A dieci giri dalla fine

Un'intervista con Elia Viviani, campione olimpico nell'Omnium a Rio 2016 e protagonista del ciclismo italiano su strada e su pista.

In una foto scattata poco meno di un anno fa, si vede Elia Viviani in vacanza a Rio de Janeiro. Pantaloncini e t-shirt turistica, ha alle spalle un cantiere sporco, quasi abbandonato. Al posto del Velódromo Olímpico, annunciato dallo sbiadito cartellone dei lavori in corso, c’è soltanto lo scheletro di un impianto definito dai media «in preoccupante ritardo di costruzione». Il progetto dorato del velocista veronese è invece in perfetta tabella di marcia: nove mesi dopo, lì dentro, Viviani sarebbe diventato campione olimpico; la pasticceria di Vallese, dove abita, gli avrebbe dedicato un gelato speciale. «Ha il gusto della semplicità e della dedizione», dice il pasticciere.

Elia Viviani è nato 27 fa anni a Isola della Scala, meno di venti chilometri da Verona. Il nome della località è legato all’epoca romana, quando le paludi del fiume Tartaro erano così estese da causarne l’isolamento dalle contrade circostanti. Un luogo con una vocazione particolare per l’originalità, una specie di riserva naturale in cui il ciclista Viviani è cresciuto come un esemplare in via di estinzione: nel ciclismo moderno, è uno dei pochi ad alternare con successo l’esercizio su strada e quello su pista. Difficile pensare di iniziare una chiacchierata con lui senza chiedergli come possa funzionare la sua anacronistica multidisciplinarietà.

Ⓤ Ciao, Elia. Allora, come diavolo fai a sdoppiarti in questo modo?

Ciao. Beh, diciamo che il segreto sta nel programmare al meglio la stagione, con gli stacchi giusti nei momenti giusti, e ovviamente la pista inserita nei periodi di avvicinamento agli appuntamenti che contano. I ragazzi del gruppo della Nazionale che stanno seguendo le mie orme l’hanno capito, e stanno già raccogliendo risultati importanti.

Ma è vero che tocca rinunciare alle vacanze?

Sembrerà strano, ma in nessuno degli scorsi quattro anni mi sono fatto mancare dieci giorni di vacanze a inizio novembre (l’anno scorso furono proprio a Rio, nda) e almeno venti giorni in totale senza la bicicletta e nessun’altra attività.

Quest’anno hai un motivo in più per concederti un po’ di riposo, un motivo a forma di dischetto aureo pesante mezzo chilo.

Sì, a fine anno farò con Elena una bella vacanza di due settimane, stavolta. Vedremo dove, sicuramente al caldo. Ma la stagione non è ancora finita.

A un mese dalla vittoria di Rio, la medaglia è sempre sotto il cuscino oppure dove?

La medaglia è stata praticamente al mio collo per i dieci giorni successivi alla gara, la toglievo solo per andare a letto e, sì, la mettevo sotto il cuscino. Quando uscivo in bici la nascondevo gelosamente in casa, dov’è tuttora, visto che sono rientrato subito alle gare su strada e non ho ancora potuto godermela più di tanto.

Nelle dichiarazioni post-vittoria ti sei detto quasi sorpreso dalla quantità di messaggi di stima e di affetto nei tuoi confronti, e in effetti il tuo omnium è stato uno dei punti sportivamente ed emotivamente più alti della spedizione italiana in Brasile. Secondo me i motivi sono più d’uno, se vuoi provo a elencarteli.

Vai pure.

RIO DE JANEIRO, BRAZIL - AUGUST 15: Mark Cavendish of Great Britain, Elia Viviani of Italy and Fernando Gaviria Rendon of Colombia competes in the Cycling Track Men's Omnium Points Race 66 on Day 10 of the Rio 2016 Olympic Games at the Rio Olympic Velodrome on August 15, 2016 in Rio de Janeiro, Brazil. (Photo by David Ramos/Getty Images)
Mark Cavendish, Elia Viviani e Fernando Gaviria durante un momento di gara dell’Omnium a punti (David Ramos/Getty Images)

 

Primo motivo: la spettacolarità dell’omnium, una specie di “Giochi senza frontiere” del ciclismo, capace di fondere modernità e tradizione della pista. Quanto è esigente questa disciplina dal punto di vista fisico?

Molto. Molto perché le sei prove sono anche molto differenti tra loro, quindi la preparazione deve essere estremamente specifica ma allo stesso tempo non troppo sbilanciata. Bisogna essere competitivi in tutte le diverse tipologie di corsa: corta, lunga, tattica, contro il tempo, massimale, di gestione. Insomma, bisogna essere completi.

Che tipo di atteggiamento mentale richiede?

Mentalmente l’omnium ti logora. Sono due giorni veramente pesanti, soprattutto per il fatto che la corsa a punti finale può rimescolare tutte le carte: lì entra in gioco la testa, non bisogna perdere mai la concentrazione. Io ho dovuto lavorare moltissimo su questo aspetto.

