All’attacco

Dall'ultimo incrocio in Champions, Juventus e Monaco hanno drasticamente cambiato attitudine. Diventando due squadre con una rinnovata impronta offensiva.

Dei 19 gol realizzati nei quarti di finale della Champions League 2014/2015, fu appena uno (in 180 minuti) quello che arrivò dalla sfida tra Juventus e Monaco. Tra l’altro grazie ad un calcio di rigore dubbio (il fallo su Morata avvenne pochi centimetri fuori dall’area) trasformato impeccabilmente da Arturo Vidal, unico acuto all’interno di una partita tatticamente bloccata. Come, del resto, accadde nel ritorno al Louis II, dove i padroni di casa non riuscirono a creare i presupposti per la rimonta nonostante la grande pressione esercitata attraverso il possesso palla e il controllo dei ritmi di gioco. Il dato, comunque, non sorprese: in campo si trovavano due delle migliori difese della competizione (appena tre gol concessi – di cui uno su rigore ed un altro, quello di Reus a Torino, susseguente ad uno scivolone di Chiellini – nella fase ad eliminazione diretta, finale esclusa, dai bianconeri; addirittura 5 in totale i monegaschi) e il peggior attacco in assoluto (appena 7 le reti realizzate in 10 partite dal Monaco). Che decidesse un dettaglio fu, quindi, inevitabile.

A distanza di due stagioni, le due squadre si ritrovano sul palcoscenico europeo più importante per giocarsi l’accesso alla finale di Cardiff e difficilmente lo faranno alla stessa maniera del loro ultimo confronto. Merito della svolta offensiva imposta da Allegri ai suoi dopo il ko di Firenze (quattro giocatori offensivi contemporaneamente in campo, più Pjanic, Alex Sandro e Dani Alves) e del 4-2-2-2 di Jardim, definito, in un recente articolo di Squawka, come «una scelta coraggiosa: perché attaccando in questo modo, sfruttando i grandi movimenti e tutta la larghezza del campo, si lasceranno grandi spazi in difesa. È tutta una questione di rischi presi in funzione di una ricompensa finale».

L’1-0 dello Stadium di due stagioni fa

Il punto d’arrivo è comune, i presupposti di partenza e l’evoluzione differenti. Il Monaco, che all’epoca puntava quasi esclusivamente sull’attacco dello spazio in verticale di Martial e Ferreira Carrasco (oltre che sulle intuizioni di Bernardo Silva e la fisicità di un giovanissimo Kondogbia), ha trovato il modo di incanalare al meglio quella che Buffon ha definito la «follia della gioventù», trasformandola nel propellente per spingere il proprio motore sempre al massimo dei giri; la Juventus, di contro, ha dovuto fare i conti con l’inadeguatezza di un modulo (il 3-5-2 con due esterni a tutta fascia prettamente difensivi come Evra e Lichtsteiner e con la manovra che si sviluppava quasi esclusivamente per vie centrali sull’asse Bonucci-Pirlo-Tévez) in relazione a quelle serate in cui, talvolta, fare un gol in più dell’avversario diventa importante quasi come non subirne. Ma come si sviluppano, oggi, le azioni d’attacco di Monaco e Juventus? E, soprattutto, chi tra le due riuscirà a massimizzare gli effetti della produzione offensiva?

Monaco

In questo articolo Alfonso Fasano aveva perfettamente fotografato il cambio di rotta e di filosofia della squadra monegasca. Chiudendo parzialmente i cordoni della borsa (ed evitando le spese folli sul mercato degli anni precedenti anche a causa di un divorzio rivelatosi sanguinosissimo), Dmitrij Rybolovlev ha affidato la squadra a Jardim con un compito ben preciso: coniugare gioco e risultati, attraverso la valorizzazione di talenti nuovi e la riscoperta di quelli che sembravano perduti. La squadra di Falcao, Mbappé, Fabinho, Lemar, Bakayoko, Dirar, Mendy, Sidibé nasce partendo proprio da questo principio. E i dividendi sono ottimi: 145 reti, 95 in una Ligue 1 (poco sotto le 2.8 a partita) guidata con tre punti di vantaggio sul Psg nonostante una gara in meno, una semifinale di Champions che mancava dal 2004 (anno in cui arrivò la sconfitta in finale per mano del Porto di Mourinho), una struttura di gioco in grado di esaltare come poche le caratteristiche dei singoli interpreti.

