Julian Nagelsmann è una grande allucinazione collettiva?

La sua esperienza al Bayern è finita prima del tempo, e in modo brutale: ma com'è andata realmente?

L’esonero di Julian Nagelsmann ha fatto esplodere l’entropia nel calcio europeo. Tutti sono stati presi in controtempo dall’annuncio del Bayern Monaco, a partire dal diretto interessato, poi giù fino alla squadra, alla stampa, all’opinione pubblica. Improvvisamente anche il sentire comune su uno degli allenatori più interessanti in circolazione ha iniziato a sfumare su altre tonalità: un attimo prima Nagelsmann era la miglior espressione della scuola tedesca degli allenatori, quella dei laptop trainer innovatori e un po’ secchioni, un attimo dopo era un sopravvalutato, un montato, forse un’allucinazione collettiva o forse un allenatore come un altro, solo con un buon ufficio stampa. Il campo può aver condizionato fino a un certo punto tutti questi giudizi: nel 2023 il Bayern ha perso 10 punti rispetto al Borussia Dortmund, ha incassato due brutte sconfitte da Borussia Mönchengladbach e Bayer Leverkusen, insomma è sembrato meno brillante rispetto alla versione 2021/22 – che comunque era passata dalla delusione per l’eliminazione ai quarti di Champions League contro il Villarreal. Eppure la squadra bavarese è ancora seconda in campionato a un punto dal Borussia Dortmund, con lo scontro diretto in programma sabato, ed è qualificata ai quarti di finale della Coppa di Germania. Ma soprattutto dovrà disputare i quarti di Champions League, dopo aver dominato la doppia sfida degli ottavi contro il Paris Saint-Germain e dopo aver passato in scioltezza il girone di ferro con Inter e Barcellona – con un percorso netto di otto vittorie in otto partite, tra l’altro. 

Dunque, visto che i risultati possono contenere un piccolo indizio ma non bastano a fare una prova, allora la Suddeutsche Zeitung ha provato a spiegare l’esonero di Nagelsmann partendo dalla sua personalità: «Potrà anche essere un ottimo insegnante di calcio, ma spesso dava sui nervi ai giocatori». Nelle parole pronunciate in questi giorni da quegli stessi giocatori non si percepiscono certi sentimenti, e lo stesso vale per l’applicazione in certi momenti della stagione, soprattutto in Champions: le prestazioni offerte in Europa facevano pensare a tutto meno che che a una squadra coalizzata contro il suo allenatore. Alla fine, quindi, la tesi più credibile quella per cui alla base dello strappo ci sarebbe una certa insoddisfazione della dirigenza, di Hasan Salihamidzic e Oliver Kahn, per questioni che riguardano il carattere e la personalità dell’allenatore – se ne era parlato già a gennaio, dopo il licenziamento di Toni Tapalovic, preparatore dei portieri molto vicino a Manuel Neuer con cui Nagelsmann era entrato in conflitto. 

In un aneddoto sospeso tra realtà e leggenda, Maurizio Zamparini, presidente del Palermo, nel 2004 avrebbe esonerato Silvio Baldini per assumere Francesco Guidolin dicendo: «Se non era libero Guidolin, col cazzo che cacciavo Baldini». Forse non ha mai pronunciato queste esatte parole, ma il suo pensiero non doveva essere così tanto diverso. Ecco, la dirigenza del Bayern potrebbe aver ragionato allo stesso modo. L’annuncio di Thomas Tuchel, immediato e fluido rispetto all’allontanamento di Nagelsmann, non è casuale. «L’idea del club era quella di lasciare Nagelsmann al suo posto per poi cambiare in estate. Ma Tuchel, che vive a Monaco da alcune settimane e puntualmente portava a spasso il suo cane nel quartiere di Bogenhausen, non era disposto ad aspettare». In questa ricostruzione di The Athletic, quindi, il Bayern ha accelerato i tempi per impedire che l’ex allenatore di Chelsea e Psg trovasse un accordo con un’altra squadra, magari il Tottenham o il Real Madrid. Esattamente com’era successo nel 2018, quando Tuchel, pur essendo l’erede designato di Jupp Heynckes, finì a Parigi a causa dei tentennamenti di Uli Hoeness. 

