Il Masters 1000 di Cincinnati è stato il primo torneo a cui Marco Panichi, romano classe 1964, si è presentato come preparatore atletico del numero 9 del mondo, Holger Rune. Panichi vanta un’esperienza trentennale nel mondo del tennis dopo un trascorso da professionista nell’atletica leggera. Nella sua carriera spiccano in particolare gli anni trascorsi nel team di Novak Djokovic (2019-2024) e gli ultimi otto mesi passati insieme all’attuale numero 1 del mondo, Jannik Sinner, con cui ha interrotto la collaborazione alla vigilia del torneo di Wimbledon. In questi anni, Panichi è sempre stato affiancato dal fisioterapista Ulises Badio, ma la nuova avventura insieme al top 10 danese è iniziata senza il suo ex collega.
A Cincinnati sono le 10 del mattino quando chiamo Panichi. Mi risponde al telefono prima di iniziare un allenamento personale in palestra. Nel pomeriggio partirà insieme a Rune e il resto del team per New York, dove li aspetta una grande prova, l’ultimo Slam dell’anno: lo US Open. Il giorno prima della nostra telefonata, Rune è stato eliminato ai quarti di finale dalla sorpresa più grande del Masters 1000 dell’Ohio, Terence Atmane, con il punteggio di 6-2 6-3. Una vittoria che ha concesso al francese, arrivato dalle qualificazioni e senza sponsor tecnico, di entrare per la prima volta in carriera tra i top 100 del ranking ATP e di regalarsi la semifinale – poi persa – contro Jannik Sinner.
In passato, Panichi è stato al fianco di altri giocatori, tra cui Fabio Fognini, Simone Bolelli, Philipp Kohlschreiber, Na Li, Francesca Schiavone, Daniela Hantuchova e Angelique Kerber. Stesso sport ma “macchine umane” sempre diverse, alle quali un preparatore atletico deve sapersi adattare, in modo da capirne le esigenze. Non c’è una ricetta uguale per tutti, mi spiega Panichi, ma alcuni ingredienti sono sempre fondamentali: fiducia, onestà e tanta comunicazione. E poi c’è quella cosa che gli permette di fare la differenza nel team di un top player: «L’esperienza. Che in questo lavoro è tutto, perché non ti fa ripetere gli stessi errori».
Come sei diventato un preparatore atletico nel tennis?
Se vogliamo iniziare dal principio, parliamo di un’epoca quasi in bianco e nero (ride, ndr). Facevo atletica leggera, ero un atleta delle Fiamme Gialle. Un ex allenatore di atletica leggera ha visto che seguivo dei bambini e che mi piaceva aiutarli, allora mi ha proposto di dargli una mano con un gruppetto di giovani tennisti. Avevo 18 anni e da quel momento con il tennis è stato amore a prima a vista.
Hai lavorato al fianco di tantissimi professionisti, tra cui due numeri 1 del mondo: Djokovic (per sei anni) e Sinner nell’ultimo anno. Quanto è stato difficile passare da un fisico a un altro, considerando soprattutto la differenza di età tra loro due?
Diciamo che il mio lavoro è quello di cucire un abito intorno all’atleta che devo seguire. Per quanto lo sport sia lo stesso, sono tutte macchine umane molto diverse tra loro. L’esperienza e la bravura nel comunicare sono i due fattori che fanno più differenza, mentre i parametri di allenamento sono tanti. Quando ho iniziato con Nole aveva 30 anni, quindi un fisico già maturo, mentre oggi mi ritrovo a lavorare con Holger Rune, un 22enne che ha bisogno di tutt’altro. La bellezza di questo lavoro è proprio quella: adattarsi alla persona e alle sue esigenze.
Quanto è importante per te l’alimentazione da associare alla preparazione fisica? È un aspetto del quale ti occupi o lasci che sia il giocatore a preoccuparsene?
È un aspetto importantissimo, soprattutto quando si tratta dei giocatori con cui lavoro, a un livello molto alto. È una cosa che fa parte dell’intero pacchetto di allenamento e a cui prestiamo molta attenzione. Poi dipende un po’ chi hai di fronte: sai, ci sono giocatori che sono più o meno sensibili su questo tema, Nole per esempio è sempre stato un giocatore particolarmente attento all’alimentazione. In generale, credo che ad alti livelli ci sia bisogno di professionisti del settore, quindi veri e propri nutrizionisti.
Come dicevi tu prima, hai iniziato da poco a lavorare con un altro top 10: Holger Rune. La prima domanda che vorrei farti è: quanto tempo ci vuole per capire come valorizzare la prestazione fisica di un’atleta?
Con Holger ci stiamo ancora conoscendo, così come con il resto del team. Il primo periodo è molto di osservazione, di comunicazione, c’è uno scambio di idee e di pareri con tutto il team. Vado in campo con lui, cerco di capire bene quali siano le sue caratteristiche fisiche, i punti di forza e quelli più deboli. Al tempo stesso credo che sia importante instaurare un rapporto di fiducia e delle piccole chiavi di motivazione per spronare il giocatore. Il primo imprinting del rapporto è sempre il più importante, bisogna essere onesti e dire quello che si pensa fin da subito. Per me è una delle chiavi fondamentali.
