Massimiliano Allegri sostiene che l’illuminazione sia arrivata a metà settimana, quasi per caso: «Mi è venuta l’idea mercoledì mattina appena mi sono svegliato. Era giusto cambiare dopo la sconfitta contro la Fiorentina». Che gli si creda o no, che qualcosa bollisse in pentola lo si era intuito già nella conferenza stampa del prepartita contro la Lazio: la vittoria nel cosiddetto “campionato delle critiche” ha spinto il tecnico livornese a schierare una formazione che, se fino alle 12.29 sembrava un’autentica provocazione, dalle 14.31 in poi è diventata la panacea di tutti i mali bianconeri. La verità, come in tutte le cose, sta nel mezzo: perché se è vero che Allegri ha azzardato nel giorno forse più difficile, è altrettanto vero che il confortevole e rassicurante ambiente dello Stadium e gli avversari finiti al tappeto nel primo quarto d’ora hanno trasformato il tutto in un rischio calcolato. Ciò detto, non è da escludere che il lunch match del 22 gennaio possa rappresentare un punto di svolta nel recente corso tecnico-tattico dei campioni d’Italia. Se il ko di Firenze potrebbe aver segnato la fine del 3-5-2 (o, almeno, di una certa interpretazione del 3-5-2 inteso come sistema in cui il baricentro troppo basso porta la squadra a farsi schiacciare negli ultimi 30 metri), la vittoria contro i biancocelesti potrebbe costituire il primo passo per la costruzione di un nuovo approccio alle gare: meno fisico e più tecnico, meno frenetico ma più ragionato. Un dominio del gioco che passa dal possesso del pallone (58% contro il 42, con il 90% di pass accuracy: picco stagionale in questo fondamentale) e non dalla dimensione fisica e dalla densità in mezzo al campo.
Una Juventus con il 4-2-3-1 “puro” non si vedeva dagli ultimi venti ininfluenti minuti della trasferta di Champions contro la Dinamo Zagabria: una Juventus con questo 4-2-3-1 è stata figlia delle difficoltà nell’individuazione di un assetto che garantisse equilibrio in fase passiva e qualità nello sviluppo della manovra. E il fatto che un minimo di quadra sia arrivato con un assetto ultra offensivo non deve sorprendere più di tanto. L’apparente follia di Allegri si è dimostrata più lucida del previsto e ha avuto la sua ragion d’essere nelle recenti difficoltà a metà campo: vista l’impossibilità di tornare al 4-3-1-2 a causa dell’indisponibilità di Marchisio (l’unico elemento in grado da agire da vertice basso del rombo, tanto più dopo la definitiva epurazione di Hernanes) e con il 3-5-2 che rischiava di risultare troppo compassato per una squadra atleticamente ben messa come la Lazio, il tecnico ha optato per una soluzione che permettesse di poter disporre dell’intero potenziale offensivo a disposizione (Pjaca – entrato nel finale – è stato l’unico escluso). Il piano partita è apparso chiaro: mettere gli avversari alle corde fin da subito, sfruttando il campo tanto in ampiezza quanto in profondità, attraverso l’alternanza di tutte le opzioni esperibili nella costruzione del gioco. A patto, però, che i movimenti su entrambi i lati del campo fossero organici, compatti, da squadra che decide di sposare del tutto un progetto nuovo. E, soprattutto, che l’interpretazione delle singole fasi di gioco e l’approccio iniziale fossero in linea con quanto prospettato dall’undici iniziale. In tal senso, la vera novità è stata costituita dal baricentro: molto più alto rispetto al solito e con le linee sempre molto vicine tra loro per evitare spaccature tra i reparti.
Come si può osservare dal grafico posizionale, la prima preoccupazione di Allegri è stata quella di costruire delle catene laterali solide che, a turno, si occupassero di fornire protezione e copertura ad una mediana più di governo che di lotta (per quanto Pjanic sia comunque risultato il bianconero ad aver effettuato più intercetti: ben cinque) e alle prese con le prime sperimentazioni di doble pivote, e fungere da “apriscatole” della gara, allargando e restringendo il campo a piacimento: il 77% delle azioni offensive dei bianconeri si sono sviluppate sugli esterni, in particolar modo dalla destra (46%), dove Lichtsteiner e Cuadrado si sono rivelati particolarmente efficaci nei movimenti di coppia, pur al netto di qualche errore di lettura di troppo (specialmente il colombiano). La rete del 2-0 di Higuain viene favorita proprio dal movimento del terzino svizzero a portare via l’avversario in procinto di raddoppiare il numero 7 che, quindi, si trova ad avere molto spazio a disposizione per scegliere se aggredire la traccia interna o optare per il traversone teso a sfruttare il prevedibile taglio verso primo palo del centravanti argentino.
Dall’altra parte l’equilibrio veniva garantito dalla grande attenzione e pulizia di intervento di Asamoah (quattro tackles, un intercetto e due chiusure decisive nell’arco dei novanta minuti: altra ottima prova da terzino “riciclato”) e dalla grande generosità di Mario Mandzukic in fase di ripiegamento. L’ex Bayern Monaco ci ha messo poco a far capire perché Allegri l’abbia preferito al connazionale Pjaca: non è del tutto esagerato, infatti, dire che questo sistema abbia funzionato così bene proprio per la propensione al sacrificio del gigante croato, riportato nella posizione dei suoi primi fasti di Wolfsburg. Un intercetto, due chiusure decisive e un tiro bloccato non riescono a rendere compiutamente il livello di partita disputata dal numero 17, uomo ovunque ben al di là della retorica da animus pugnandi che lo accompagna da sempre, pur in una interpretazione modernissima del ruolo di esterno offensivo. Lui che, di mestiere, farebbe il centravanti.
