Autoritratto di un capo

Come si costruisce una vittoria, i rapporti con staff, calciatori e presidenti: il senso della leadership raccontato da Carlo Ancelotti.

Questo testo è un estratto dal libro Il leader calmo (Rizzoli, 306 pagg., 18 euro), pubblicato sul numero 12 di Undici. Il libro è stato scritto a sei mani con l’esperto di management Chris Brady e con il suo ex collaboratore Mike Forde.

Quando s’ingaggia un leader è fondamentale che la persona che lo arruola sappia esattamente che compito intende affidargli: mantenere la cultura già esistente o fondarne una nuova? Si è detto, ad esempio – cosa interessante –, che Sir Alex Ferguson fosse stato arruolato per far rivivere una cultura che al Manchester United era svanita. E lui lo ha fatto, ha avuto un successo duraturo rinsaldando di continuo questa cultura, con costanti riferimenti alla storia e alla tradizione del club. Certo, perché si crei questa sintonia può essere anche che l’allenatore faccia cambiare l’approccio del club, ma è più facile il contrario, ovvero che sia il coach a sintonizzarsi: a meno che, ovvio, la stessa società non voglia un grande rinnovamento o ci siano buoni motivi per abbandonare le vecchie convinzioni. Se, ad esempio, un importante club vuole spezzare il monopolio del suo più grande rivale e crede che l’unico modo sia assoldare un allenatore che ha già avuto successo altrove, può decidere di ignorare il fatto che questi non sia molto in sintonia con la cultura societaria, perché la priorità assoluta è vincere. Quando il Real scelse me sapeva che sarei stato in grado di adattarmi, ma anche che ero abbastanza affine, per natura, allo stile che Florentino Pérez desiderava far risorgere. Per lui il concetto di galácticos restava cruciale, e credeva che la mia capacità di stabilire relazioni con i giocatori fosse fondamentale per gestire le diverse esigenze dei personaggi di forte personalità e di alto profilo dello spogliatoio. (…)

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Carlo Ancelotti seduto in panchina in uno dei primi allenamenti con il Bayern (Guenter Schiffmann/AFP/Getty Images)

Il ciclo naturale della panchina

I fan di Pep Guardiola e di Béla Guttmann – leggendario allenatore ungherese – sostengono che il ciclo naturale di un coach duri tre anni, e la mia esperienza di parabole della leadership, tranne che in un caso, lo conferma. A volte, però, tecnici, giocatori e impiegati trovano una seconda casa. Valeriy Lobanovsky alla Dinamo Kiev, Sir Alex Ferguson al Manchester United, Arsène Wenger all’Arsenal, io al Milan: in questi casi il rapporto può durare ben più di tre anni. L’allenatore, appunto, trova una casa e il club la sintonia culturale giusta. Alcuni dicono che questo tipo di longevità non si ripeterà più e alla luce delle politiche attuali non è difficile capirne il motivo, ma se un coach riesce a imbattersi in un ambiente che gli calza a pennello e la società ricambia questa armonia, chi può dire dove possono arrivare? (…)

Ho allenato grandi squadre in tutta Europa, gruppi di giocatori e staff estremamente diversi e di varie nazionalità. Lavorare in un ambiente simile pone sfide uniche dal punto di vista linguistico. Certo, si può dire che l’idioma in comune sia il calcio, ma è altrettanto importante parlare letteralmente la stessa lingua. In Inghilterra, come anche in Spagna e in Francia, io ero “lo straniero”, così mi sforzai di imparare la lingua del posto. L’ho fatto in ogni club estero che ho allenato e continuerò a farlo, è troppo importante. Ne ho bisogno per comunicare con i ragazzi e con i giornalisti, e anche per dimostrare al datore di lavoro la mia serietà nel volermi adattare alla nuova vita. Imparare la lingua, per me, è un passo imprescindibile per trovarmi bene in una nuova cultura. Dai giocatori mi aspetto lo stesso, anzi credo sia un metro di giudizio della loro professionalità. (…) Tuttavia, se la lingua è stata senz’altro un problema per Gareth Bale al suo primo anno al Real Madrid, la cosa di certo non ha avuto ripercussioni sulle sue prestazioni e con il tempo anche il suo spagnolo è migliorato. Forse Bale è l’eccezione che conferma la regola. Quando allenavo il Milan volevo che i giocatori parlassero solo in italiano, adesso che in ogni squadra ci sono calciatori di tanti Paesi diversi è più difficile, e spesso i ragazzi tendono a socializzare con i propri connazionali. (…) Ecco, questa è una cosa che va messa in chiaro subito con i ragazzi, va fatto loro capire che non possono esserci clan.

MUNICH, BAVARIA - AUGUST 10: Carlo Ancelotti is seen in a recording studio during the DFL Media Day on August, 10, 2016 in Munich, Germany. (Photo by Jan Hetfleisch/Getty Images For DFL)

Il valore dello staff

Un non addetto ai lavori crede di avere ben chiaro come un allenatore debba gestire i giocatori, e anche i rapporti con i piani alti, ovvero le aspettative del proprietario o del presidente. Forse però non si rende conto della relazione più importante: quella tra l’allenatore e il suo staff. È qui che entra in gioco il secondo aspetto della famiglia, quella composta da me e i miei assistenti di fiducia. Il team di supporto dovrebbe essere lì per ascoltare, condividere idee, aiutarti; soprattutto, la fiducia dovrebbe essere implicita. La primissima cosa, tuttavia, è la fedeltà. Quella non è negoziabile. All’inizio, quando allenavo in Italia, avevo la mia famiglia calcistica lì, ovvero uomini corretti e affidabili con cui lavoravo da tempo, e avrei voluto portarli con me di club in club. Molti allenatori lo fanno quando arrivano in una nuova società: sostituiscono tutto lo staff con i propri collaboratori.

