Tomas Rosicky, piedi e cervello

Il viaggio di Tomas Rosicky, tra bellezza in campo e un destino beffardo: dopo Germania e Inghilterra è tornato allo Sparta Praga, quindici anni dopo.

«Praga non mi libera. Non scioglie i legami fra noi due. Questa matrigna ha gli artigli. Allora bisogna sottomettersi, oppure dovremmo incendiare due punti, il Vysegrad e il Castello, allora sarebbe possibile liberarsi».

Franz Kafka, lettera del 20 dicembre 1902 a Oskar Pollak

Praga possiede una bellezza oscura e austera. Ha un fascino tetro e sotterraneo. Le sue pietre, custodi di un passato glorioso, si specchiano rigorose sulla Moldava. Praga è misticamente ammaliante e ferocemente concreta. La Praga di Franz Kafka sembra lontanissima dalla Praga di Tomáš Rosický così come possiamo ricostruirla dalle foto e dai filmati della famiglia Rosický. Non ci sono ponti o castelli, né torri o fortificazioni. La Praga del piccolo Tomáš è un’unica distesa verde, un campo da calcio senza limiti, il giardino di casa che passa senza soluzione di continuità in un parchetto che si allarga e si allarga ancora fino a raggiungere le dimensioni dello Stadion Letná. «Nel ’67, quando avevo 19 anni, vinsi il campionato con lo Sparta. Tomáš, a 19 anni, è riuscito a fare la stessa cosa» dice Jirí Rosický all’inizio di un breve documentario dedicato al figlio Tomáš.

Nella formazione calcistica di Rosický la famiglia ha avuto un ruolo centrale: «il fattore decisivo è stato che mio fratello (chiamato anche lui Jirí, nda) giocava a calcio, così come mio padre. Quando mio fratello ha iniziato a giocare, ho voluto farlo anch’io». Ecco un’altra differenza con Kafka: se, nel caso del vecchio Franz, la famiglia aveva ostacolato la sua passione per le lettere, Rosický ha trovato invece un clima perfetto in cui coltivare il suo talento. Sempre nel breve documentario di cui parlavo prima, c’è una scena in cui Jirí senior e Tomáš sono seduti sul divano e guardano una partita dello Sparta: il Tomáš sullo schermo ha appena segnato un gran gol e Jirí senior si volta, sorride, e dice «qui non c’è nessun problema». Non c’è attrito tra i due, il padre dà consigli al figlio per migliorarne lo stile di gioco, studiano insieme i movimenti dell’ultima partita. Non c’è nemmeno l’ombra di un Mike Agassi, del padre tiranno che forza il talento del figlio fino all’esasperazione.

Nell’infanzia di Tomáš non c’è una crepa, è tutto perfetto. Il rapporto con il fratello è idilliaco. Una sana competizione: «Tutto quello che mio figlio maggiore apprendeva dal padre, Tomáš lo assimilava con più intensità dal fratello, perché voleva essere bravo quanto Jirka», dice la madre. Nei vecchi filmati si vedono due ragazzini con la maglia granata dello Sparta che prima si scambiano il pallone e poi si rincorrono.

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Il Piccolino, come lo chiama Jirí senior, «è un piccolo diavolo», dribbla il fratello e gli nasconde la palla, fino a quando non viene atterrato. «A volte per fermarlo baravo», ammette con un sorriso Jirí. In quei filmati, il Piccolino ha un tocco di palla incredibile per un ragazzino di 8 anni, la accarezza con sicurezza e corre a testa alta. Il verbo predicato in Holly & Benji, «il pallone è mio amico», sembra valido anche per il piccolo Tomáš. Quella confidenza nasce da un rapporto speciale con la palla: «ha iniziato a giocare con il pallone ancora prima di imparare a camminare. Lui e suo fratello non avevano bisogno di giochi come gli orsetti di peluche o le macchinine: nella culla avevano sempre un pallone», dice mamma Eva. Al Kompressor, squadra dove Jirí senior aveva terminato la carriera, inizia l’avventura di Tomáš. «Giocavo con mio fratello, perché così avrei potuto giocare con ragazzini più grandi di me di tre anni. Il club doveva falsificare il cartellino. L’unico problema era che, quando mi mettevano in panchina, iniziavo a piangere», dice Tomáš. «Giocava con quelli più grandi e con quelli più piccoli, a lui non importava l’età degli avversari. Marcarlo era impossibile» dice Jirí Semecký, allenatore delle giovanili del Kompressor. Dopo qualche anno se ne sarebbe accorta tutta l’Europa che marcare Tomáš Rosický era difficilissimo.

