«Benvenuti a un’edizione storica dei Road World Championships», ha detto David Lappartient, numero uno dell’UCI e in questi giorni ospite d’eccezione a Kigali, capitale del Rwanda e sede dei Mondiali di ciclismo 2025. «Per il luogo, in Africa per la prima volta, e per il significato che hanno», ha poi aggiunto. L’assegnazione risale al 2021, quando l’UCI annunciava – in un crescendo di critiche giunto fino ai giorni nostri – lo sbarco del proprio evento principale nel continente africano. Un punto di arrivo e di partenza in una traiettoria dichiarata dallo stesso Lappartient, cioè l’Agenda 2022, che mira ad allargare la mappa del ciclismo e cambiarne il baricentro. Geografico e non solo.
Kigali 2025 è un unicum per lo sport in generale, a latitudini in cui i maxi-eventi passano di rado, e quasi mai con questa densità di sguardi. Allo stesso tempo è un caso destinato a fare scuola, e con buone probabilità a spalancare altre porte alla “città delle mille colline”, che negli ultimi anni si sta affermando come principale hub sportivo dell’area subsahariana. L’aria che si respira tra le strade di Kigali, però, è ancora ben lontana dall’abitudine. Se è vero che si tratta della casa del ciclismo nel continente, è altrettanto evidente che l’ondata di visitatori internazionali e la presenza di leggende sportive come Tadej Pogacar e Remco Evenepoel non capitano tutti i giorni.
La cornice dell’evento riflette nitidamente tutto ciò, in una settimana di festa in cui le corse sono al centro di tutto. Scuole chiuse, uffici (nei limiti del possibile) e traffico del centro (nelle ore di gara) serrati, in un’organizzazione che ha sorpreso anche gli addetti ai lavori. La sera i bar restano aperti fino a notte fonda e i marciapiedi si svuotano lentamente, mentre di giorno l’entusiasmo si riversa, febbrile, ai bordi di ogni salita del percorso. Con bandierine ruandesi che sventolano ovunque, e altrettante belghe (ma stavolta la politica non c’entra), e con il costante rimbombo dei tamburi, i balli e le coreografie che fanno da colonna sonora e visiva agli scenografici tratti in pavè.
Il seguito di questo Mondiale, nonostante i podi siano stati monopolizzati dai ciclisti europei, è enorme per la gente del posto, ma non nasce dal nulla. Come anticipato, infatti, Kigali è da qualche anno l’epicentro sportivo della regione: ospita il Tour du Rwanda a inizio anno solare e, di fatto, è diventata una città che organizza abitualmente grandi eventi. Lo scopo: attirare visitatori da tutto il mondo e usare queste occasioni come strumento per cambiare la propria percezione su scala internazionale. Sullo sfondo, infatti, restano le ombre di un Mondiale che è stato in lungo e in largo dipinto come opera di sportwashing, e con buone ragioni. In un Paese che si è messo alle spalle un secolo – il Ventesimo – piuttosto sanguinoso e che oggi conosce la pace, ma che ha pagato un prezzo salato in termini democratici e di diritti umani. Ed esportando la violenza al di là del confine congolese, nella regione del Lago Kivu. L’uomo che ha trascinato il Rwanda fuori dal genocidio degli anni Novanta, Paul Kagame, governa il paese dalla fine dello scorso millennio, imprimendo una direzione sempre più autoritaria alla propria leadership. Vincere le elezioni con il 99% dei voti, dato dichiarato nel 2024, dovrebbe bastare per avere un’idea del clima politico che si respira a Kigali e nelle altre zone abitate del Paese. Da qui, da questi punti, sono partite le tantissime critiche piovute dalla comunità internazionale sulla scelta dell’UCI.
Arrivando a Kigali, però, si trova una città decisamente più “europea” di quanto si possa immaginare qui da noi. Si tratta di una capitale molto diversa, per intenderci, dalle vicine Nairobi (Kenya) e Kampala (Uganda): pulita, ordinata, verdissima, sospesa a 1.500 metri sul livello del mare. Perfino rilassante, e in parecchi angoli silenziosa, anche in giorni di fermento come quelli dei Road World Championships. E non in ultimo: Kigali è una città sicura, pure nelle ore dopo il tramonto, cosa non scontata in tante metropoli della regione. Se il solo nome “Rwanda” evoca nell’occidente scenari drammatici, insomma, Kigali in questi giorni si mostra ai visitatori e al pubblico globale come l’esatto contrario. Ed è proprio ciò che il Rwanda voleva trasmettere ospitando eventi del genere.