L’idea di Jardim è quella di costringere la difesa avversaria a scegliere se coprire l’ampiezza oppure la profondità, essendo il Monaco in grado di attaccare perfettamente sia l’una che l’altra. Quando sono i monegaschi ad avere il controllo del possesso (51% in campionato – settimi nella speciale classifica – 47 in Champions  – fuori dalla top 10), il tecnico portoghese punta ad occupare tutti gli spazi in verticale, attaccando l’area con il maggior numero di uomini possibile e sfruttando al meglio la superiorità numerica ottenuta attraverso le sovrapposizioni tra Mendy e Lemar da una parte e Sidibé (che, però, mancherà nella gara d’andata con i bianconeri) e Bernardo Silva dall’altra (non a caso oltre il 70% degli attacchi nasce proprio dalle zone esterne del campo). Senza contare che proprio il portoghese è l’uomo deputato a galleggiare tra le linee alle spalle del mediano di riferimento, convergendo da destra verso l’interno del campo alla ricerca dello spazio per azionare le punte e/o per andare alla conclusione in prima persona beneficiando del movimento a chiamare fuori i centrali di Falcao: una stagione da otto gol, nove assist e 53 passaggi chiave (con una pass accuracy costantemente sopra l’80%: incredibile per uno che effettua il 60% dei tocchi in verticale) sta certificando la bontà dell’intuizione di Jardim nell’affidargli le chiavi della manovra negli ultimi trenta metri di campo.

Il ruolo chiave dell’intero sistema, però, resta quello di Fabinho, l’unico della rosa in grado di coniugare (con il fondamentale apporto della fisicità di Bakayoko) quantità e qualità nella zona nevralgica del campo. Reinventato centrocampista dopo i suoi trascorsi da terzino, è l’autentico equilibratore sui due lati del campo: poco più di quattro azioni difensive di media a gara (con una naturale predilezione per gli intercetti e la chiusura delle linee di passaggio, grazie ad una capacità superiore nella lettura preventiva delle singole situazioni: non è raro, ad esempio, vederlo scalare in luogo del terzino che effettua la sovrapposizione con l’esterno alto in situazione dinamica) unite alla sapiente gestione di ritmi e velocità di gioco (84% di pass accuracy) e ad un muoversi senza palla che richiama quello del primo Yaya Touré: che abbia trovato già 11 volte la via della rete in questa stagione (centrando lo specchio della porta nel 60% dei casi) deve stupire fino a un certo punto.

Il meglio di sé, però, il Monaco lo dà quando può giocare in ripartenza. Tutto origina da un pressing furioso (55% di contrasti vinti, 40% di tackles andati a buon fine) che parte dai quattro giocatori offensivi per forzare l’errore avversario già in fase di prima costruzione (si veda, ad esempio, il gol dell’1-3 di Mbappé a Dortmund contro il Borussia) e si concretizza nell’azione di filtro dei due mediani davanti alla difesa nelle occasioni in cui i monegaschi sono chiamati a difendersi nella propria trequarti. L’intento è chiaro: far alzare il più possibile il baricentro altrui in modo da avere molti più metri di campo da attaccare con almeno cinque elementi dopo il recupero palla. L’effetto è semplicemente devastante.

Il primo gol di Mbappé contro il BVB è la migliore sintesi possibile del Monaco 2016/2017: recupero palla, Bernardo Silva che taglia il campo in diagonale per 70 metri con gli avversari sbilanciati, apertura sull’esterno (nell’occasione Lemar) che ha seguito l’azione, palla dalla parte opposta per il #29 che deve solo insaccare a porta vuota. Sono serviti appena tre tocchi e poco più di cinque secondi

La Juventus, quindi, si troverà a fronteggiare una squadra giovane, aggressiva (non sono poche le marcature originate dall’attacco alle respinte e alle seconde palle), con una precisa identità di gioco, e in grado di alternare diversi set offensivi in relazione a quanto proposto dagli avversari. Con due grandi punti interrogativi legati al primo vero confronto con una fase difensiva degna di tal nome (dettaglio che è mancato sia al City che al BVB) in grado di difendere tanto in ampiezza quanto in profondità e, soprattutto, al numero di occasioni da creare per arrivare al gol: il Monaco tira in porta mediamente 14 volte ogni 90’ (il 40% nello specchio), la Juve, in Champions League, non va oltre le nove conclusioni concesse a partita.

