Il mito tutto italiano del direttore sportivo

Da Allodi a Marotta, fino alla telenovela-Giuntoli dei giorni nostri: i ds hanno fatto la storia del nostro calcio, e continuano a farla. Con un'influenza che all'estero esiste solo da pochissimo tempo.

Il calciomercato in Italia è una pièce teatrale di soli protagonisti, ognuno con il suo momento di celebrità, ognuno con il suo tormentone e le sue battute. Gli attori principali cambiano settimana dopo settimana, sempre diversi eppure tutti in qualche modo simili. Non sono i calciatori né gli allenatori: sono quasi sempre uomini di mezza età con l’abito buono e l’aria di chi è andato a Las Vegas e ha scommesso una cifra che non può permettersi di perdere, gli stessi che per un anno intero lavorano senza sosta chini sui laptop, WhatsApp sempre acceso e una rubrica di contatti chilometrica. Sono i direttori sportivi, una categoria particolare: sfumata, anzi non definita. Perché ogni club affida al suo ds compiti, quindi poteri, diversi. C’è quello che si occupa solo del mercato, quello che conosce anche le dinamiche dello spogliatoio, quello che fa le pulci a ogni singola voce del bilancio societario e c’è il plenipotenziario che fa tutte queste cose insieme. Cambiano le mansioni quindi anche i titoli e i ruoli, il job title, si dice adesso: può essere direttore sportivo, capo dell’area tecnica, general manager, head of football, tecnicamente potrebbero essere figure diverse all’interno dello stesso club, ma ce n’è sempre uno dalle cui mani sembrano passare i destini di una squadra, come se da lui dipendessero presente e futuro della società.

Nell’epoca che ha fatto del calciomercato un teatro perpetuo, sempre vivo anche durante la stagione, i direttori sportivi – useremo questa denominazione per comodità – sono diventati superstar almeno quanto calciatori e allenatori. A ogni nome corrisponde un personaggio, una storia, caratteristiche, tendenze e peculiarità come per i giocatori. Una squadra affidata a Giuseppe Marotta cercherà e troverà sul mercato parametri zero, esperienza, affidabilità immediata; Cristiano Giuntoli sa pescare giocatori dal potenziale inespresso o insospettabile; Pantaleo Corvino ha occhi e orecchie ovunque e può costruire una squadra di ragazzini imbattibili in qualunque categoria, tanto che per fermarlo ci vogliono la politica e delle leggi ad hoc; Walter Sabatini, va be’, Walter Sabatini «è uno stato dell’anima» (cit. Massimiliano Gallo). Molti ds invece sono bravi prima di tutto a governare l’umore di presidenti imprevedibili: sono gli Igli Tare (Lotito), i Carlo Osti (Ferrero), gli Stefano Capozucca (Preziosi).

La tradizione calcistica italiana ha mitizzato il direttore sportivo , l’ha reso un santone capace di tutto: un culto pagano che è diventato un pezzetto della nostra tradizione popolare. Nel 1987 Pupi Avati ha girato uno dei più interessanti film italiani sul calcio, non la solita commedia parodistica, caciarona, caricaturale: si intitola “Ultimo minuto” ed è un racconto introspettivo, una parabola realista e decadente sui dilemmi di un direttore sportivo. Walter Ferroni/Ugo Tognazzi guida una squadra della bassa Serie A degli anni Ottanta, danzando tra problemi finanziari, accordi sotto banco e strette di mano; è l’unico uomo che può tenere a galla il club con la sua esperienza, con i suoi contatti, con le sue conoscenze del gioco e delle persone. È il maestro spirituale che oggi rivediamo nei ds di tutte le squadre di Serie A, quelli che alla fine ce la fanno nonostante tutto, anche ai vertici della classifica. Deve avere qualcosa di Walter Ferroni anche Giuntoli, che ora può riportare la Juventus dove merita costruendo la squadra proprio come la vuole Max Allegri – perché invece prima c’era qualcuno che gliela montava al contrario? E c’è del ferronismo anche negli articoli pieni di speranza sull’Inter che deve fare mercato praticamente senza liquidità, difendendosi dagli attacchi dalle superpotenze del calcio mondiale, ma sapendo di essere una contender per lo scudetto perché la rosa la costruisce, alla sua maniera, Beppe Marotta.

Pochi anni prima dell’uscita di “Ultimo minuto”, Italo Allodi era diventato il direttore sportivo del Napoli. A metà anni Ottanta Allodi era a fine carriera: le aveva viste tutte, aveva già costruito la Grande Inter di Helenio Herrera e la Juventus che avrebbe vinto scudetti in serie negli anni Settanta, aveva avuto incarichi federali e aveva quasi portato in Italia Eusebio, Beckenbauer e addirittura Pelé – poi fermato da una specie di insurrezione dei tifosi del Santos. Però il Napoli aveva appena comprato Maradona e aveva bisogno di uno con poteri sciamanici per costruire dal nulla una formazione vincente attorno al giocatore più forte del mondo. All’epoca Allodi era considerato ancora il numero uno e Ferlaino poté solo puntare su di lui, e su un giovanissimo Pierpaolo Marino che poi avrebbe rubato da Allodi un po’ di trucchetti.

