le potenzialità del nostro Paese nel calcio», ha spiegato Peters.

Da Undici n° 54