A Tokyo sono circa le 9:41 di mattina quando Iliass Aouani taglia il traguardo della maratona. Urla, si mette le mani in testa, abbraccia l’avversario sdraiato per terra: ha appena vinto una medaglia di bronzo storica. In quel preciso momento, dall’altra parte del mondo, tutta l’Italia sta dormendo. È notte inoltrata. Claudio Valisa è seduto sul divano di casa sua, da lì ha seguito tutta la gara. Conosce Iliass da anni, è stato il suo primo allenatore. Non può urlare, ma le immagini che scorrono in televisione si riflettono nei suoi occhi lucidi. Iliass ce l’ha fatta. Ero sicuro che avrebbe fatto una bella gara, è stata un’emozione forte. E allora Claudio ci ha portato a San Donato Milanese. Dove Iliass Aouani è cresciuto. O meglio: dove ha imparato a lottare, come dice il suo primo allenatore.
Iliass si veste, scende le scale e comincia a correre. Da Ponte Lambro arriva fino al centro sportivo Mattei di Milano. Lo fa tutti i giorni, andata e ritorno. Ha capito di avere delle buone doti nella corsa durante alcune gare studentesche. Si è divertito, qualcuno gli ha consigliato di buttarsi nell’atletica. E poi in fondo a lui correre piace, nonostante la fatica. Quindi i pomeriggi si sono riempiti di chilometri. Dall’altra parte della pista c’è anche Claudio Valisa. In zona il suo è un nome noto che viene quasi sempre accoppiato a quello di Gennaro Di Napoli. Claudio lo ha cresciuto, sa come si formano i campioni. Da lì è partita la corsa di Genny: Olimpiadi, record, vittorie. Un mezzofondista puro, un talento keniota nel corpo di un italiano. Claudio è rimasto al Mattei per continuare a formare gruppi di ragazzi. E un giorno decide di chiamarlo, quel ragazzino che corre da solo. «Veniva spesso al parco Ex Snam di Milano e correva da solo», racconta Visela a Undici – . Alla fine gli chiesi di unirsi al mio gruppetto di ragazzini, lui aveva tredici anni. Accettò, questa fu la mia fortuna. Era molto timido ma scrupoloso. Non saltava mai un allenamento, acqua o pioggia che fosse. Iliass arrivava da Ponte Lambro di corsa, si allenava e tornava di corsa. Sempre presente, sempre determinato. Aveva un difettuccio: tendeva ad andare sempre un po’ più forte. Spesso quando esagerava lo mandavo a casa. Lui si arrabbiava, ma d’altronde doveva rispettare il ritmo dell’allenamento. Era un modo per stimolarlo, se gli avessi detto “sisi tranquillo” non sarebbe finita mai. Devo dire che successe soltanto due volte».
Iliass, insomma, voleva correre. Usava il suo talento per allontanarsi da una realtà spesso troppo complessa. C’erano lui e la pista. Lì sono nati i suoi successi: l’oro agli Europei e la medaglia di bronzo di Tokyo. Quella costruita tra le case popolari, come ha detto lui. «Ragazzi come Iliass emergono proprio perché alle radici hanno delle problematiche. Sanno cosa vuol dire soffrire, hanno imparato a lottare e stringere i denti. Uno ragazzo agiato alla prima difficoltà si ferma. Iliass non aveva molte alternative per emergere. Il suo modo di sfogarsi era quello di correre. Lui aveva il suo sogno e l’ha realizzato. Ci ha messo un po’ di anni, ma nonostante le disavventure e i momenti difficili ce l’ha fatta con determinazione. È caduto, si è risollevato, non si è lasciato andare».
Dentro il libro di uno sportivo c’è sempre il momento che decide una carriera. Il bivio che fa tremare le gambe. Quello di Iliass si è materializzato in due scelte: Italia o America, il comfort di casa o il salto nel vuoto. A casa, però, aveva poche opportunità. E considerando che non riuscì a entrare neanche in un gruppo sportivo, le possibilità di avere una carriera nell’atletica erano crollate intorno allo zero. Il biglietto per gli USA fu una borsa di studio. Iliass voleva un futuro diverso dal passato che lo aveva cresciuto fino a quel momento. Le strade per riuscirci erano tracciate: studio e atletica. Non aveva scelta, doveva partire. «Ne discutemmo tanto insieme», racconta Visela, «avrebbe dovuto fare un passo grande. Si fece coraggio e prese la decisione giusta. Lui sapeva che restando in Italia non sarebbe arrivato dov’è arrivato oggi».
