Tre settimane fa la Spagna ha vinto l’Europeo Under 17. La finale contro l’Inghilterra si è conclusa ai calci di rigore dopo che gli 80′ dei tempi regolamentari – minutaggio ridotto e niente supplementari, a questo livello – erano terminati sul 2-2. L’anno scorso, in occasione della stessa manifestazione, la Rojita è stata battuta all’ultimo atto dal Portogallo, sempre ai calci di rigore. La Sub17, denominazione in lingua spagnola, racconta solo parte dell’assoluta continuità di rendimento e risultati del movimento giovanile iberico: l’Under 19, ad esempio, ha vinto il torneo continentale di categoria nel 2011, nel 2012 e nel 2015; l’Under 21 ha conquistato il titolo europeo nel 2011 e nel 2013.
In un articolo pubblicato sul sito della Bbc nel 2012, Tom Vickery scrive: «I successi del calcio spagnolo non sono un caso. Chiunque abbia visto giocare le selezioni giovanili della Roja sarà stato colpito dalla qualità tecnica dei calciatori, dalla pazienza del loro gioco. Dall’impegno per affermare una certa idea di calcio. La Spagna ha un’identità, e la questione dell’identità nel calcio è fondamentale. Soprattutto perché determina lo stile della squadra, in contesti del genere la tattica mantiene una sua importanza, ma scaturisce da una fonte unica e centrale: l’idea». Questa suggestiva descrizione del modello spagnolo non si può scindere dal resoconto dei risultati. Anzi, descrive la base di concetti e significati su cui si fonda l’intero movimento, ancora oggi. Un certo tipo di calcio ha caratterizzato il passato della Spagna, determina il suo presente. E ne orienta già il futuro. L’ultima rassicurazione in questo senso è arrivata il 19 maggio scorso, una cartolina da Varaždin – città a nord della Croazia, luogo di nascita di Davor Vugrinec e Marko Rog: il Gradski Stadion ha ospitato Spagna-Inghilterra, la finale dell’Europeo Under 17. Il prima pareggio della Rojita ad opera di Mateu Morey, terzino del Barça Juvenil B, è perfettamente avvicinabile al gol ideale che un qualsiasi tecnico o narratore sportivo utilizzerebbe per esplicare il concetto di fútbol secondo gli spagnoli. È l’affermazione di un’idea, del suo primato. Della sua continuità.
Spagna concept
In un pezzo di Paul Wilson sul Guardian, Roberto Martínez viene definito così: «È un tecnico che non ha molto in comune con i suoi colleghi di Premier League, la sua popolarità resta alta nonostante le sue squadre tendano a tenere il pallone basso, radente al terreno di gioco». Siamo nel 2011, Martínez è il manager del Wigan e la Spagna è reduce dalla doppietta Europeo-Mondiale. Oltre ad un diverso approccio al gioco, Martínez spiega che tra il modello giovanile e iberico e quello britannico ci sono differenze strutturali, di programmazione. Di conseguenza, anche i risultati sono molto distanti: «Prendiamo un calciatore come Cleverley. Io l’ho avuto qui al Wigan, non avrebbe nulla da invidiare, in prospettiva, a Xavi e Iniesta, esattamente come Wilshere. Ci sono solo loro due, però. Due, mentre in Spagna stanno costruendo 50 calciatori di questo livello. Questi giovani si conoscono tra di loro, sono amici, sono cresciuti praticando lo stesso tipo di gioco. In Spagna, negli ultimi dodici anni, hanno creato un programma didattico che ha prodotto gli Xavi, gli Iniesta, i Mata e i David Silva. Ma loro rappresentano la punta dell’iceberg, sono i nomi famosi. C’è una parte sommersa con tantissimi giocatori ad altissimo potenziale, perché l’obiettivo dell’intero sistema è produrre e sviluppare il talento».