Per l’UCI la rassegna in corso è una cartina tornasole di quanto il movimento sia cresciuto al fuori dell’Europa nell’ultimo decennio, di quanta domanda si stia accumulando altrove, in particolare nel mercato africano. Lo dicono i numeri dei Mondiali: 108 nazioni iscritte, 769 atleti unici e una partecipazione africana mai vista, con 36 Paesi e oltre un terzo dei corridori. Una cifra resa possibile, banalmente, dal fatto che questa volta si corre “in casa”. L’evento in Rwanda, infatti, è pensato anche per offrire una grande opportunità al movimento africano, ovvero la chance di partecipare senza investire in voli intercontinentali, spesso proibitivi. Così possono mettersi in mostra i vivai che si sono formati attorno ai satelliti del World Cycling Center e alle corse locali, far crescere tecnici e organizzatori, stimolare i giovani. Se il Mondiale serve a definire dove sta andando questo sport, il 2025 risponde che il ciclismo non vuole più restare un affare per pochi.
Kigali ha fatto i primi test con AfroBasket 2021, poi ha legato il suo nome alla Basketball Africa League, diventandone la casa; quindi ha accolto le delegazioni sportive di tutto il mondo con il FIFA Congress 2023 e il FIA Awards 2024. Tutti tasselli, questi, di una strategia che vede e usa lo sport come vetrina e prorompente leva economica. Nel frattempo la città cresce in altezza e in ambizione, con cantieri e investimenti internazionali che si moltiplicano, un’urbanizzazione intorno al +4% annuo e un contributo che sfiora il 50% al PIL nazionale. Con la retorica della “città più pulita dell’Africa” (stando alla qualità dell’aria, a dirla tutta, non pare proprio così) che è diventata ormai prassi, dal bando alla plastica e al monouso, fino ai forti incentivi sull’e-mobility. Tornando all’ambito sportivo, l’idea è ospitare in un futuro non lontano un Gran Premio di Formula 1, ed è un progetto che appare sempre più concreto.
Questo Mondiale comunque non è stato in discesa, anzi. Alle criticità politiche si sono sommati diversi timori logistici, partendo dal tema dei costi di viaggio e della speculazione delle strutture ricettive, fino agli interrogativi sulla sicurezza e sulle vaccinazioni (questi ultimi permeati più di preconcetti che di realtà o di evidenze scientifiche). Per tali ragioni diverse, Federazioni hanno ridotto le convocazioni o scelto di non portare le squadre giovanili. E non mancano gli atleti, tra cui qualche big, che hanno scelto di alzare bandiera bianca. È il prezzo di un Mondiale nuovo e ricco di contraddizioni, che chiede di uscire dalla comfort zone – agli atleti, alle federazioni e a tutti gli addetti ai lavori del caso.
Chi è venuto in Rwanda, però, tornerà con cartoline memorabili. Il Kigali Wall, o Mur de Kigali, cioè il massacrante mezzo chilometro tra pavè e pendenza che vedremo oggi nella prova in linea maschile, promette immagini da antologia. Un assaggio lo abbiamo già avuto con gli attacchi – ad esempio quello di ieri, bellissimo, di Lorenzo Finn – sulla Côte de Kimihurura, l’altra rampa ciottolata di Kigali, presente in tutte le gare della settimana. Ogni giorno qualche fotografia dalle strade dove sfrecciano i corridori fa il giro del mondo sui social media, e non potrebbe essere altrimenti. Pogacar ed Evenepoel sfidati da ragazzi locali su vecchie bici, e inseguiti da eserciti di bambini; o lo stesso Remco che sfreccia in sella al proprio gioiellino in mezzo a caschi di banane e matoke; o ancora, Nazionali che si allenano circondati da moto-taxi, davanti ai mercati e ai baracchini dei “mobile money”, o che vengono inseguite da bici con il mondo sul portapacchi. Una collezione di scatti iconici senza precedenti, che solo uno sport di strada come il ciclismo può offrire, e che solo un Mondiale in un Paese africano può rendere possibili.