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È il 12 settembre 2000: Rosický segna uno dei gol più belli con la maglia dello Sparta, curiosamente contro l’Arsenal, dove si sarebbe trasferito sei anni dopo. Il piccolo diavolo immarcabile, quello che prima fa impazzire il fratello, poi pure gli amici del parchetto («dopo un po’ abbiamo iniziato a giocare da soli, perché nessuno voleva giocare con me e Jirí»), adesso fa girare la testa in Champions League. Tomáš Rosický non ha ancora 20 anni, ha già vinto il campionato ceco e ha giocato due partite a Euro 2000. «È accaduto tutto così in fretta che non mi sono davvero reso conto di quello che mi stava succedendo. E penso sia stato meglio così, c’era sempre in arrivo qualcosa di nuovo per me. Il debutto nel campionato ceco, poi quello in Champions, quello in Nazionale, poi gli Europei: c’erano sempre cose nuove, non ti fermi a pensare “wow, sto indossando la maglia della mia Nazionale!”».

La novità, dopo una stagione e mezza con la maglia dello Sparta, è il trasferimento al Borussia Dortmund. I gialloneri, per battere la concorrenza di altre big europee, prelevano Rosický durante il mercato invernale, spendendo 25 milioni di marchi (quasi 13 milioni di euro), cifra record per l’acquisto di un calciatore ceco. All’indomani del trasferimento, il 10 gennaio 2001, Radio Praha scrive: «Crazy money, maybe, for a 20 year old with limited experience on the big stage?».

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Un giovanissimo Rosicky a 21 anni, mentre posa davanti alla sua Mercedes a Dortmund (Michal Ruzika/AFP/Getty Images)

Nonostante la lontananza, il supporto della famiglia continua a essere costante. Per aiutarlo ad ambientarsi in Germania, i genitori vanno spesso a trovare Tomáš a Dortmund. Mamma Eva prepara zuppa di pollo in gran quantità per surgelarla, «così può gustarsi la cucina di casa anche se è lontano da Praga e dalla sua famiglia». In questo momento, Rosický non è molto diverso da uno studente fuorisede con una terribile nostalgia di casa. Il fuorisede nostalgico, però, resta negli spogliatoi: in campo ci va il piccolo diavolo immarcabile. Diventa ben presto il cardine del gioco del Borussia e si guadagna l’appellativo di “piccolo Mozart”: «è la mente della squadra», afferma Dede. La sua migliore annata, non solo in giallonero, forse in assoluto, è la stagione 2001/2002: Rosický assume con personalità il ruolo di regista e guida il Borussia alla vittoria del Meisterschale e alla finale di Coppa Uefa (persa contro il Feyenoord). «Quando arrivi allo stadio di Dortmund e ci sono migliaia di persone che urlano il nome di tuo figlio, ti viene la pelle d’oca. Questa è la nostra ricompensa» dice Eva Rosický, con gli occhi lucidi.

In cinque anni e mezzo di Bundesliga, Tomáš si impone come uno dei più forti centrocampisti europei in circolazione. La sua percezione del gioco è fuori dal comune. Questa qualità, unita a una tecnica sopraffina, gli permette di scegliere sempre le soluzioni migliori, spesso anche le più imprevedibili. In fase di costruzione può venirsene fuori con un cross di esterno destro dalla sinistra, cogliendo quindi di sorpresa il suo diretto avversario. Perché perdere tempo a rientrare per calciare d’interno?