La tesi di Martínez ha ancora il conforto dei numeri, sei anni dopo: un rapporto CIES evidenzia come Barcellona e Real Madrid rappresentino un vero e proprio serbatoio per il calcio d’élite, avendo fornito rispettivamente 11 e 10 giocatori ai sedici club qualificati agli ottavi della Champions League 2016/2017; al quinto posto di questa classifica c’è l’Atlético Madrid, con 7 calciatori cresciuti nel settore giovanile colchonero. Il sistema funziona anche ad altri livelli: la Liga è il secondo campionato, tra le cinque leghe top, per tempo di gioco concesso ai rookie – intesi come esordienti assoluti nel calcio professionistico; analizzando il minutaggio comparato con Serie A e Premier, il massimo campionato spagnolo offre lo spazio maggiore agli Under 23 cresciuti nei vivai nazionali: in 23, durante la stagione 2016/2017, vanno oltre i 2000 in campo (ci sono anche i francesi Laporte e Theo Hernández, cresciuti però nelle giovanili di Athletic Club e Atlético Madrid); nel nostro campionato, questa quota si ferma a 17; in Premier arriva a 11, conteggiando anche lo scozzese Robertson (Hull City).
A questi dati va fatta un’aggiunta tutt’altro che superflua: c’è un Under 23 spagnolo sopra i 2000 in Serie A (Suso) e in Premier League (Héctor Bellerín). Non esistono altri crossover, nel senso che non ci sono giovani cresciuti in club inglesi nella lista degli stakanovisti di Serie A e Liga, né tantomeno calciatori allevati nei vivai italiani sopra i 2000 in Liga e Premier.
¡Estos son los elegidos por Albert Celades para la #U21EURO! ????
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Dal 2014 Albert Celades è l’allenatore della Nazionale spagnola Under 21. Calciatore di talento, ha indossato la maglia del Real Madrid e del Barcellona durante la sua carriera. Su Youtube è possibile rivedere un suo storico gol, realizzato con il Celta Vigo contro il Real Madrid: è un’azione insistita, il pallone sempre a pelo d’erba, controllato da calciatori particolarmente letterari, i russi Karpin e Mostovoj, Makélélé, Gustavo López. Il portiere del Madrid è un giovanissimo Albano Bizzarri. A gennaio 2017, Celades rilascia un’intervista alla Uefa in vista dell’Europeo Under 21 – che inizierà in Polonia tra pochi giorni: «Non sono sicuro di avere tutti i calciatori per l’inizio della preparazione, molti dei miei convocati saranno presumibilmente impegnati nella finale di Copa del Rey o nelle ultime partite di Champions League. Tanti ragazzi del mio organico sono aggregati alla prima squadra di un club importante, hanno un ruolo da protagonista. Questa situazione non è ideale per me, ma dimostra che il calcio spagnolo sta facendo un buon lavoro. Speriamo di continuare in questo modo, per il bene dell’intero movimento».
Le parole di Celades sono verificate nei numeri, nella realtà. I 23 calciatori della sua convocatoria per la kermesse continentale mettono insieme 1415 presenze tra campionati di prima divisione e coppe nazionali varie, più 153 partite nelle competizioni internazionali per club. Non sono ancora state ufficializzate le liste di tutte le altre nazionali, ma è possibile e significativo fare un confronto sommario con i dati delle ultime convocazioni: secondo gli elenchi riferiti a Inghilterra-Germania del 24 marzo scorso, i giocatori dell’Under 21 britannica arrivano a 206 partite in Premier League; per i tedeschi sono 1137 in Bundesliga. L’Italia – facendo riferimento ai calciatori scelti da Di Biagio per le amichevoli contro Polonia e Spagna (fine marzo) – tocca quota 749 in Serie A. Dal punto di vista quantitativo, le distanze sono ampie, definite. Il primato d’esperienza finisce per produrre, inevitabilmente, anche suggestioni narrative sulla qualità: per Marca, la Sub21 che in Polonia affronterà Macedonia, Portogallo e Serbia è «una squadra di stelle, favorita per la vittoria finale».