Il Chelsea, però, cambiò il mio atteggiamento su questo aspetto e mi fece capire che è possibile plasmare nuovi rapporti di lealtà e nuovi modi di lavorare. Cosa che mi ha reso anche più elastico e adattabile nel mio approccio alla leadership. Durante i miei colloqui con Roman Abramovic e Mike Forde dissi che avrei voluto portare con me i miei uomini, ma Abramovic replicò: «Guardi, noi abbiamo uno staff e un’organizzazione eccellenti. Gente capace. Facciamo così: intanto venga e veda se le piace, poi se non è contento cambia». Io accettai, risposi che avrei fatto un mese di prova. «D’accordo. Se mi trovo bene continuerò così» dissi. «Ma se non mi troverò bene dovremo cambiare qualcosa.» Così il Chelsea fu la prima squadra in cui non portai con me nessun collaboratore, tranne Bruno Demichelis, uno psicologo italiano che parlava inglese. Riflettei a lungo, prima di acconsentire. Non ero sicuro, fino a quel momento avevo sempre lavorato con la mia famiglia calcistica ed ero un po’ preoccupato per la lingua. Bruno era, per così dire, il mio paracadute, e anche un valore aggiunto grazie alla sua esperienza a Milan Lab. Certo, avrei preferito avere tutti con me, ma nel frattempo stava diventando meno comune che i tecnici arrivassero in un nuovo club con tanta gente al seguito. (…)

New coach of the Paris Saint-Germain football team Carlo Ancelotti (R) of Italy and new assistant coach Claude Makelele attend a training session at the Aspire complex in Doha on January 2, 2012. PSG will play a friendly football match against AC Milan on January 4 for the Dubai Football Challenege. AFP PHOTO/ FRANCK FIFE (Photo credit should read FRANCK FIFE/AFP/Getty Images)
Carlo Ancelotti ai tempi del Paris Saint Germain con Claude Makelele, suo assistente (Franck Fife/Afp/Getty Images)

La mia esperienza a Londra mi ha insegnato che spesso non si ha davvero bisogno di quello che uno credeva di volere. Lavorare con collaboratori che sono già parte del business in cui ti stai imbarcando può avere enormi vantaggi. Forse, se David Moyes non avesse cambiato lo staff storico del Manchester United, le cose sarebbero andate diversamente. Quanto a me, ero convinto che non avere intorno le mie persone di fiducia potesse essere un problema, invece ne trovai di nuove. Il problema, con la fedeltà, è che rischia di durare anche quando potrebbe rivelarsi controproducente. Portare con sé assistenti rodati e affidabili ha senso, ma probabilmente questi stessi assistenti erano al tuo fianco anche al momento dell’ultimo esonero. A volte i legami si allentano a causa di fattori esterni. Io, appunto, fui costretto ad abbandonare i miei uomini del Milan dopo un periodo di grandi successi condivisi per via del sistema Chelsea.

 

Gerarchia e managing up

Le strutture che stanno tra il “capo supremo” del club – proprietario o presidente che sia – e le figure amministrative e gestionali sotto di lui possono essere labirintiche. Strutture complesse e non necessarie, visto che le società di calcio non sono entità di business tanto massicce. In termini finanziari, al massimo di media entità. Ciò che complica le cose è il fatto che, a differenza delle aziende normali, in cui i ruoli sono ben definiti e il prodotto finale viene esposto poco volentieri a un feedback costante, tutte le persone coinvolte sono appassionate di calcio. Tutti hanno un’opinione. Si dice che nel mondo accademico le discussioni siano così accese per la banalità dei contenuti: ecco, nel calcio è lo stesso. Io sono convinto che la distinzione tra boss – che per me è il presidente – e quello che io chiamo direttore generale (general director) – nel gergo del mondo degli affari il Ceo, l’amministratore delegato, ma nel calcio ha tanti nomi – abbia un certo peso (…) Il managing up, ovvero i rapporti che un leader intrattiene con i superiori, è un’implicazione di ogni tipo di business.