Per quanto sia pittoresco il contorno, in ogni caso, la competizione resta il centro di gravità. Il percorso è un messaggio chiaro: altimetria feroce, continuoi su e giù, altitudine che spezza il respiro (Kigali è tra 1.500 e i 1.800 metri sul livello del mare), rampe ciottolate. La Côte de Kimihurura (1,3 chilometri al 5,6% medio, con punte all’11%) può essere “il chilometro più lungo della tua vita”, come ha detto Federica Venturelli dopo la medaglia di bronzo nella crono femminile Under 23; e il Kigali Wall è ancora peggio (o meglio, per chi lo guarda comodamente dal divano): cinquecento metri all’11% (picco 18%) su ciottoli irregolari, dove la trazione è un’opinione e, se piove, diventa una roulette. Una tratta difficilissima da percorrere anche sulle due ruote di un motorino, figurarsi quelle di una bicicletta.

Foto di Shalom Hozabarira
Gli élite uomini ci arriveranno domani pomeriggio con oltre 200 chilometri nelle gambe e cinquemila metri di dislivello, a compimento di un’Alpi-day travasato in città, praticamente. E con il caldo afoso tipico della stagione delle piogge che sta arrivando. Prima, nella giornata di oggi, le donne correranno per 165 chilometri circa, anche in questo caso su uno dei tracciati iridati più duri di sempre. È una corsa senz’altro non pensata per gli specialisti puri delle classiche, ma piuttosto per atleti ibridi capaci di sopravvivere a tratti verticali, ripetere gli sforzi sui muri e attaccare tra i mille sali-scendi della città. Massacrante, come ci stanno confermano le scene dopo la linea del traguardo. Le nazionali con profondità proveranno a governare il ritmo, altre cercheranno fortuna a distanza, ma non serve neanche dire chi sia il favorito di turno: il campione in carica Tadej Pogacar.
Domenica scorsa, per altro nel giorno del suo compleanno, lo sloveno è stato annientato da Evenepoel nella cronometro, con tanto di “sorpasso” – molto simbolico, trattandosi di una cronometro – sulla Côte de Kimihurura. Il momento che resterà impresso e verrà tramandato tra i ricordi di questo Mondiale, e che ha messo il sigillo sullo storico “triplete” iridato del belga. Se nella prova contro il tempo Remco ha messo tutti in riga, però, Tadej in linea resta l’uomo da battere: è il corridore più forte e completo del mondo, e qui può trasformare ogni rampa in una spietata selezione. Voleva tornare dal Rwanda con una doppietta mai vista, ma ora che è arrivato a undici giorni di gara senza successi – un’astinenza che per chiunque non farebbe notizia, ma per lui è un’anomalia: non gli succedeva dal luglio 2023 – è lecito aspettarsi un Pogi quantomai aggressivo. Anche se meno imbattibile, forse, di quanto si pensasse alla vigilia.
Dentro questo quadro, l’Italia ha già scritto tre pagine importanti (un oro, un argento, un bronzo) e si affaccia con grande ottimismo alla domenica conclusiva. La prima medaglia come detto è arrivata con Federica Venturelli, in una categoria (Under 23 femminile) al debutto iridato. Ieri invece il lampo di Lorenzo Finn (Under 23 maschile), che a 18 anni, da corridore più giovane in gara, ha stravinto la prova in linea e fatto il bis del trionfo a Zurigo 2024. Proprio in queste ore, infine, la giovane Chantal Pegolo si è regalata un argento tra le juniores, sperando di fare da apripista per Elisa Longo Borghini, che oggi pomeriggio inseguirà il sogno. Allo stesso modo Giulio Ciccone domani tenterà l’impresa, pur partendo alle spalle di mostri sacri come Pogacar ed Evenepoel, certo, e probabilmente anche di Del Toro, Pidcock e un’altra manciata di nomi (Pidcock, Healy, Vine, Ayuso), ma con le credenziali per pensare in grande. Se arriverà la pioggia, i ciottoli cambieranno le regole del gioco con possibili cadute e gruppi spezzati; se resterà asciutto, invece, vincerà chi riuscirà a dominare l’inedito mix di difficoltà presentate dal circuito di Kigali.
In ogni caso, quando il sipario sarà calato e tutte le maglie arcobaleno assegnate, resterà un Mondiale unico, mai visto prima. Che sta tenendo insieme un’infinità di storie e sfaccettature. Belle e non, spesso contrastanti tra loro, e di sicuro inedite su questo palcoscenico. Una capitale africana ordinata e controversa, un pubblico nuovo e con una partecipazione quantomai variopinta, una politica che non scompare girando l’angolo. E nel mezzo, rivalità leggendarie e un’esperienza, per chi la sta vivendo sul posto, impossibile da dimenticare. “Riding new heights”, “Verso nuove vette”, recita lo slogan di questo Mondiale. Da intendersi in senso molto più ampio del semplice percorso di gara.