Under 21, Italia-Spagna 1-2 (27/3/2017)
Il discorso sul rating attuale e potenziale dei giovani spagnoli, però, è decisamente più ampio e complesso. Il ricambio generazionale post-Triplete è in corso, non è ancora ultimato. Nelle due manifestazioni successive all’ultimo titolo continentale del’Under 21 (vinto nel 2013, quindi parliamo del Mondiale 2014 e dell’Europeo 2016), la Roja di Del Bosque aveva un’età media di 28,3 e 28,1 anni: la settima quota più alta in Brasile (su 32 partecipanti) e la nona nella kermesse francese (24 partecipanti). Della Sub21 campione in Israele quattro anni fa, l’ex ct ha portato ai Mondiali De Gea e Koke, mentre agli Europei si sono aggiunti anche Morata e Thiago Alcantara.
Dopo la sconfitta con l’Italia a Saint-Denis, Luis Nieto scrive su As un pezzo dal titolo autoevidente (“El final de una era”), in cui auspica una trasformazione della Roja, di uomini o addirittura di pensiero: «Il tempo ci dirà se la Nazionale ha intrapreso un ritorno al Medioevo. Forse no, ma probabilmente si aprirà un un dibattito sul modello. Lo stile di gioco che ci ha permesso di arrivare in cima al mondo si è esaurito oppure sono finiti i calciatori in grado di interpretarlo al meglio». Affidando la ricostruzione a Julen Lopetegui, tecnico dell’Under 21 campione in Israele nel 2013, la Federcalcio spagnola ha fatto la sua scelta in questo senso: la Spagna continua e continuerà nel solco avviato da Luis Aragonés, l’idea di gioco su cui si fonda l’intero sistema di formazione sarà il punto di congiunzione tra la generación de oro e la nuova nidiata di talenti. La lista dei convocati della selezione maggiore per le prossime due partite (stasera contro la Colombia e domenica contro la Macedonia) è un puzzle, una costruzione multiforme che modella la squadra sui riferimenti di ieri mentre prova a responsabilizzare i pilastri di domani: sette calciatori sono reduci dal trionfo Under 21 del 2013 (De Gea, Koke, Morata, Thiago Alcantara, Dani Carvajal, Isco e Illarramendi), ma ci sono anche Asensio, Kepa Arrizabalaga e Gerard Deulofeu in prestito dalla nuova Sub21 di Celades. Accanto a loro Andrés Iniesta, Gerard Piqué, Sergi Busquets, Sergio Ramos: i reduci dai trionfi in serie.
Il nuovo corso varato da Lopetegui ha sedotto parte della critica: in un articolo pubblicato da El Mundo, la Roja viene raccontata con termini entusiastici: «È come se la Spagna avesse ritrovato il proprio Eden, un luogo perfetto da cui nessun dio sembra poterla espellere. Gioca un calcio meraviglioso, e sembra già aver messo a punto l’assetto primario con cui presentarsi in Russia, nel 2018. Non dovrebbero esserci sorprese: Thiago è il nuovo Xavi, o così pare; Diego Costa è l’ariete cercato per anni. La difesa fa bene il suo lavoro e poi c’è De Gea, uno dei migliori portieri al mondo». In un pezzo di Diego Torres su El País, il commissario tecnico basco viene dipinto come «uno stratega in grado di mettere punto anche partite reattive, per la prima volta dopo anni la Spagna guarda anche alle caratteristiche dell’avversario nella preparazione dei match». Se struttura e sovrastruttura funzionano, e il nuovo ciclo misto sembra essere iniziato sotto i migliori auspici, l’unico dubbio che ancora permea il calcio iberico riguarda la reale consistenza della nuova generazione di talenti, la capacità di reggere un’eredità pesante come quella dei predecessori, protagonisti del più grande ciclo nella storia del calcio spagnolo. Forse, anche di quello mondiale. Fernando Hierro, ad esempio, crede che gli anni del Triplete siano irripetibili: «I giocatori che hanno portato la Spagna in cima al mondo non potranno mai essere sostituiti, non ci sarà mai più un gruppo così forte, per qualità tecniche e personalità».