Real Madrid's Portuguese forward Cristiano Ronaldo (R) warms up next to Real Madrid's Italian coach Carlo Ancelotti during a training session on the eve of the UEFA Champions League Group B football match between FC Basel and Real Madrid on November 25, 2014 in Basel. AFP PHOTO / FABRICE COFFRINI (Photo credit should read FABRICE COFFRINI/AFP/Getty Images)
Insieme a Ronaldo, a Madrid (Fabrice Coffrini)/AFP/Getty Images)

Spesso mi hanno chiesto come me la sono cavata con Silvio Berlusconi al Milan, Roman Abramovic al Chelsea, Florentino Pérez al Real Madrid o Nasser Al-Khelaii al Paris Saint-Germain. Sarò chiaro: per me non è così importante. Io con il presidente di turno ci sto poco, passo più tempo con il direttore generale, ed è lui poi a relazionarsi con il presidente. In sostanza, io e il dg facciamo lo stesso lavoro, ma a livelli diversi. Lui cerca di proteggere me da quelle che il mio amico Alessandro Nesta chiama “grane presidenziali” e io cerco di proteggere i giocatori da tutto ciò che sta sopra di loro e che potrebbe distrarli. Non posso controllare la volontà del presidente, posso solo sperare di influenzarlo, e l’unico modo per farlo è vincere. Perché se lui è felice, lo sono anch’io; e se lui non lo è, io perderò il posto e non potrò più proteggere i giocatori. Con Berlusconi, proprietario del Milan dal 1986, imparai molto in fretta che il mio lavoro era farlo contento. La tradizione, al Milan, è giocare un bel calcio, mentre alla Juventus la cosa più importante è vincere. Così allestii una squadra per far divertire Berlusconi. Una squadra improntata all’attacco con Pirlo, Seedorf, Rui Costa, Kaká e Shevchenko contemporaneamente in campo. Imparai che nessun modulo è più importante del presidente del club. (…)

DUBAI, UNITED ARAB EMIRATES - JANUARY 06: Kaka (L) of AC Milan speaks with Carlo Ancelotti (R), manager of AC Milan before the Dubai Football Challenge match between AC Milan and Hamburger SV at The Emirates Sevens Stadium on January 6, 2009 in Dubai, United Arab Emirates. (Photo by Ryan Pierse/Getty Images)
Ancelotti e Kakà sulla panchina dei rossoneri prima di un match della Dubai Football Challenge tra Milan e Amburgo (Ryan Pierse/Getty Images)

È stato il periodo al Chelsea a insegnarmi quanto sia importante anticipare le possibili richieste. I miei incontri regolari avvengono con il direttore generale, ed è lui a riferire al presidente: di solito ci si vede una volta a settimana, ma spesso la cadenza varia da club a club, non ci sono regole fisse. Al Psg Leonardo lo vedevo ogni giorno, mentre al Chelsea e a Madrid è stato diverso. Per questo, in parte, fui così sorpreso e deluso quando a Parigi il presidente e Leonardo mi diedero quell’ultimatum prima del match di Champions contro il Porto: vinci o sei fuori. Che lo dica il presidente, be’, ci può stare. Ma io parlavo con Leonardo tutti i giorni, facendo il punto sugli allenamenti, gli infortuni, gli schemi e i programmi. Che lui improvvisamente se ne uscisse con questo aut aut quando eravamo già qualificati alla fase finale per me non aveva senso. Ripeto, parlavamo ogni santo giorno. Il direttore generale in pratica fa da trait d’union, passa i miei messaggi al presidente e viceversa. Quindi per me è importantissimo avere un buon rapporto con lui, considerato il tempo che passiamo insieme e il fatto che può influenzare il giudizio del grande capo su di me. Un altro compito del dg è quello di fare da cuscinetto: se uno di noi due si arrabbia o è stufo, lui può fungere da pacificatore. Galliani lo fece diverse volte, al Milan.

Al Chelsea fu più difficile innanzitutto perché lo chief executive, Peter Kenyon, se ne andò poco dopo il mio arrivo. Il primo anno fu il direttore sportivo, Frank Arnesen, a coprire il suo ruolo. C’era un cda con un presidente e altri membri e, ovvio, il proprietario, Abramovic, seguiva molto da vicino quello che accadeva, com’è giusto che sia. Ma poi anche Arnesen se ne andò e tra me e Abramovic si aprì una specie di vuoto. Nessun trait d’union, nessun cuscinetto, così le nostre conversazioni diventarono imprevedibili e a volte mi colsero impreparato. Sarebbe potuto essere un assetto temporaneo, ma Arnesen non venne mai rimpiazzato e si creò confusione all’interno della struttura. Non che nessuno facesse quel lavoro: il problema era che cercavano di farlo tutti. (…)

Bayern Munich's Italian head coach Carlo Ancelotti gives autographes during the German first division Bundesliga football match of Bayern Munich vs FC Ingolstadt in Munich, southern Germany, on September 17, 2016. / AFP / GUENTER SCHIFFMANN / RESTRICTIONS: DURING MATCH TIME: DFL RULES TO LIMIT THE ONLINE USAGE TO 15 PICTURES PER MATCH AND FORBID IMAGE SEQUENCES TO SIMULATE VIDEO. == RESTRICTED TO EDITORIAL USE == FOR FURTHER QUERIES PLEASE CONTACT DFL DIRECTLY AT + 49 69 650050 (Photo credit should read GUENTER SCHIFFMANN/AFP/Getty Images)

(…) Ecco come vedo il managing up: bisogna tutelare i giocatori e gestire le aspettative dei piani alti. La prima cosa è facile, viene quasi naturale, la seconda è difficilissima. Nel calcio, infatti, soprattutto nei top club, ci sono sempre delle aspettative, che si tratti di portare a casa la Décima, come per me a Madrid, o di giocare in un certo modo, come al Milan, o di vincere una determinata partita. Il direttore generale mi terrà sempre al corrente riguardo alle aspettative dei piani alti e io farò sempre del mio meglio per gestirle in modo che non abbiano ripercussioni negative sui giocatori. Il mio metodo, anche in questo caso, prevede di costruire costantemente relazioni, di stabilire una buona intesa con il direttore generale (che fa da trait d’union tra me e il presidente) e di creare un rapporto di confidenza con i giocatori. Nella costruzione delle relazioni investo moltissimo, pur non dimenticando mai chi comanda. E se il presidente ha la sensazione di essere “gestito” vuol dire che ho fallito.