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Un discorso analogo si può fare per la finalizzazione. Rosický ama calciare da fuori area. E ama farlo in modo imprevedibile: in una frazione di secondo legge la situazione, individua gli ostacoli che si frappongono fra lui e la porta e sceglie la soluzione migliore per aggirarli.

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A Dortmund dimostra di non essere solo un pregevole costruttore di gioco. Quando c’è da sporcarsi le mani in fase di interdizione, Rosický non si tira indietro. Una qualità che avrà modo di affinare qualche anno dopo, in Premier League. Alla fine della sua esperienza con il Borussia Dortmund si manifesta, per la prima volta, l’ombra di quello che sarà poi l’unico avversario in grado di fermarlo: la fragilità fisica. È triste dirlo, ma per Rosický saranno più gli infortuni che i trofei vinti: nove (alcuni così gravi da fargli saltare intere stagioni o porzioni consistenti di esse) contro sei.

Nel 2006 Arsène Wenger sceglie di affidare a Rosický l’eredità di Robert Pires. Il passaggio in Premier League segna un nuovo punto di svolta. Il gioco di Tomáš compie l’upgrade definitivo: diventa ancora più rapido in fase decisionale, il suo cervello acquisisce informazioni e le elabora a una velocità maggiore rispetto a prima. Wenger lo arretra un po’ verso il cuore del centrocampo, per creargli lo spazio per gli inserimenti in area di rigore.

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Dalla linea di metà campo in su è lui ad avere il controllo della manovra. Grazie alla Premier e a Wenger, diventa la versione beta del centrocampista moderno tutto corsa, classe e dinamismo. Non proprio un box-to-box midfielder in senso stretto (come Aaron Ramsey, per restare tra i compagni di squadra di Rosický). Ma la qualità della corsa palla al piede di Tomáš, il controllo e la visione di gioco durante le fasi più dinamiche sono evidenti, come quando imbastisce un contropiede da manuale, scambia con Oxlade-Chamberlain e calcia al volo d’esterno.

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Il tiro d’esterno, forte e preciso, in effetti è diventato quasi un marchio di fabbrica.

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Quando non può puntare l’area avversaria o cercare la prima punta con una verticalizzazione, tra le sue armi Rosický ha anche un discreto cambio di gioco.

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Nei dieci anni con la maglia dell’Arsenal la percentuale di passaggi riusciti di Rosický è stata sempre superiore all’85%. Un numero che si traduce in magie come il gol al Sunderland, il 22 febbraio 2014. Quando il piccolo Mozart riceve palla, cambia il ritmo della partitura, salta un avversario, imprimendo così un’accelerazione alla manovra, e detta il passaggio ai compagni con la sua corsa senza palla verso l’area di rigore, dove finalizza questa sinfonia in crescendo.

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Nel frattempo, Tomáš migliora in fase di interdizione. Spesso ha il compito di pressare il playmaker avversario. Lo fa con una cattiveria agonistica che stride con il fisico mingherlino (una costante dai tempi degli esordi praghesi). Come aveva già mostrato a Dortmund, i tackle sono una skill che gli riesce piuttosto bene.

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Quello con cui Wenger e Rosický stesso non hanno fatto i conti sono gli infortuni. Gli anni ai Gunners sono costellati di problemi fisici più o meno gravi: da una semplice frattura al setto nasale a ben più seri infortuni al ginocchio, che lo terranno fuori 14 (nel 2008) e 6 mesi (nella prima metà della stagione 2015/2016). Le partite saltate da Rosický a causa degli infortuni nei dieci anni a Londra saranno alla fine più di 150. Un sacco di tempo. Un sacco di tempo speso in compagnia delle sei corde: lo strumento preferito dal piccolo Mozart è la chitarra elettrica, la canzone preferita Master of Puppets dei Metallica. Nei lunghi recuperi dagli infortuni la chitarra è una valvola di sfogo. Se non può correre palla al piede, almeno può far correre le dita sulla tastiera della chitarra. Suona Jingle Bells con Szczęsny alla tastiera per l’Arsenal Foundation. Ma l’apice della carriera di chitarrista, non me ne voglia Szczęsny, Tomáš lo raggiunge salendo sul palco con i Tři Sestry (che tradotto significa “tre sorelle”, come il dramma di Čechov). Sulla presenza scenica può migliorare, ma la tecnica, anche in questo caso, c’è.

