Ma allora in Serie A vincono le società con i migliori dirigenti?

I casi di Marotta, Maldini, Giuntoli e Sartori sono emblematici: dietro una grande squadra deve esserci per forza una società forte, coesa, competente.

Lo scudetto dell’Inter è prima di tutto la vittoria dei giocatori che hanno reso al meglio delle loro possibilità, in una condizione tecnica, mentale e fisica straordinaria. Poi è anche merito di un collettivo che è andato oltre i singoli e ha costruito una stagione quasi perfetta su meccanismi oliati e pensiero olistico: in questo c’è tutto il valore aggiunto di Simone Inzaghi e del lavoro che porta avanti da tre anni. E poi, in questo scudetto, c’è la bravura di chi tutti questi pezzi li ha messi insieme sfruttando le occasioni di mercato e lavorando su valori tecnici e umani. Parliamo ovviamente di Beppe Marotta uno dei fuoriclasse del mondo dirigenziale italiano. E non solo italiano. Per lui parla la storia, anche se lui la storia sembra non guardarla mai: la sua eccezionalità sta nel vivere in un eterno presente, nel costruire sempre la squadra vincente per l’occasione senza farsi schiacciare dall’incombenza del tempo, dal peso di dover rendere un progetto valido oggi e sostenibile domani. Le stagioni vincenti di Marotta, cioè quasi tutte quelle recenti, sono microcosmi in cui ha lavorato per raggiungere il picco più alto possibile nei dodici mesi. Per poi ricominciare l’estate successiva. È così che ha raggiunto tre finali di Champions in otto anni – due con la Juventus e una con l’Inter. E proprio mentre la sua Inter festeggiava la seconda stella, Marotta si godeva la sua prima, lo scudetto numero dieci da dirigente.

L’Inter campione d’Italia 2024 appartiene a Marotta più di quella che vinse nel 2021. Perché quella era l’Inter di Antonio Conte, in quel modo unico che ha l’allenatore salentino di rendere sue le squadre che allena, praticamente dal giorno zero. Eppure anche in quel caso erano evidenti i meriti dell’ad nerazzurro. Lo aveva scritto Gabriele Romagnoli su Repubblica, ormai tre anni fa: «Negli ultimi dieci anni Antonio Conte ha vinto cinque campionati, Massimiliano Allegri altrettanti. Beppe Marotta otto. Unisci i puntini tra i due allenatori, tra la Juventus e l’Inter, tra la rifondazione e il successo e qualcosa apparirà: lui».

Negli ultimi giorni si sta parlando moltissimo dell’intervista che Paolo Maldini ha rilasciato a Radio Tv Serie A. Parlando con Alessandro Alciato, la bandiera del Milan ha indicato proprio nel lavoro della dirigenza una delle chiavi di volta della stagione nerazzurra: «L’Inter ha una struttura che determina il futuro dell’area sportiva. È stata gratificata con contratti a lunga scadenza. Non è un caso che il Napoli vada male dopo aver perso allenatore e ds. La verità è che si dà poca importanza alla gestione del gruppo. Si considerano i giocatori delle macchine, ma i giocatori per produrre devono avere qualcuno che li aiuti. Ci si dimentica che hanno bisogno di supporto e di avere chi gli dica le cose come stanno». In queste parole c’è un attacco, nemmeno troppo nascosto, alle scelte del Milan, ma rientra nelle questioni personali e in questo momento ci interessa meno.

Se Marotta è un fuoriclasse, altri suoi colleghi hanno fatto lo stesso lavoro per le altre squadre che hanno vinto degli ultimi anni. A Napoli, Cristiano Giuntoli ci ha messo sette anni a farsi riconoscere, schiacciato tra una squadra sempre in primo piano in città e un presidente totalizzante, tanto visionario quanto accentratore. Eppure è uno dei protagonisti dell’estate 2022, quella che ha portato allo scudetto di un anno fa. Il Napoli campione d’Italia è una squadra unica, speciale per combinazione di fattori e allineamento degli astri. E indiscutibilmente è stato una creatura Giuntoli tanto quanto lo era di Luciano Spalletti. Non a caso lo stesso allenatore ha riconosciuto i meriti di Giuntoli a scudetto già vinto: «La parte maggiore l’ha fatta Giuntoli. Quando si va a mettere mano pesantemente su una squadra, serve sostituire i calciatori forti con altri calciatori forti. Magari erano sconosciuti, ma ci sono i video, ci si informa, oramai si arriva da tutte le parti».