 

Costruire e gestire il talento

In ogni club, com’è ovvio, la parte più importante sono i calciatori. Senza di loro non esisterebbe il gioco, non ci sarebbero i tifosi… nulla. Proprio come nell’industria dell’entertainment, non c’è show senza talento, e nel mondo degli affari: senza il core staff in grado di far accadere tutto, dov’è il business? Così la gestione del talento è una delle sfide fondamentali che un leader deve affrontare in ogni tipo di organizzazione. Nel calcio, le chiavi della gestione di un giocatore sono le fasi fondamentali del ciclo del talento: reclutamento, integrazione (onboarding), crescita e successione. A mia volta, io sono parte del ciclo del talento delle persone al di sopra di me, ovvero il direttore generale e il presidente, quelle a cui devo render conto. Il mio punto di partenza è che giocatori e staff sono esseri umani, e quindi non definiti dai loro ruoli, posizioni o incarichi. La prima volta che incontro un ragazzo in un nuovo club gli chiedo: «Tu, chi sei?», e lui magari risponde: «Un giocatore, un grande centrocampista offensivo». Allora io replico: «No, tu sei Tizio Caio», insomma il suo nome. «Sei una persona che gioca a calcio. Puoi essere bravissimo, un fuoriclasse di livello mondiale, ma non è questo che ti definisce».

Bayern Munich's Italian headcoach Carlo Ancelotti (L) embraces Manchester's Spanish headcoach Pep Guardiola prior to a friendly soccer match between the German first division Bundesliga club FC Bayern Munich and the Premier League football team Manchester City in Munich, southern Germany, on July 20, 2016. / AFP / CHRISTOF STACHE (Photo credit should read CHRISTOF STACHE/AFP/Getty Images)
Carlo Ancelotti e Pep Guardiola si abbracciano prima di una sfida estiva tra Bayern Monaco e Manchester City (Christof Stache/Afp/Getty Images)

Cerco di interpretare la persona nella sua interezza, e anche di aiutare i ragazzi a vedersi in una prospettiva più ampia. Reclutamento Nel calcio, come negli affari, ci sono vari tipi di pressioni – commerciali, culturali, politiche – di cui si deve tenere conto quando si recluta un top player in un mercato estremamente competitivo. Negli affari si parla di war for talent, e vale anche per il calcio, che una guerra lo è sempre stata. E, come in tutte le guerre, devi scegliere le tue battaglie, commisurare le ambizioni alle risorse, stringere alleanze strategiche e, cosa fondamentale, essere più furbo del tuo nemico. Il mio ruolo in questa fase non è un ruolo “normale” nel mondo degli affari, ma è così che funziona un club, soprattutto in Europa. Le trattative di solito sono responsabilità del direttore generale, ma spesso un giocatore prima di decidere vuole parlare con l’allenatore che troverebbe. Ed ecco, a volte questi piccoli tocchi personali possono fare la differenza nel convincere un ragazzo incerto. Io ho parlato con tutti, o quasi, prima che firmassero per la mia squadra, a volte su richiesta del club, a volte dell’agente, a volte dello stesso giocatore. I top player devono essere sicuri che quel trasferimento per loro sia la scelta giusta.

Prendiamo, ad esempio, il caso di David Beckham, che è abbastanza intelligente da sapere che uno con il suo profilo potrebbe non trovarsi bene con un determinato allenatore. Così prima di venire in prestito al Milan mi contattò e mi chiese se lo volevo, e io gli risposi di sì. Solo in seguito discutemmo di come e quando avrebbe giocato. Poi probabilmente scese in campo più di quanto si fosse aspettato, ma ci fidavamo l’uno dell’altro, parlavamo parecchio, e non ci fu nessun problema. A ogni modo, il mio compito principale nella fase di reclutamento è dire: «Abbiamo bisogno di un giocatore di questo tipo per questa posizione, e di un giocatore di quest’altro tipo per quest’altra». Posso suggerire un paio di nomi, ma poi è la società, insieme al team degli osservatori, a stilare una lista dei candidati papabili. Ai vecchi tempi sarebbe toccato solo al primo allenatore e al presidente, ma adesso il calcio è un business vero e proprio e vengono prese in considerazione non solo le performance di un giocatore X sul campo, ma anche fattori come l’età, il valore in caso di futura cessione, il ritorno commerciale e via dicendo. E questo non è il mio lavoro. Io mi preoccupo di quello che succede sul campo. A volte, quando è possibile scegliere tra due candidati per la stessa posizione, ho voce in capitolo, voce che può diventare determinante. Al Real Madrid, ad esempio, quando si trattò di decidere tra Toni Kroos e un altro calciatore, dissi al direttore generale: «L’altro lo conosco, beve e non è molto professionale. Prendete Kroos». E arrivò Kroos.