Rosicky versione chitarrista

«Ho sempre recuperato, qualsiasi cosa mi sia successa, e lo farò di nuovo. Non mollerò. Semplicemente lo farò ancora una volta, devo trovare la forza per farlo. La troverò e tornerò in campo». Tutta la carriera di Rosický sembra essere guidata, fin dall’inizio, da un’incrollabile fiducia: nel futuro, che corre in linea retta come un treno, e nel recupero dagli infortuni, visti sempre come un accidente reversibile, un’interruzione momentanea, anche quando sono piuttosto gravi come i problemi al ginocchio e al tendine d’Achille. Il carburante di questa fiducia cieca è una forza di volontà spaventosa. Come nel più classico dei film hollywoodiani, Rosický sa in cuor suo e crede fermamente di meritare un lieto fine. Sa che lo merita perché ha la volontà necessaria per agguantarlo ancora una volta. Anche se hai un tendine d’Achille ridotto maluccio, anche se hai il quadricipite femorale lesionato come se ci avessero affondato la lama di un coltello, puoi rialzarti, puoi farcela.

È un fatto innegabile, però, che per quanto la tua testa pensi in modo più veloce, per quanto la tua tecnica sia a un livello superiore, per quanto il tuo tocco di palla sia vellutato, se il fisico non ti accompagna e ti abbandona sul più bello, quando la piena consacrazione è lì a un passo, nella tua assoluta fiducia nel futuro e nella tua cocciuta forza di volontà si aprono delle crepe. Piccole, sottili come un capello. All’inizio invisibili. Il sorriso che si spegne un po’. La frustrazione che si fa più acuta, mentre guardi i tuoi compagni dalla tribuna o dal salotto di casa. E mentre tu sei fermo ai box, i ragazzini di sedici anni, cresciuti con te come mito, col tuo poster in camera e i video delle tue skill visti allo sfinimento su YouTube e salvati tra i preferiti, crescono, esordiscono, ti sostituiscono. È un processo irreversibile. È l’invecchiamento. È la nuova generazione che si fa largo, come ti eri fatto largo tu con quella maglia granata larghissima in cui sembravi scomparire, quella maglia di cui gli avversari vedevano solo gli svolazzi, quando ormai eri troppo lontano.

LONDON, ENGLAND - MAY 17: Tomas Rosicky of Arsenal celebrates victory with the trophy after the FA Cup with Budweiser Final match between Arsenal and Hull City at Wembley Stadium on May 17, 2014 in London, England. (Photo by Paul Gilham/Getty Images)
La gioia dopo la vittoria della FA Cup nel 2014 (Paul Gilham/Getty Images)

Dopo l’infanzia felice e gli esordi luminosi, il destino di Rosický ha iniziato a somigliare sempre di più a quello di un eroe tragico, perseguitato da un fato avverso che lo fiacca piano piano, fino a piegarlo definitivamente. Un logorìo lento e senza rimedio, che ha lavorato di pari passo con lo scorrere del tempo. E più Rosický invecchia, più si allungano i tempi di recupero. «Quello che mi spezza il cuore è non poter ricambiare l’affetto dei tifosi. Ma nella vita le cose brutte succedono e devi in qualche modo farci i conti. Quello che ci definisce è come facciamo i conti con le cose che ci capitano. Affronterò anche questo infortunio, di nuovo. E tornerò». E in effetti torna, il 15 maggio 2016. Ma solo per i saluti. Rosický e l’Arsenal si lasciano così, con gli occhi lucidi e l’emozione per dieci anni di intermittenze e lampi di genio, di infermeria e grandi giocate. Il fatto è che la storia di Tomáš non poteva terminare con un giro di campo in tuta. Il 30 agosto Rosický torna a casa dopo 16 anni: firma un biennale per lo Sparta. Un cerchio perfetto: scrivere il finale a Praga, lì dove tutto è iniziato.