Il progetto della Juventus non sta funzionando, questo è chiaro, ma anche Tudor ha le sue colpe

L'esonero nasce dal fatto che la squadra bianconera non sia mai stata adatta alle idee del tecnico croato. Che però, in ogni caso, non ha mai dato l'impressione di poter invertire davvero la rotta.
di Francesco Gottardi 27 Ottobre 2025 alle 15:33

Il calcio sa essere beffardo come un brutto ko di fine ottobre per mano della Lazio, la stessa squadra da cui Tudor, data la divergenza di vedute rispetto alla società, si era dimesso nell’estate 2024. Nemmeno un anno più tardi c’è chi assicura – come la Gazzetta in questa ricostruzione – che il croato era pronto a fare lo stesso passo congedandosi dalla panchina della Juventus: aveva vinto a Venezia – blindando la Champions, obiettivo minimo stagionale – e salvato il salvabile, aveva traghettato quanto poteva di una squadra che faticava a sentire sua. Alla fine era rimasto soltanto per amor di Juve. E, a vedere come sono precipitate le cose appena pochi mesi dopo, forse sarebbe stato il caso di assecondare la ragione. Perché i club, al contrario, ragionano cinicamente da club. E i risultati – tre ko di fila, zero gol nelle ultime quattro gare, zero vittorie nelle ultime otto – dicono che la Juventus di Igor Tudor non aveva ulteriori ragioni di esistere.

I bianconeri tramortiti all’Olimpico, da una Lazio tutt’altro che in salute, sono l’immagine di un gruppo senza più punti di riferimento. Né nel modulo, né negli interpreti. Quando, al minuto 66′, il tecnico croato ha richiamato Jonathan David, ancora una volta disastroso, ha scelto di sostituirlo con Filip Kostic: un ex esubero, in ogni caso ai margini del progetto Juve. Possiamo soltanto immaginare la faccia dei dirigenti appurando che al suo posto è rimasto in panchina Loïs Openda, arrivato in estate alla Continassa per oltre 45 milioni di euro complessivi. È soltanto l’ultimo esempio di una lunga serie, sintomatico dello scollamento insanabile fra rosa e allenatore.

In questo senso, è difficile imputare delle colpe specifiche a Tudor. Aveva deciso di rimanere a Torino soprattutto in seguito alle pressioni di Giuntoli, che lo tirava per la giacchetta. In cambio Igor chiedeva soltanto qualche garanzia tecnica: nessun colpo da novanta, ma qualche innesto funzionale alla sua idea di calcio. E magari il ritorno di Kolo Muani, che tanto bene aveva fatto durante la sua breve gestione. Succede, però, che pochi giorni dopo Giuntoli lascia la Juve, al suo posto sale in cattedra David Comolli e le strategie di mercato bianconere si palesano in aperta controtendenza con quelle dell’allenatore. Perché della campagna acquisti allestita dal club – quasi 83 milioni di euro – Tudor di fatto aveva caldeggiato soltanto il riscatto di Chico Conceiçao. Tutto il resto, da David a Openda passando per Zhegrova o Joao Mario, è piombato nella Juventus senza particolari unità d’intenti.

«Il Como è una finta piccola, ha investito tanto e i giocatori li ha scelti tutti l’allenatore, una bella cosa», aveva dichiarato Tudor alla vigilia della settima giornata – e da lì in poi la sua squadra ha soltanto perso, senza più segnare. Una fucilata che aveva indispettito un po’ Cesc Fàbregas, sentitosi tirato in ballo, ma che fra le righe era chiaramente rivolta al contesto societario bianconero. Qualcosa si è rotto. Non andava scomodata la Lazio, e non servivano altri flop al vetriolo per ribadirlo: è in base a questo ragionamento che la Juventus ha anticipato di gran fretta la decisione sul futuro dell’allenatore, senza aspettare nemmeno il turno infrasettimanale e affidando temporaneamente Yildiz e compagni a Massimiliano Brambilla, promosso dalla Next Gen. Chi sarà il prossimo a libro paga – pesa ancora la separazione da Thiago Motta – andrà valutato con cura nei prossimi giorni. Ma la scossa intanto serve anche a responsabilizzare la squadra.

Ha sbagliato, incomprensibilmente, la società, investendo su un gruppo dal valore tecnico ancora tutto da esprimere senza coinvolgere l’allenatore in questo percorso. Sarebbe servito più coraggio, per affidarsi a una guida tecnica congeniale al progetto già in estate. Ma fermo restando l’errore a monte, da lì in poi ha sbagliato anche Tudor. A non dimettersi, o a non adattarsi. Perché un grande allenatore a quel punto è chiamato a fare il massimo con ciò che ha a disposizione. E dalla preoccupante involuzione di David, passando per il rischioso rispolvero di Vlahovic o il resto dei rinforzi relegati tra dimenticatoio e infermeria – Openda, Joao Mario, Zhegrova – Tudor ha continuamente mischiato le carte arrivando a perdere ogni mano possibile. Senza più leader, senza più sicurezze o trame di gioco a cui avrebbe potuto aggrapparsi la sua Juve nel momento del bisogno. Perché questo momento, dopo il poker all’Inter che tanto bene faceva sperare, è presto arrivato. Perentorio e profondo. Perfino nel postpartita contro la Lazio, Tudor sembrava ancora sinceramente convinto di poter trovare il bandolo della matassa. Di sapere cosa serve davvero a questa Juve per ritrovarsi. Era l’unico però. Di nuovo. E per l’ultima volta.

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