(…)

Real Madrid's Italian coach Carlo Ancelotti gestures during the Spanish league football match Real Madrid CF vs Valencia CF at the Santiago Bernabeu stadium in Madrid on May 9, 2015. The game ended with a draw 2-2. AFP PHOTO/ GERARD JULIEN (Photo credit should read GERARD JULIEN/AFP/Getty Images)
Carlo Ancelotti durante una sfida tra Real Madrid e Valencia (Gerard Julien/Afp/Getty Images)


La divisione dei compiti

Non sono mai stato in un club in cui la responsabilità del reclutamento era interamente nelle mie mani. (…). Lo United a van Gaal aveva dato carta bianca, idem l’Everton a Roberto Martínez. Ma questa storia del manager non durerà, si fa troppo affidamento su un’unica testa che non può gestire tutto. Non ha senso, per le società, lasciare al solo allenatore la strategia della campagna acquisti perché, secondo le statistiche, resterà in carica per meno di due anni. Che fine faranno i giocatori che ha scelto? No, il club deve avere una sua politica, e il coach deve aiutare a tradurla in pratica. Quando il Real Madrid decise di prendere Martin Ødegaard, un ragazzo norvegese di sedici anni, io pensai: “Non m’importa se verrà o meno, tanto con me non giocherà”. Poteva anche diventare il numero uno, ma era un acquisto che non m’interessava, non era importante per il mio lavoro. Certo, quando arrivò lo trattai con lo stesso rispetto con cui tratto i giovani, ma che senso avrebbe avuto coinvolgermi in quell’affare? Era un investimento per il futuro, per i miei successori. Rispettare la visione della dirigenza conta ancora moltissimo. Pérez era noto per il suo approccio galáctico secondo cui bisognava prendere i giocatori più bravi e costosi del mondo, così arrivarono e ripartirono un sacco di ragazzi che non avevo scelto io, ma il mio lavoro era fare in modo che la squadra funzionasse con qualsiasi nuovo innesto.

Combattere contro cose già accadute è una perdita di tempo e di energie, bisogna gestirle, in fondo è per questo che ci chiamano manager. Se il presidente decide, per motivi di Pr, che il ragazzino norvegese in questione deve giocare tre partite con la prima squadra, io troverò modo di farlo. Se il presidente decide di vendere un centrocampista come Xabi Alonso, io lo devo accettare. Pensate davvero che avrei voluto perdere Xabi? Ovviamente no, ma dovevo far sì che le cose continuassero a funzionare lo stesso senza di lui. Al Real, non avendo idea di quanto sarei rimasto, tenni gli occhi aperti, mentre a Parigi era stato diverso. Al Paris Saint-Germain pensavo di far parte di un progetto a lungo termine, così volevo sapere tutto: del settore giovanile, delle politiche di reclutamento, dei giocatori che avevamo in squadra e di quelli che avremmo potuto prendere… Stavo cercando di fondare una cultura e volevo essere coinvolto a trecentosessanta gradi per essere certo che i giocatori in arrivo fossero adatti. Ora come ora, nella fase di reclutamento un grosso ruolo lo giocano gli agenti dei giocatori.

Bayern Munich's new coach Carlo Ancelotti holds a press conference in Charlotte, North Carolina, on July 29, 2016, on the eve of Bayern's International Champions Cup match against Inter Milan. / AFP / Nicholas Kamm (Photo credit should read NICHOLAS KAMM/AFP/Getty Images)
Carlo Ancelotti in conferenza stampa prima dell’amichevole International Champions Cup contro l’Inter (Nicholas Kamm/Afp/Getty Images)

Per fortuna, dei rapporti con questi personaggi si occupa il direttore generale. Io, come ho già detto, evito di averci a che fare, e i club per cui ho lavorato finora raramente me lo hanno chiesto. (…) A Parigi c’era un ragazzo giovane, Adrien Rabiot, anche lui faceva tutto in famiglia, ma in modo un po’ diverso. Aveva diciassette anni quando lo inserii in prima squadra e da allora ogni giorno sua madre, Véronique, veniva a guardarlo allenarsi. Gli metteva pressione, sul serio, e un giorno chiese di parlare con me. Ci sedemmo e lei disse: «Sono qui in veste di madre e di agente di mio figlio». «Un attimo» feci io. «Io però parlerò con lei solo in quanto madre, non in quanto agente. Gli agenti devono parlare con il presidente». È una mia regola. Certo, quando il mercato è nella fase calda a volte il direttore generale o il presidente mi chiedono di parlare con i procuratori, ma mai a stagione in corso. Non va bene.

 

Far crescere anche i campioni

Come puoi far crescere giocatori come Cristiano Ronaldo, che sono già al top? Atleti come lui sono così professionali da essere loro stessi a dirti in cosa hanno bisogno di migliorare; inoltre sono felici se gli fai notare sotto quale aspetto pensi che possano ancora crescere. Non saranno mai suggerimenti tecnici, ovvio, ma questioni che hanno a che fare con la gestione della partita, con statistiche dettagliate o con informazioni sulla condizione fisica. Con i giovani è un po’ diverso. Con loro bisogna fare un lavoro specifico per spostare in avanti i limiti, migliorare la visione del match e del proprio ruolo in moduli differenti, e anche un po’ la tecnica in aree in cui potrebbero essere carenti. Ad esempio, per il Ronaldo diciottenne appena sbarcato allo United fu importante capire le dinamiche della squadra, e questo richiedeva tempo. Sir Alex e i suoi assistenti con lui si concentrarono sulla tecnica solo in quanto applicata alle esigenze del gruppo. Quando lo trovai a Madrid, il punto fu come fare in modo che i compagni approfittassero il più possibile del suo talento.