Questa dichiarazione è sovrapponibile a quella che aveva fatto un anno prima Stefano Pioli a Dazn, dopo lo scudetto con il Milan: «Abbiamo meritato perché siamo una squadra forte e ho avuto al mio fianco due grandi dirigenti come Maldini e Massara». Perché in fondo non può essere un caso, questo discorso vale per tutte le squadre che hanno vinto i direttori sportivi e/o direttori generali e/o quello che sono in base al job title scelto dall’azienda, non sono mai marginali. Anzi, in un certo senso sono loro a vincere gli scudetti. E per questo in Italia abbiamo imparato a venerare i dirigenti come santoni, quanto e più dei giocatori che vanno in campo e degli allenatori. E non solo per quella passione smodata per il calciomercato che abbiamo da noi, passione che porta a esasperare i meriti di chi fa le trattative: ai grandi dirigenti viene riconosciuto soprattutto quel ruolo di collante che tiene in piedi la squadra. E, come per tutte le cose veramente importanti, si riconosce il loro valore nell’assenza. È proprio quello che aveva detto Maldini del Napoli di quest’anno: perso Giuntoli, il castello azzurro si è sbriciolato, in una successione di allenatori inermi, calciatori spaesati e dirigenti impotenti davanti a un progetto in caduta libera. Lo stesso Milan ha pagato l’addio di Maldini e Massara. Aver assegnato la carica di direttore sportivo a Antonio D’Ottavio, e aver promosso Geoffrey Moncada a direttore dell’Area Tecnica non ha garantito un basso profilo al club, non ha ridotto l’attenzione della stampa, né addolcito i tifosi. Anzi, ha tolto dall’equazione quelle figure in grado di manipolare l’ambiente e gli agenti esterni per proteggere squadra e spogliatoio. E in fondo era già successo, in misura diversa, alla Juventus dopo l’addio di Marotta nel 2018: senza di lui il primato adamantino dei bianconeri si è prima crepato e poi è crollato nel giro di poche stagioni.

A certi livelli, una squadra che vuole eccellere ha bisogno di essere perfetta, e perfettamente integrata, dagli uffici al campo. Poi è chiaro che il peso di ogni singolo direttore sul successo della sua squadra va sempre sfumato, filtrato attraverso i risultati. Perché non può esserci un dirigente eccellente se il campo non gli dà ragione. In fondo, a pensarci bene, sono sempre gli allenatori e ancora di più i giocatori i protagonisti in primo piano. Ma il ruolo e il peso che hanno certi dirigenti è il promemoria immanente di quanto sia importante, nel calcio del XXI secolo, vedere le squadre come emanazione di aziende articolate, stratificate, in cui nessuna vittoria può nascere solo dal basso, cioè dal campo, senza l’aiuto di chi sta dietro la scrivania.

Maldini è tornato al Milan nell’agosto 2018, prima come direttore dello sviluppo strategico dell’area sport, e poi – dal maggio 2019 fino a giugno 2023 – come direttore tecnico (Chris Ricco/Getty Images)

Si può guardare anche più in basso in classifica. Perché le due storie più belle dell’ultimo decennio di Serie A sono entrambe firmate da Giovanni Sartori, il trait d’union tra l’Atalanta che ha normalizzato lo straordinario e il Bologna che sogna di farlo. Lo aveva raccontato a Undici pochi mesi fa Marco Di Vaio, direttore sportivo del club rossoblu: «A giugno 2022 l’arrivo di Sartori come nuovo responsabile dell’area tecnica è stata una decisione perfettamente in linea con il nostro modello: Giovanni aveva già operato benissimo sui mercati stranieri nelle sue esperienze con il Chievo e con l’Atalanta, quindi grazie a lui abbiamo ampliato e perfezionato il nostro modello, rendendolo ancora più virtuoso». E Sartori è il Beppe Marotta, cioè il fuoriclasse, di questo secondo tier della classifica – uno che a questo punto meriterebbe di fare un tentativo in una squadra ancora più grande.

Marotta, Maldini, Giuntoli, Sartori, fin qui sembra una storia solo italiana e non può essere una coincidenza. Perché in Europa più raramente si costruiscono narrazioni di questo tipo sui dirigenti. Solo Spagna e Portogallo hanno una tradizione simile al paganesimo dei direttori sportivi che c’è in Italia, ma comunque non è paragonabile. L’Inghilterra fino a pochi anni fa adorava ancora le figure totalizzanti dei manager tuttofare e solo di recente ha imparato ad apprezzare una divisione contemporanea dei compiti. Per far arrivare il messaggio nel Regno Unito è servita la terapia d’urto imposta da chi veniva da fuori: è stato Txiki Begiristain con Ferran Soriano al Manchester City, poi imitati con i dovuti distinguo dal Liverpool di Michael Edwards (a cui The Athletic ha regalato a marzo un profilo ossequioso firmato da James Pearce e Simon Hughes per il suo ritorno ai Reds). E non a caso sono le due squadre più vincenti e riconoscibili degli ultimi anni di Premier League.

Anche nel resto del mondo vale la controprova dell’assenza, il negativo della fotografia che racconta più della versione corretta. È l’esempio portato dal disfacimento dell’organigramma societario del Bayern Monaco, forse l’unico modo per regalare alla squadra bavarese – una squadra comunque fortissima e piena di talento – la peggior stagione degli ultimi quindici anni. Il calcio è pieno di regole non scritte, e quella dei dirigenti capaci è ormai una di quelle. I dirigenti fanno vincere i campionati se fanno bene il loro lavoro, magari muovendosi nell’ombra prima di diventare protagonisti. Quando non ci sono, o non riescono a incidere, lo vedono tutti.