Quando, poi, la Juventus non ricercava la superiorità numerica sull’esterno, lo sviluppo del gioco per vie centrali passava necessariamente dai piedi di Pjanic, con Bonucci chiamato in causa soltanto quando la Lazio alzava la linea di pressing, mentre Khedira badava soprattutto ad offrire al bosniaco copertura preventiva in caso di perdita del possesso, limitando al minimo i suoi proverbiali inserimenti. Il numero 5 ha disputato una partita ordinata e concreta (106 tocchi, 96,5% di precisione nei passaggi), galleggiando sapientemente tra le linee e mantenendosi costantemente vicino a Dybala per ricercare il dialogo nello stretto: alcune combinazioni tra i due sono state la cosa migliore ammirata nel pomeriggio torinese, oltre che un utile espediente per saltare la prima linea di pressione avversaria.
A proposito del giovane argentino. La scelta di portarlo molto più vicino a Higuain sta pagando grossi dividendi. Non tanto e non solo per il gol, reso possibile dal movimento del Pipita (ancora una volta decisivo nonostante un numero di palloni toccati non altissimo: appena 36. Solo Buffon, tra i titolari, ha fatto peggio con 28) che tiene occupati i due centrali difensivi, quanto piuttosto per la possibilità di sfruttare gli inserimenti in backdoor alle spalle dello stesso. Delle due nitide palle gol sprecate dalla Joya nella ripresa, la seconda è quella che potrebbe dire di più della fase offensiva della Juve che verrà: il 9 a prendere palla ai 30 metri portandosi dietro dai due ai tre marcatori, il 21 che si inserisce per vie centrali (e/o dal lato debole) per presentarsi a tu per tu con il portiere.
Passando all’analisi del reparto difensivo, non si può non tornare sul baricentro alto e su come la Juventus abbia interpretato la partita, almeno nei primi 45 minuti. Per la prima volta dalla gara interna con il Sassuolo, infatti, i campioni d’Italia hanno deciso di difendere a 50-60 metri dalla porta (e non più a 30), accettando il rischio dell’ uno contro uno in transizione. Soprattutto perché a ogni piccola incertezza di Bonucci (mai troppo a suo agio in un sistema a quattro) corrispondeva una puntuale chiusura in aiuto di Chiellini, molto attento nel leggere come e quando andare in aiuto del compagno di reparto in situazioni di palla scoperta: 113 tocchi di cui nove chiusure decisive e due tiri bloccati la dicono lunga su quanto un marcatore puro e tempista nell’anticipo sia indispensabile per tappare eventuali falle sulla contro-transizione avversaria. Di base, comunque, è stata tutta la Juve a difendere bene con i vari reparti, andando in difficoltà solo quando perdeva palla in uscita o non riusciva a riconquistarla nella metà campo avversaria. L’ormai celebre buco che si veniva a creare tra le linee di centrocampo e difesa e in cui le mezzali avversarie andavano a nozze per una volta non si è visto.
Ci si chiede, a questo punto, se sia questa la strada da seguire da qui a fine stagione. Allegri si è dimostrato possibilista: «Non giocheremo sempre così, ma la risposta che oggi mi ha dato la squadra è stata positiva: abbiamo giocato bene, con qualità e sacrificio. E nonostante lo sbilanciamento offensivo, dal punto di vista difensivo abbiamo fatto bene, non rischiando niente. C’è stata responsabilità da parte di tutti, ma oltre alla fame e alla rabbia, la squadra ha anche giocato bene tecnicamente. Fame e qualità sono entrambe componenti fondamentali per vincere, specialmente in Champions dove vogliamo fare bene. Dobbiamo tenere questi ritmi, però, indipendentemente dal sistema di gioco». Il messaggio è chiaro: non contano i moduli ma l’interpretazione degli stessi e la capacità di essere “un pochino più spregiudicati” per poter sfruttare al meglio le proprie potenzialità e fare il definitivo salto di qualità.
Nel caso di specie, un 4-2-3-1 così offensivo è nuovamente esperibile contro quelle formazioni che mirano a fare esclusivamente densità nella propria metà campo e che giocano sulla ripetitività e prevedibilità di schemi di gioco codificati. Diversamente, in particolare nelle trasferte “sensibili” (il vero tallone d’Achille della Juventus 2016/2017), sarebbe preferibile una versione “light”, con Marchisio tra i due di metà campo, Pjanic riportato sulla linea del tridente alle spalle della punta (a meno che il sacrificato non sia Khedira) e magari Alex Sandro nel ruolo di esterno alto a tutta fascia, con Pjaca pronto a subentrare per spaccare la partita con squadre stanche e allungate. Di positivo c’è che, in questo modo, Allegri potrebbe riuscire ad ovviare anche alla saltuaria assenza di alcuni uomini chiave, proponendo al contempo anche una manovra più ariosa e piacevole indipendentemente dagli interpreti.