Secondo motivo: proprio durante la corsa a punti, quella decisiva per l’assegnazione delle medaglie, sei caduto quando mancavano 100 giri al termine, e questo ha accresciuto il valore della tua impresa. Cosa ti è passato per la testa quando ti sei ritrovato per terra?

C’è da dire che in realtà ho avuto qualche secondo per capire che sarei caduto, e questa è stata un’ottima cosa, perché mi ha permesso di prepararmi a cadere, e di evitare infortuni gravi. È ovvio che quando ero per terra ho avuto un gesto di rabbia e ho pensato: «Ecco qui il momento in cui perdo tutto, di nuovo». Poi però ho cercato la mia bici e aspettato il meccanico, volevo risalire più presto possibile. Ho avuto bisogno di 20/30 giri in cui ho pensato a difendermi e a capire come stavo.

Stavi bene, mi sembra. Hai portato a mente il conto aggiornato della classifica giro dopo giro o ti sei affidato all’istinto?

Non nascondo che dopo la caduta ho controllato a che punto fosse il quarto nella generale, non volevo tornare a casa anche stavolta senza niente. Poi, giro dopo giro, mi sono accorto che le botte non pesavano più di tanto. Guardavo il tabellone, e il mio nome sempre in testa mi ha dato la forza per riprendere in mano la situazione e far punti nelle volate decisive.

Quando hai capito di avercela fatta per davvero?

A dieci giri dal termine. Allora mi sono goduto il pubblico, cercavo lo sguardo del mio ct Marco Villa e dei miei genitori in tribuna. Una sensazione bellissima.

Questo ci porta al terzo motivo che spiega la grande eco del tuo oro: la tua vittoria ha generato una carica emotiva enorme in te e in chi ti ha guardato quella sera. Le lacrime non hanno mai bisogno di troppe spiegazioni, ma la tua vita da ciclista, così pregna ed elettrica, com’è cominciata?

In bici ho imparato ad andarci come qualsiasi bambino, non troppo presto ma nemmeno in modo forzato. Praticavo altri sport fino agli 8 anni. I pattini a rotelle ad esempio mi hanno insegnato agilità ed equilibrio. Ma quando ho provato la mia prima bici da corsa ho trovato qualcosa che nemmeno il calcio mi dava.

RIO DE JANEIRO, BRAZIL - AUGUST 15: Elia Viviani of Italy crashes during the Cycling Track Men's Omnium Points Race 66 on Day 10 of the Rio 2016 Olympic Games at the Rio Olympic Velodrome on August 15, 2016 in Rio de Janeiro, Brazil. (Photo by Bryn Lennon/Getty Images)
Elia Viviani dopo la caduta durante la gara olimpica dell’Omnium a punti (Bryn Lennon/Getty Images)

Ⓤ Chi conosce la tua storia sa anche che Rio de Janeiro è stato per te il completamento di un percorso affatto facilitato. Due esempi su tutti, entrambi con teatro il velodromo di Londra: 2012, sesto posto olimpico.

Londra 2012 è stata la mia prima sconfitta veramente pesante. Ero giovane, alla prima esperienza olimpica, avevo corso anche la gara su strada dieci giorni prima. Sicuramente non avevo lavorato sui minimi particolari come ho imparato a fare dopo, ma nonostante tutto ero primo e mancavano solo quattro dannatissimi giri, troppi per le mie gambe. Sono finito sesto, almeno un bronzo lo meritavo.

Sempre Londra, marzo 2016: la beffa del quarto posto al Mondiale. Hai detto che è stata la corsa che ti ha insegnato più di qualunque altra.

Un vero tabù. Non ho mai indossato la maglia iridata, e questo mi stressava. In più ero forte ma non fortissimo, e voler correre esclusivamente per l’oro è stata una scelta azzardata che poi mi ha fatto perdere tutto. Nessun rammarico, però: l’oro era a mezza ruota da me, me l’ha tolto l’ultimo sprint perso da Cavendish. Una sconfitta così ti rende cattivo. Sarà una banalità, ma si impara sempre più da una sconfitta che da una vittoria.

Che ruolo ha avuto la tua squadra nel favorire la tua doppia natura?

Il Team Sky è stato importante perché la loro mentalità viene dalla pista. E poi il loro approccio è perfetto per me, che sono un precisino. Mi hanno concesso gli spazi che mi servivano per prepararmi, senza farmi pesare il fatto che non portassi vittorie alla squadra. Però alla fine penso che la mia vittoria olimpica valga anche per loro più di molte altre vittorie su strada.

Il ciclismo su pista è inevitabilmente anche solitudine. Come si affrontano ore e ore di allenamento con l’unica compagnia di una bici e di un anello in parquet?

A volte finisci col chiuderti in te stesso, è innegabile. Ma questo ti permette di concentrarti a fondo su quello che stai facendo, di avere più feeling con la prestazione. C’e’ poco da fare, a me la pista diverte. Mi diverte tanto. Da solo o con il mio gruppo, io in pista ci salgo sempre col sorriso.