Con Rune che obiettivo vi siete dati?
Lui è un giocatore molto istintivo, adesso dobbiamo farlo diventare più consistente e più consapevole di tante cose. Ha un grandissimo potenziale. Fino a oggi ha vissuto un tennis molto istintivo e ha già fatto un ottimo lavoro. Noi ora dobbiamo cercare di supportarlo, sviluppando un gioco che vada oltre l’istinto e ampliandone il bagaglio tecnico.
Posso chiederti come mai questa volta Ulises Badio non è venuto con te?
In questo caso Holger aveva già un ottimo fisioterapista nel team, con cui si trova molto bene, e non aveva intenzione di cambiare. Quindi la situazione non mi permetteva di andare con Badio.
Quando inizi a collaborare con un giocatore, inizi a collaborare anche con altri membri del team e spesso con la sua famiglia. Cosa ne pensi di questo aspetto del tuo lavoro?
Per esempio, in questo caso c’è la mamma di Holger che lo segue sempre e ha un ruolo importante nel progetto. Parliamo di un ragazzo molto giovane, quindi è ovvio che il rapporto con la mamma sia importante. Dobbiamo sempre ricordarci che senza genitori noi non avremmo i giocatori e spesso diventano parte integrante del team. Il tennis visto da fuori sembra uno sport solitario ma se ci pensi è uno dei più grandi sport di squadra perché la proporzione di persone intorno al singolo giocatore è notevole. Ci sono tante figure itineranti intorno al tennista, un po’ come intorno alle macchine di Formula 1, dove ci sono delle zone di competenza molto ampie. Senza tutte quelle persone, la macchina non funzionerebbe. Lo stesso vale per il tennista. Il tempo che passiamo insieme a giochi fermi, per esempio la sera a cena, secondo me è dove prende vita il vero “team building”.
Qual è stato nel corso della tua carriera, il professionista e la vittoria che ti ha dato più soddisfazione?
Le vittorie negli Slam hanno sempre avuto un significato diverso, molto importante. Ma anche se rischio di sembrare troppo romantico, devo dire che tutte le volte in cui ho lavorato con degli atleti e gli ho visti migliorare sia dal punto di vista umano che dal punto di vista del potenziale, quella è sempre stata la ricompensa più bella. Poi ripeto, gli Slam sono la soddisfazione più grande. Ma sapere che un atleta sarà felice anche nella vita post tennis per me è ancora più bello.
È più difficile lavorare con un ragazzo giovane che deve svilupparsi muscolarmente o è più difficile mantenere la muscolatura forte di un uomo che sta iniziando ad invecchiare?
Per me non c’è una cosa più facile o difficile. Sono tutte sfide continue dove bisogna trovare la soluzione più adatta. Per farlo bisogna pianificare un lavoro, sentire i feedback dell’atleta, che sono importantissimi e capire come andargli in contro. L’esperienza oggi mi sta dando una grossa mano perché è quella che ti aiuta a non ripetere gli errori del passato. Fa una grande differenza.
In un’intervista di qualche mese fa hai detto che il tuo sogno sarebbe lavorare nella tua squadra del cuore, la Roma. Quali credi che sarebbero le differenze tra la preparazione di un tennista e quelle di un calciatore?
Era una frase detta da tifoso accanito, abituato a soffrire da un po’ di tempo (ride, ndr). Non credo di avere l’esperienza per poter lavorare nel calcio, però mi piacerebbe vedere da dentro la preparazione della squadra. Tendenzialmente credo che gli anni passati sul campo siano super importanti in qualsiasi sport e io non avrei quegli anni di esperienza nel calcio.
Oltre ad essere un grande fan della Roma, sei anche un appassionato di mare e di vela. Ti è mai capitato di pensare che cos’hanno in comune il tennis e la vela?
Tutto ciò che galleggia sul mare mi piace: barca, vela, surf. Fin da ragazzino, per me il mare era il modo per stare con gli amici, il momento per socializzare. E sì, ci ho pensato molto a cos’hanno in comune la vela e il tennis: sono degli sport particolarmente introspettivi e devi conoscerti veramente bene in entrambi i casi. Chi invece fa le traversate in solitaria deve essere fisicamente e psicologicamente perfetto. Credo che in tutti gli sport, dal golf al calcio, ci siano tantissime cose che possono essere prese come insegnamento e trasferite da uno all’altro.
Quindi per un tennista credi sia importante avere un altro sport da vivere come hobby?
Assolutamente sì. Quando si parla di giovani soprattutto. Per esempio, io uso tantissime similitudini tra golf e tennis, perché la trasmissione di forza avviene per segmenti molto simili. Fortunatamente nei tornei di tennis ci sono spesso campi da golf vicino ai campi di allenamento e mi è capitato di andarci con i giocatori. Quel paio di orette, delle volte, può essere molto utile per spiegare un’azione biomeccanica del tennis che si ripete anche nel golf. È una chiave in più.