Juventus

Come e quanto il 4-2-3-1 abbia cambiato le prospettive (soprattutto quelle europee) a medio lungo termine della Juventus è apparso chiaro fin dalla partita contro la Lazio dello scorso 22 gennaio, la prima disputata con il nuovo modulo. Da allora, fatta eccezione per la trasferta di Napoli in Coppa Italia, la squadra di Massimiliano Allegri non ha praticamente più perso, abbinando alla consueta impermeabilità difensiva una manovra ariosa, piacevole ed efficace rispetto ad un 3-5-2 che era diventato schematico, monocorde e fin troppo legato alle intuizioni dei singoli. Il fatto che i giocatori si siano adattati da subito ad un sistema completamente diverso in entrambe le fasi (basti pensare che, adesso, i difensori accettino volentieri l’ uno contro uno in campo aperto: una svolta epocale se si considera la vecchia tendenza dei bianconeri a fare densità negli ultimi trenta metri di campo, tenendo un baricentro molto basso), fa capire come il tecnico livornese avesse già in cantiere il cambio di rotta. La parola chiave, per Allegri, è “gestione”: delle energie, del pallone, del ritmo al quale far viaggiare lo stesso, in relazione all’avversario di giornata. Accelerare o temporeggiare è una scelta della Juventus stessa dettata dalla singola partita o, addirittura, dai singoli momenti della stessa: non più una pedissequa riproposizione di un certo numero di movimenti di squadra codificati, ma la capacità di interpretare più spartiti tattici (e a diverse velocità) in relazione a quanto ti propongono gli altri, mutuando il principio cestistico del read and react.

Da un girone all’altro, da un Genoa all’altro, dal 3-1 di Marassi al 4-0 dello Stadium: la metamorfosi della Juventus è tutta qui

Circa il 72% delle azioni d’attacco bianconere si sviluppa per vie esterne, con caratteristiche diverse (anzi, complementari) a seconda del lato e con la rinnovata centralità di Dybala quando si tratta di ribaltare l’azione da un punto all’altro del campo con il key pass risolutivo: a sinistra Alex Sandro agisce prevalentemente in situazione dinamica, sfruttando lo strapotere fisico di Mandzukic che si concretizza in sponde e comodi corridoi in verticale apertisi dopo il sapiente lavoro ai fianchi del terzino avversario; a destra, di contro, Cuadrado è molto più adatto dell’omologo a creare situazioni di superiorità numerica anche da fermo, diventando, per questo, il destinatario prediletto di Higuain per i cuoi celebri cambi di gioco a tutta gamba.

Il primo gol di Dybala contro il Barcellona è la perfetta sintesi di come la Juventus sappia ormai sfruttare al meglio l’ampiezza del campo. L’azione parte da sinistra, Higuain si alza per ricevere palla e cambia fronte del gioco, conscio dell’evidente mismatch tra Cuadrado e Mathieu: il resto lo fanno la rapidità di piede del colombiano e quella di pensiero della Joya

Quando, poi, l’azione si sviluppa per vie centrali, tutto passa dalla verticale Bonucci-Pjanic-Dybala-Higuain. Il primo e il secondo hanno, sostanzialmente, preso il ruolo che fu di Pirlo in fase di prima costruzione oltre che nel premiare il movimento del tagliante alle spalle della linea difensiva quando risulta difficile saltare la prima linea di pressione, mentre i due argentini si dividono i venti metri finali, badando a sincronizzare i movimenti: il Pipita alternando l’uscita incontro al portatore di palla per offrirgli un’utile sponda, allo scatto in profondità per liberare uno spazio attaccabile (il più delle volte da Khedira) alle sue spalle; la Joya partendo dall’amato centro destra, magari giocando a due con l’esterno di riferimento (più con Dani Alves che con Cuadrado, che è maggiormente istintivo e immediato nella giocata), per poi convergere verso il centro con assoluta libertà di creare per sé e per gli altri.

La progressiva evoluzione dell’intesa tra Higuain e Dybala

Inoltre, la capacità della Juve di compattarsi rapidamente in fase di non possesso, unita a quella di Pjanic e Khedira di intuire (e coprire) ogni linea di passaggio possibile, ha aumentato esponenzialmente l’efficacia della Juve in fase di transizione, in particolare contro squadre che attaccano con molti uomini sopra la linea della palla. Contro il Barcellona è sembrato anche fin troppo facile: lancio di Bonucci, sponda volante di Higuain per Pjanic, corridoio a premiare la corsa di Mandzukic, assist per Dybala che arriva a rimorchio. Semplice, bello, letale.

Non certo il migliore scenario possibile per una squadra come il Monaco che, oltre a concedere mediamente 10 occasioni a partita, soffre difensivamente per via dei grandi spazi concessi sulle contro transizioni (e la Juventus ha imparato molto bene come sfruttare a proprio vantaggio i buchi alle spalle dei centrocampisti in proiezione offensiva) e delle situazioni di palla scoperta con il taglio sul lato debole, oltre a pagare spesso dazio agli errori individuali (tecnici, in marcatura, concettuali) all’interno della propria area di rigore: non è un caso, infatti, che dei 44 gol subiti tra campionato e Champions, 39 siano arrivati negli ultimi 16 metri, in particolar modo a causa di una “zona” non sempre impeccabile sui calci piazzati.