Insomma, la crescita tecnica va di pari passo con l’età del ragazzo. I grandi calciatori spesso prendono anche grandi decisioni, quelle giuste. Sanno quando passare la palla, tirare, difendere, attaccare. Il tecnico deve convincerli a mettere questo talento al servizio del team: è così che possono continuare a migliorare. A mia volta, io devo trovare il modo per tenere vivo il loro talento e renderlo efficace, ma sempre dispiegandolo all’interno del sistema-squadra. Non voglio sacrificare nemmeno un briciolo di queste incredibili qualità – i ragazzi devono conservarle tutte – e allo stesso tempo devo far capire al gruppo il valore aggiunto che possono dare questi campioni. Se non avessi avuto Cristiano Ronaldo, ad esempio, avrei giocato in un altro modo. Idem senza Zidane alla Juventus.

Bayern Munich's Italian headcoach Carlo Ancelotti leaves the stadium after the German first division Bundesliga football match between FC Augsburg and FC Bayern Munich in Augsburg, southern Germany, on October 29, 2016. / AFP / CHRISTOF STACHE / RESTRICTIONS: DURING MATCH TIME: DFL RULES TO LIMIT THE ONLINE USAGE TO 15 PICTURES PER MATCH AND FORBID IMAGE SEQUENCES TO SIMULATE VIDEO. == RESTRICTED TO EDITORIAL USE == FOR FURTHER QUERIES PLEASE CONTACT DFL DIRECTLY AT + 49 69 650050 (Photo credit should read CHRISTOF STACHE/AFP/Getty Images)
Carlo Ancelotti lascia lo stadio dopo la sfida di Bundesliga contro l’Ausburg (Christof Stache/Afp/Getty Images)

Quando ero al Parma ci fu la possibilità di acquistare Roberto Baggio. Allora io giocavo sempre con il 4-4-2, e decisi di non prenderlo perché lui voleva giocare dietro le punte, non in un 4-4-2. Fu un errore, adesso me ne rendo conto. Avrei potuto utilizzarlo come centrocampista offensivo, invece che in attacco. Ai tempi dissi no, mi rifiutai di cambiare la mia idea di calcio perché non ero abbastanza sicuro di me. Non avevo esperienza, mi preoccupai, anche se in fondo già sapevo che era uno sbaglio. Avrei dovuto lavorare con Baggio, trovare il modo di inserirlo nei miei schemi. Imparai la lezione e sfruttai appieno i vantaggi di una maggiore elasticità nei sistemi di gioco quando arrivai alla Juventus, dove fui costretto a cambiare la mia idea di calcio proprio per sistemare Zidane, a costruirgli un modulo intorno invece di infilarlo a forza nel mio amato 4-4-2. Iniziammo a giocare con tre difensori, quattro centrocampisti, Zidane e poi due attaccanti. (…) La soluzione non è mai sacrificare il talento disperdendolo, ma permettere a questo talento di sbocciare, che è sempre la cosa migliore per la squadra. Insomma, l’equilibrio non consiste nel perdere il talento per far adattare il giocatore alla squadra, ma strutturare la squadra in modo che possa accoglierlo.

 

Il valore dell’identità

La chiave di tutto, sul campo, è l’identità della squadra, laddove per identità intendo lo stile di gioco. Ti blindi in difesa? Quanto è importante per te il possesso palla? E cosa ci fai, con la palla? Sono questi i fattori determinanti per l’identità di un team. Non la mia, quella della squadra, che dipende dalle richieste del club, dalle caratteristiche dei giocatori, dalla storia e dalla tradizione della società. Il Real Madrid, per esempio, ha un’identità molto chiara, radicata nel suo illustre passato. Nel decennio 1956-1966 ha vinto sei Coppe dei Campioni, cinque di fila, giocando in un modo che è rimasto parte del Dna del club. Ecco perché la Décima era così importante. A loro piace giocare un calcio offensivo, i tifosi se lo aspettano, e il presidente deve rispettare questa aspettativa. Arrivando in un nuovo club vorresti introdurre dei cambiamenti e rimotivare i giocatori, mostrare loro la tua personalità e le tue idee, ma non bisogna stravolgere l’identità. C’era differenza, ad esempio, tra come giocava il Milan e l’identità che stava maturando il Paris Saint-Germain: possesso palla, trovare spazio tra le linee… Ecco, nei primi tempi in queste due squadre cambiai sì gli allenamenti, ma mantenendo la loro identità.