L’America è lontana da San Donato Milanese. Ed è anche diversa. Parecchio diversa. Iliass diventa ingegnere e si allena con atleti olimpici. Corre sulle piste dei campionati universitari più prestigiosi, si misura con avversari nuovi. Potrebbe anche restare in America per portare avanti un master. Ma lui nel suo curriculum non vuole nomi di aziende o esperienze in giacca e cravatta. Gli piacerebbe scriverci una parola sola: atleta. Allora decide di tornare in Italia. Punto e a capo. Sa bene che è tutto da ricostruire, che l’atletica è senza risorse, che se in casa c’è Iliass è giusto che anche Iliass porti il suo contributo alla famiglia. Papà va in cantiere ogni mattina, il tempo scorre e le cose non cambiano. Forse dovrebbe mollare tutto e andare a lavorare. «Il momento più drammatico è stato quando è tornato dall’America», continua Visela. «Aveva due lauree in tasca, aveva ottenuto dei buoni risultati, ma era tutto da rifare. Le società che trovò non erano in grado di dargli un supporto. La sua voglia era quella di andare avanti, voleva fare atletica veramente. Sarebbe diventata una situazione difficile da gestire anche in famiglia, correva senza portare a casa niente. Sentiva questo peso, si sentiva in colpa per non riuscire a dare il suo sostegno. Soffriva tantissimo, passavano i giorni e non trovava una soluzione. Io mi proposi per aiutarlo negli allenamenti, ma mancavano strutture e società. Non bastava. Qualcosa si smosse quando iniziò il percorso insieme a Massimo Magnani a Ferrara. In quel modo non doveva piangere su stesso ogni volta che entrava in casa, trasferendosi poteva correre e avere i mezzi giusti per farlo. Quando le Fiamme Azzurre lo hanno preso si è tolto un bel po’ di preoccupazioni». Erano di nuovo Iliass e la pista. E basta. Sappiamo tutti com’è andata a finire.
Dopo aver vinto il bronzo mondiale, quando ha parlato ai microfoni delle televisioni, Iliass Aouani ha motivato chiunque. Ha lottato per arrivare sul tetto del mondo con i più forti del mondo. Ha gridato dei messaggi dal valore unico. Claudio lo ascolta, di notte, sul divano di casa sua. È fiero di Iliass. «Userò la sua esperienza con ragazzi e genitori. Magari esistono atleti più dotati di Iliass, ma si sono persi per vari motivi. Iliass è la dimostrazione che se uno vuole può fare tutto. Anche unire studio e sport agonistico. Chiaro, devi fare dei sacrifici, ma questa è la base della vita. Poi diciamolo: chi corre lo fa principalmente per una grande passione. Perché correre è faticoso, chi glielo fa fare? Ma le soddisfazioni poi sono evidenti». Claudio è emozionato. Non vede l’ora di incontrare Iliass. Non serviranno troppe parole. Si guarderanno negli occhi, galleggeranno insieme nel fiume delle emozioni. «Gli ho solo mandato un messaggio. Non so cosa gli dirò, di solito ci abbracciamo e basta. Poi mi fa vedere la medaglia, come ha fatto dopo gli Europei. È stata una grande soddisfazione vederlo correre. Ha avuto il merito di essere testardo, fare trenta chilometri da solo a certi ritmi. La sua vittoria è stata quella».
Iliass Aouani è un ingegnere che non fa calcoli: è nato per correre. Sotto la pettorina si nascondono i sacrifici vissuti partendo da Ponte Lambro, i pianti consumati nel silenzio della sua macchina. È la storia di un ragazzo che si è costruito una cultura nei momenti in cui non pestava i chilometri in pista, ha sofferto per disegnare un futuro nuovo. Oggi l’ingegnere con la bandana è un campione. L’Italia ha conosciuto un atleta prezioso. Dio benedica i testardi.