Insomma, il Bayern Monaco doveva mettere le mani su Tuchel, un allenatore garanzia di esperienza, aziendalismo e quella dose di pragmatismo che Nagelsman non ha e forse non può (ancora) avere. Perché Nagelsmann non ha poi molta strada alle spalle, non nei grandi club almeno. Ha 35 anni, è giovane. E quando si è giovani – sì, ho usato “giovane” usando lo stesso tono che avrebbe usato Michele Serra, che storia incredibile – lo si è in tutto: nel lavoro, nel rapporto con la dirigenza, nelle decisioni quotidiane grandi e piccole. E poi anche nel modo di parlare, di muoversi, di stare sui social. Rory Smith, nella sua newsletter per il New York Times, dice che «il Bayern dà grande importanza all’idea di avere un allenatore capace di adattarsi. È un criterio mutevole e vago, ma che alla fine ha condannato Nagelsmann». Lo dimostra il fatto che per i bavaresi siamo al terzo esonero in sei anni, con Carlo Ancelotti e Niko Kovac sostituiti da Jupp Heynckes e Hansi Flick, due fedelissimi del club, due tecnici dal profilo basso e che godevano della fiducia incondizionata della dirigenza. L’ex Lipsia è un’altra cosa: è la giovane sensazione del calcio europeo ormai da molti anni, arrivato prestissimo ad alti livelli e diventato già un’icona in Germania e fuori. Il suo personaggio ha i contorni dell’uomo venuto da un’altra dimensione del multiverso, una solo simile alla nostra: nel 2020, a 33 anni, è diventato il primo allenatore brand ambassador Nike; al centro di allenamento di Sabenerstrasse si spostava su un hoverboard che lo rendeva più simile a un imprenditore creativo della Silicon Valley che a un uomo di campo. Allo stesso tempo Nagelsmann ha anche un carattere indefinibile, o forse c’è una parola tedesca anche per questo: da sempre viene raccontato come l’allenatore che riesce a legare con i  suoi calciatori perché loro coetaneo, quindi allineato a certe frequenze, ma al tempo stesso è dipinto pure come un freddo calcolatore con manie di controllo panottico su ogni aspetto del suo lavoro, compresi squadra e staff – lui stesso ha ammesso di aver lavorato con un addestratore di cavalli per smussare gli spigoli del suo carattere, e forse non è nemmeno la cosa più assurda che ha fatto. 

Probabilmente bisogna guardare questi dettagli per interpretare l’esonero di Nagelsmann. Anche perché nel frattempo, sul campo, il Bayern stava lavorando per diventare quella che un anno fa avevamo definito come un’utopia ultraoffensiva, uno degli esperimenti calcistici più interessanti d’Europa, una squadra che viveva con urgenza quasi ossessiva la ricerca del gol, della giocata più spettacolare, rischiosa e potenzialmente remunerativa. «Non importa quale sia il punteggio: il nostro obiettivo è sempre quello di continuare a segnare», aveva detto Leroy Sané a dopo un 7-0 al Bochum. Nel suo sistema, Nagelsmann è riuscito a valorizzare gli asset del presente e del futuro – Musiala, Upamecano, Gnabry – come quelli apparentemente meno centrali, da Pavard a Stanisic, fino a Choupo-Moting. Il bilancio finale suggerisce un percorso tutto sommato apprezzabile: Nagelsmann esce da Sabenestrasse con 84 partite, 60 vittorie, appena 10 sconfitte e 255 gol segnati, più di tre a partita. 

Julian Nagelsmann ha esordito come allenatore in prima, all’Hoffenheim, il giorno 11 febbraio 2016: aveva solamente 28 anni (Carmen Jaspersen/DPA/AFP via Getty Images)

Allenare il Bayern era l’obiettivo di una vita e di una carriera per il ragazzo nato a Landsberg am Lech, piccolo centro a 60 chilometri da Monaco. Ci è arrivato molto presto, ci è arrivato da giovane, da allenatore prodigio dopo due esperienze esaltanti all’Hoffenheim e al Lipsia. Tutto il suo percorso è stato disegnato per arrivare su quella panchina. Nagelsmann, quindi, non è stato un incidente di percorso per il Bayern. Non è stato una scelta sbagliata, semplicemente non è riuscito a fare tutto quel che avrebbe potuto, dovuto o voluto nel club più ambito di Germania. Ma ha avuto poco più di un anno e mezzo, si è goduto solo l’inizio di un percorso che da programma sarebbe dovuto durare molto di più: il Bayern, infatti, aveva speso 25 milioni di euro per portarlo via da Lipsia e gli aveva offerto un contratto di cinque anni. 

La verità, dunque, è che determinare i giudizi su Nagelsmann, vista l’età e l’impatto sul calcio tedesco e mondiale, sarà il prossimo incarico, o forse i prossimi due o tre. Sembra che il Tottenham stia pensando di portarlo a Londra; il Real Madrid potrebbe affidargli la panchina dopo Ancelotti; Chelsea, Paris Saint-Germain e qualunque altra squadra in grado di offrirgli contratto e ambizioni all’altezza si faranno almeno stuzzicare dall’idea, qualora dovessero esonerare i loro tecnici. Curiosamente il suo posto in Baviera lo prende l’uomo a cui Nagelsmann “deve” la sua carriera da allenatore: fu proprio Thomas Tuchel a incoraggiare il ragazzino bavarese, già incrociato ai tempi delle giovanili dell’Augsburg, a tornare sul campo dopo l’esperienza universitaria. Gli chiese il report su una squadra che avrebbe affrontato la settimana successiva, Nagelsmann confezionò un documento talmente dettagliato che convinse Tuchel ad affidargli l’incarico di seguire gli avversari fino al termine della stagione: aveva visto nel giovanissimo Nagelsmann un talento genuino, con capacità d’analisi e intuizioni tattiche. Non si sbagliava, e la decisione della dirigenza del Bayern cambia poco, in questo senso. Dopo qualche anno, però, Nagelsmann ha iniziato a dire in giro che non era «il pupillo di Tuchel». E forse il motivo del suo esonero, in fondo, è tutto qui.