L’identità deve plasmarla l’allenatore, che però a sua volta non può ignorare il club, il cui brand, come si è già detto, è fondamentale. Ogni tecnico ha le sue preferenze, e ogni club arruolandolo deve accettare che le porterà nella squadra. Se ingaggi Guardiola o Wenger, stai comprando un determinato approccio, la convinzione che sia il gioco – in particolare il possesso palla – a orientare i risultati. Se prendi Ferguson o Mourinho stai acquistando un approccio differente: lo scopo è vincere, e sarà questo a determinare lo stile della squadra. (…)

MADRID, SPAIN - SEPTEMBER 27: Manager Carlo Ancelotti of FC Bayern Muenchen looks on during a team training session at Vicente Calderon Stadium ahead of the UEFA Champions League Group D match between Club Atletico de Madrid and FC Bayern Muenchen on September 27, 2016 in Madrid, Spain. (Photo by Denis Doyle/Getty Images)
Carlo Ancelotti durante una sessione di allenamento al Vicente Calderon (Denis Doyle/Getty Images)

Nonostante l’identità generale della squadra sia importantissima, forse il discorso è più chiaro se la intendiamo come strategia, insomma se parliamo di tattica: come giocare in determinate partite o in determinati periodi della stagione, come cambiare modulo o formazione contro determinati avversari… anche questi sono fattori cruciali per il successo. Quando la gente parla di calcio tende a vedere il gioco “offensivo” sempre in maniera positiva, e a bollare quello “difensivo” in maniera negativa. Be’, non è così. Se una squadra gioca bene in difesa e meno bene in attacco, o il contrario, significa che ha un cattivo allenatore. Bisogna essere forti in entrambi i reparti.  (…)

 

L’evoluzione della tattica

Negli ambienti militari si dice che nessuna strategia sopravvive al contatto con il nemico. Ecco, questo nel calcio è molto vero. Prepari la partita per tutta la settimana e poi magari gli avversari schierano uomini diversi da quelli che ti aspettavi. Oppure, al fischio d’inizio, capisci che useranno un modulo differente. O ancora, in determinati match, dove gli avversari giocano sempre alla stessa maniera e la tua squadra fa fatica ogni volta, sei costretto a cambiare tu per contenerli. Quando ero al Real avevamo parecchie difficoltà contro i nostri rivali dell’Atlético. Loro giocavano sempre allo stesso modo, ma i problemi per noi si ripresentavano. In pratica, in queste partite ci limitavamo a rispondere a quello che decidevano di fare loro. Il punto di forza dell’Atlético era la parte centrale del campo, dove erano molto aggressivi. Appena conquistavano palla si lanciavano in avanti, all’istante. Così la nostra tattica era evitare di usare quella zona e muoverci sulle fasce per far partire cross al centro. Dicevo ai terzini di restare alti e di fare pressing appena perdevamo palla per impedire che loro ripartissero in contropiede. Spesso poi bisogna modificare la formazione ideale a causa di infortuni o nuovi acquisti, ma è da questi momenti “critici”, dalle “scelte obbligate”, che possono scaturire le idee migliori.

Al Milan, ad esempio, in un’estate arrivarono un sacco di top player e all’inizio feci fatica a sistemarli e a farli tutti contenti, ma poi si creò una congiuntura meravigliosa. Primo, Andriy Shevchenko si infortunò, così spostai Andrea Pirlo più indietro, come regista alle spalle dei due centrocampisti offensivi. E alla fine ci inventammo il famoso modulo ad albero di Natale. Fu una soluzione di emergenza, ma calzava a pennello con la filosofia del presidente. Come si dice, “la necessità è la madre delle invenzioni”.  (…) Ed è qui che i moduli diventano importanti. Come ho già detto, all’inizio della mia carriera sposai il 4-4-2. Adesso ho imparato a essere più elastico, anche se tuttora credo che sia il modulo difensivo migliore. Copri meglio il campo ed è più semplice spingere e pressare alto se i giocatori hanno le spalle coperte. Anche con il 4-3-3 puoi fare pressing alto con i tre attaccanti, ma a centrocampo puoi avere dei problemi, rischiare di scoprirti, soprattutto sulle fasce. Inoltre se gli uomini davanti non sono bravi ad aggredire, per i difensori avversari può essere facile scavalcarli e arrivare alla linea successiva in superiorità numerica. Con il 4-4-2 capita meno spesso, perché puoi fare in modo che gli esterni rimpolpino il centrocampo e i centrali non restino in inferiorità. Anche il 4-4-2, ovviamente, ha i suoi lati negativi.

AC Milan's Andrei Shevchenko is congratulates by team coach Carlo Ancelotti after he scored the first goal during their UEFA Cup first round, second leg football game against FC Zurich on October 2, 2008 in Zurich. AFP PHOTO / FABRICE COFFRINI (Photo credit should read FABRICE COFFRINI/AFP/Getty Images)
Andrei Shevchenko e Carlo Ancelotti si abbracciano dopo un gol (Fabrice Coffrini/Afp/Getty Images)

(…) Seedorf era un giocatore a cui non potevi non delegare compiti. Dovevi solo dirgli: «Occupati di questo» e lui lo faceva, ma dovevi specificare bene cosa volevi, altrimenti la sua forte personalità lo portava a fare tutto. La soluzione fu spostarlo nella posizione in cui pensavo sarebbe stato più utile, ma dovetti convincerlo. Quando arrivò al Milan, nel 2002, Seedorf ebbe parecchi problemi con i compagni. Per il suo carattere, si comportava come se fosse responsabile anche degli altri. Alla fine qualcuno gli disse: «Tu non sei l’allenatore, non ci devi parlare così». La verità era che Seedorf avrebbe potuto essere il soldato semplice e allo stesso tempo il leader, ma nello spogliatoio c’era già Paolo Maldini, quindi fummo costretti a trovare un equilibrio.