La tua solitudine è stata a lungo una doppia solitudine: a quella tipica dei velodromi si è aggiunta quella legata al declino del ciclismo su pista italiano, del quale sei stato per anni unico rappresentante.

Nel 2012 penso di aver provato un’autentica sensazione di solitudine prima delle Olimpiadi di Londra. Ma negli ultimi quattro anni il ct Villa ha creato una squadra, un team di amici e colleghi che si divertono in pista. Questo gruppo lo sento mio, e loro mi vedono come un riferimento.

Cycling - Track - Olympics: Day 10
Elia a Rio, in velocità  (Bryn Lennon/Getty Images)

Filippo Ganna, ventenne campione del mondo nell’inseguimento individuale, ha detto dopo il tuo successo brasiliano che se il movimento italiano sta conoscendo finalmente una fase di ripresa è tutto merito di Viviani.

Sono orgoglioso di questo. Anche quando sembrava che il quartetto non dovesse partire per Rio, loro si alternavano nel venire a Montichiari per “allenarmi”. Segnatevi i nomi di questi ragazzi, perché a Tokyo saranno grandi protagonisti: Ganna, Consonni, Lamon, Bertazzo, Scartezzini, Coledan, Plebani.

Cos’altro serve alla pista italiana per tornare a livelli di eccellenza e far sì che l’eredità di Elia Viviani possa essere raccolta in toto da qualcuno?

Serve un progetto ben definito. Per avere degli atleti di valore, gli devi proporre un progetto chiaro, una preparazione e degli obiettivi intermedi. Gli devi far capire dove si può arrivare. Poi servono degli sponsor che ci credano, disposti a investire.

Ⓤ  Ho letto che hai intenzione di donare parte del tuo premio olimpico al primo velodromo che hai frequentato.

Sì, c’è quest’idea di sistemare il velodromo di Pescantina. Mi piacerebbe vederlo aperto tre giorni a settimana, come quando ci andavo io, con i bambini che girano e magari si innamorano della pista.

A Rio hai colto un successo che vale una carriera, ma hai appena 27 anni. Cosa c’è nel tuo futuro?

Nel mio futuro immediato c’è la strada. Voglio provare a preparare, con la stessa caparbietà con cui ho preparato le Olimpiadi, altri appuntamenti importanti, come il mondiale su strada del mese prossimo in Qatar, la Milano-Sanremo, il Giro d’Italia e il Tour de France. Ma a Tokyo ci sarò, nessun pericolo.

Il Giro d’Italia, dicevi. Quest’anno per te è finito presto, al termine dell’ottava tappa, quando sei stato squalificato per essere arrivato fuori tempo massimo.

Penso che il Giro d’Italia di quest’anno sia stata una delle delusioni che mi hanno segnato di più. Mi sono detto: “Io la tappa la finisco, poi mandatemi a casa voi”. Ho capito che tutta quella fatica era per Rio, e che nei due giorni di omnium avrei dovuto dare un senso a tutta quella sofferenza. Mi ha dato una voglia di riscatto che non si è ancora esaurita.

E giù dalla bicicletta, invece? Che farà da grande Elia Viviani?

Ah, a quello per ora non ci voglio pensare.

Ma cosa fai quando non sei in sella? Perché sbirciando un po’ sui tuoi social network sembra che davvero la bicicletta si prenda tutto il tuo tempo e tutte le tue energie: ti sei persino trovato una compagna ciclista come te…

Avere Elena (Elena Cecchini, da tre anni campionessa italiana su strada, ndr) al mio fianco è un valore aggiunto. Lei è una persona che capisce al volo qualsiasi situazione e ha la parola giusta nel momento giusto: non è facile vivere con un ciclista, ma per me le cose sono più semplici.

Ti sei sentito con Mark Cavendish dopo la caduta di Rio?

Certo, con Cavendish c’è stato un abbraccio di congratulazioni. È stato l’avversario più tosto, e a mio parere è il velocista più forte del mondo, non c’è nessuno in gruppo con il suo palmares.

Lui una volta ha detto una cosa molto bella sul ciclismo: «Per me non importa se piove o se c’è il sole o chissà cos’altro: finché corro in bicicletta so che sono l’uomo più fortunato del mondo». Tu, campione olimpico, già nella storia del ciclismo italiano, quanto ti senti fortunato oggi?

Io mi sento un uomo fortunato perché faccio della mia passione il mio lavoro. Posso lavorare divertendomi, e questo è un privilegio che non tanti hanno. Ciclisticamente parlando, invece, non mi definirei uno dei più fortunati, perché ho sempre dovuto lottare per raggiungere una vittoria. Nella sfogo di Rio c’era questo: c’era il duro lavoro, i sacrifici, il tempo tolto alla mia ragazza, alla famiglia, a chi mi ha supportato nonostante tutto. C’era il fatto che in carriera nulla mi è stato regalato, piuttosto tolto. Ma forse è meglio così: le vittorie costruite da lontano hanno un sapore speciale.

 

 Nell’immagine in evidenza Elia Viviani festeggia dopo la vittoria nell’Omnium maschile a Rio 2016 (Odd Andersen/Afp/Getty Images)