Walter Sabatini ai tempi del Palermo, insieme a Maurizio Zamparini: Sabatini ha lavorato per il club rosanero nel periodo 2008-2010, dopo aver lasciato la Lazio e prima di firmare per la Roma (Tullio M. Puglia/Getty Images)

La mitizzazione del ds è una storia tutta italiana, uno dei tanti tic del nostro calcio, che si innamora delle cose e ci ricama sopra. All’estero a parte alcuni nomi leggendari, come il Monchi del Siviglia, i ds non hanno la stessa aura. Undici ne ha parlato con Fabrizio Romano, uno che negli ultimi anni è diventato un volto del calciomercato come e più dei ds. Ha confermato questa sensazione: «In Italia i direttori sportivi prendono grandi complimenti o grandi critiche in base ai risultati della squadra, sono considerati i primi responsabili dell’andamento di una stagione. All’estero succede meno, ma è una differenza soprattutto nella percezione, di come raccontiamo i fatti, perché spesso hanno responsabilità simili. Semplicemente, negli altri campionati si attribuisce un ruolo minore a tutti gli attori del mondo del calcio che non sono allenatori e calciatori».

Solo la Spagna – e in misura minore il Portogallo – può vantare una tradizione simile, ma è ben lontana da quella strana forma di paganesimo italiana. Nel 2017 il quotidino Marca voleva far conoscere ai suoi lettori tutti i direttori sportivi della Liga, come per dar loro importanza e il giusto merito. Poi li chiamava «gli altri Monchi»: ci mancava solo che non sapesse i loro nomi. Il football anglosassone invece è su tutt’altre frequenze. L’Inghilterra, che storicamente ha santificato i suoi manager onniscienti, è come se non ammettesse altre figure. «In Premier League ci stanno arrivano in questi anni, si stanno adattando a una struttura societaria più stratificata, tant’è vero che i manager tuttofare sono sempre meno», dice Fabrizio Romano. A Liverpool, Jürgen Klopp ha scelto il direttore sportivo per questa sessione di mercato: ha imposto alla società Jörg Schmadtke, che starà tre mesi e poi si vedrà se rinnovare l’accordo per un periodo più lungo. È un’idea del ruolo, una percezione, diametralmente opposta: da un lato ci sono i ds che guidano i giochi, scelgono allenatori e giocatori, danno un’identità alla squadra e alla società, dall’altro solo personaggi minori che firmano accordi simili a quelli di un tirocinante. L’esempio del Liverpool è significativo, perché Anfield è stata la casa di uno dei direttori sportivi più famosi d’Inghilterra, quel Michael Edwards che ha lavorato undici anni con i Reds – seppur con diversi incarichi – e che ha portato Momo Salah, Fabinho, Virgil van Dijk, Sadio Mané e costruito la squadra che ha riportato la Champions a Liverpool nel 2019.

Il cambio di prospettiva della Premier League si può già vedere nelle nuove grandi potenze: Txiki Begiristain ha un potere totale al Manchester City, ovviamente in costante coordinamento con Guardiola, e all’Arsenal Edu e Arteta lavorano in simbiosi insieme, seguendo un modello molto presente in Italia. In fondo, se l’Italia è la patria dei direttori sportivi vuol dire che le importazioni di modelli e personale partiranno da qui, anche per il campionato più ricco del mondo. Non è un caso che in Premier ci siano anche Fabio Paratici al Tottenham e l’ex capo scout di Watford e Brescia, Filippo Giraldi, al Nottingham Forest.

All’inizio della settimana il Guardian ha pubblicato un lungo articolo per raccontare l’epifania della Premier League sull’importanza del direttore sportivo: «Quelli che prima erano seduti sul sedile posteriore, adesso hanno scoperto un nuovo protagonismo», si legge. E nel testo si fa l’esempio di John Murtough, uno che è al Manchester United dal 2013, direttore sportivo dal 2021, ma solo ultimamente viene citato nei comunicati stampa, è presente nelle foto societarie, inizia a essere un volto riconoscibile dai social. Dinamiche che in Italia sarebbero normalissime. Solo il Milan sembra andare in direzione opposta: dopo l’addio di Maldini e Massara, due che non avevano bisogno di presentazioni, i rossoneri hanno assegnato la carica di direttore sportivo a Antonio D’Ottavio, uno che da anni lavora al seguito di Geoffrey Moncada – un altro che al di fuori del suo lavoro è famoso per non essere riconoscibile. È la controrivoluzione rossonera di quest’estate, che cambia l’identità del Milan e anche l’idea che abbiamo del direttore sportivo di un grande club italiano. Quest’operazione non garantisce affatto un basso profilo, una minor attenzione della stampa e dei tifosi. Anzi, sarà l’occasione per polarizzare fino limite del possibile le posizioni politiche: una buona stagione del Milan si porterà dietro una montagna di «te l’avevo detto» e «avevano ragione loro», una brutta stagione del Milan ancora di più.