Seedorf non strafaceva per cattive intenzioni, era solo carico a molla e molto preso dal progetto. Aveva idee interessanti, ma le spiegava con troppa energia. Insomma, ci voleva una via di mezzo. Gli spiegai che doveva essere più gentile e paziente nel dire certe cose, e al resto della squadra assicurai che Clarence aveva la mia più completa fiducia. A lui facevo presente: «Clarence, è una buona idea, ma gli altri dobbiamo convincerli in un altro modo, dobbiamo educarli piano piano». Seedorf è uno di quei giocatori che vorrei sempre avere in squadra. In fondo, sono le persone come lui i veri punti di riferimento per gli altri. I leader li sceglie il gruppo, non l’allenatore o il presidente, e Seedorf era un leader. Imparò a moderare i toni e i compagni iniziarono ad apprezzare la sua personalità e la sua sicurezza. Spesso il carattere conta anche più della tecnica.

 

Come usare i dati (e le energie)

Tutti abbiamo bisogno di migliorare nell’uso dei dati, perché altrimenti gli altri lo faranno prima di noi. È ugualmente importante, però, attribuire loro il giusto peso. I dati sono uno strumento, non devono trasformarsi in un’ossessione. A un certo punto, l’aspetto cruciale è diventato il possesso palla, con ogni analista concentrato su questo. Come mai? Perché era una cosa che si poteva misurare. Attenzione, come disse Albert Einstein: «Non tutto quel che conta può essere contato, e non tutto quel che può essere contato conta». Il possesso palla non basta per vincere una partita. C’è un solo dato che è sempre correlato alla vittoria, e sono i gol. Se ne segni più degli avversari, vinci. I dati tecnici riguardano solo i pochi minuti in cui il giocatore ha tenuto la palla tra i piedi in un match, io invece voglio i dati fisici su cosa ha fatto negli altri ottantotto, ottantanove. Ne ho bisogno per motivi tattici.

Per esempio: quanto ci mette il calciatore X a tornare in difesa in una determinata fase dell’incontro? Se ho questa informazione, posso sapere quanto mandarlo avanti in modo che poi faccia in tempo a rientrare e coprire. Se ripenso ad Arrigo Sacchi, il mio mentore, e al modulo con cui giocava, mi rendo conto che questo tipo di dati fisici lo avrebbe aiutato a capire la quantità di lavoro che chiedeva ai giocatori per riprendere la posizione. Se giochi con un’intensità alta, come faceva Jürgen Klopp al Borussia Dortmund e adesso al Liverpool, l’informazione sarà altrettanto decisiva. E la questione non è se il modulo è giusto, ma se è sostenibile per un’intera stagione, o addirittura due tre. Il fisico dei giocatori sarà in grado di reggere un simile dispendio di energie?

Bayern Munich's Italian head coach Carlo Ancelotti arrives for a press conference at the Vicente Calderon stadium in Madrid on September 27, 2016 on the eve of their UEFA Champions league match against Atletico de Madrid. / AFP / JAVIER SORIANO (Photo credit should read JAVIER SORIANO/AFP/Getty Images)
Il tecnico del Bayern Monaco Carlo Ancelotti prima di una sfida di Champions League contro l’Atlético de Madrid ( Javier Soriano/Afp/Getty Images)

(…) Nel calcio, come in ogni cosa, l’importante è non fermarsi mai. Non bisogna credere che la tattica escogitata oggi e che ti ha portato grandi successi in passato continuerà a essere efficace domani. I tuoi avversari non resteranno certo con le mani in mano. Prendete, ad esempio, il Chelsea della scorsa stagione, 2015/16. In quella precedente avevano vinto la Premier e sembravano imbattibili; poi, all’improvviso, non vincevano quasi più una partita. Stessi giocatori, stessa tattica, stesso modulo: cos’era cambiato? La differenza è che le altre squadre nel frattempo si erano date una mossa e avevano lavorato per mettere in crisi il sistema Chelsea. Restare fermi significa, di fatto, tornare indietro.

 

Una frase, una chiave

(…) La mia citazione preferita sullo spirito di squadra è della leggenda del basket Michael Jordan, forse uno dei più grandi sportivi di tutti i tempi a livello individuale, ma un uomo squadra ancora più grande. Ecco, questa frase dovrebbe essere appesa in tutti gli spogliatoi: «Ci sono molte squadre, in ogni sport, che hanno grandi giocatori ma non vincono mai titoli. La maggior parte delle volte quei giocatori non sono disposti a sacrificarsi per il bene della squadra. La cosa divertente è che, alla fine, la scarsa disponibilità al sacrificio rende più difficile raggiungere gli obiettivi personali. È mia convinzione profonda che se si pensa e si ha successo come una squadra, i riconoscimenti individuali verranno da sé. Il talento fa vincere le partite, l’intelligenza e il lavoro di squadra fanno vincere un campionato».

 

 

Nell’immagine in evidenza, Carlo Ancelotti prima dell’inizio di Bayern Monaco-Werder Brema, lo scorso 26 agosto (Christof Stache/AFP/Getty Images)