Spagna-Israele 4-1 (24/3/2017)
Da un punto di vista tecnico e narrativo, Gerard Deulofeu rappresenta l’espressione perfetta di queste perplessità. Le qualità del fantasista catalano erano talmente evidenti e mitopoietiche, già al tempo della sua formazione nella Masia del Barça, che i suoi primi scouting report si interrogavano non tanto sulla sua qualità assoluta e in prospettiva, ma su quanto somigliasse a Messi oppure a Cristiano Ronaldo. Per il Daily Mirror, ad esempio, Deulofeu era più simile al portoghese. La realtà del campo e delle cose ha tracciato un’altra traiettoria, meno brillante, e ci sono illustri predecessori iscritti a questo gruppo di incompiuti: nel gruppo dell’Under 21 campione continentale del 2013, ad esempio, c’erano Pablo Sarabia, Sergio Canales, Rodrigo, Cristian Tello; Bojan Krkić, Jeffrén e Dídac Vilà erano tra le stelle del trionfo della Sub21 all’Europeo 2011. Se il 23enne Deulofeu, anche grazie all’esperienza al Milan, è riuscito a ricostruirsi un’identità calcistica d’élite, il resto dei compagni dell’Under 21 di Celades hanno un’occasione: partire avvantaggiati nella coda per la sostituzione dei veterani, quelli che stanno imboccando il viale del tramonto – almeno quello anagrafico. Allo stesso tempo, però, quest’occasione comporta e comporterà obblighi storico-calcistici decisamente pesanti: ripetere non tanto le vittorie, quanto l’impatto tattico, addirittura culturale, dei vari Iniesta, Piqué, Sergio Ramos sarà quantomeno complicato.
Denis Suárez, il calciatore più anziano a disposizione di Celades, rappresenta un altro caso di gestione incerta dell’hype. Da una parte ci sono doti tecniche importanti, riconosciute fin dall’alba della carriera (nel 2011, a 17 anni, è passato dal Celta Vigo al Manchester City); dall’altra c’è un percorso di affermazione accidentato, mai definitivamente compiuto. Un anno fa, dopo l’esperienza positiva con il Villarreal e il ritorno al Barcellona, Karl Matchett scriveva su Bleacher Report di un Suárez «pronto, a 22 anni, ad approdare da protagonista in un grande club. Per lui, la stagione con il Submarino Amarillo è stato un ideale luogo di coltura». Al Camp Nou, Suárez ha collezionato 12 presenze da titolare in Liga, una sola in Champions (match ininfluente contro il Borussia Mönchengladbach). Da dicembre in poi, ha giocato cinque partite dall’inizio in campionato. Alla sua età, Andrés Iniesta aveva in bacheca una Champions League e due Liga, più altri trofei laterali, tutti vinti da protagonista assoluto.
È il discorso della Masia che si allarga a tutta la geografia calcistica spagnola. Antonio Moschella, in un pezzo pubblicato sul numero 14 di Undici, racconta così attese, pressioni ed esiti di una condizione particolare, quella del canterano del Barça: «”Il problema è che in molti hanno pensato che una generazione come quella dell’87 fosse ripetibile, e invece non è così. In primis perché non esistono altri Messi, ma anche perché nessuno avrà mai la libertà e il coraggio di Guardiola di promuovere i giovani”, spiega la voce di chi per decenni ha passato ore sui manti erbosi di una scuola di talenti con pochi eguali nel mondo (un ex tecnico della Masia, ndr). Il Barcellona sembra essere una sorta di cannibale di se stesso, a causa di un’aspettativa elevatissima verso i canterani, molti dei quali non riescono a reggere l’aria rarefatta di chi è costretto a competere sulle vette più alte del mondo. È il caso di Bartra, l’ultima delle scelte di Luis Enrique che oggi, nel Borussia Dortmund, sembra aver trovato la sua dimensione. Volgendo lo sguardo all’indietro ci si accorge che, fino a poco fa, il Barcellona sfornava un potenziale campione ogni due-tre anni, con Puyol (1978), Xavi (1980) e Iniesta (1984) ad aprire il passo alla grande generazione del 1987. Una tendenza che ha convinto in troppi a pensare che casi come quello di Messi fossero quasi una regola, anziché l’apparizione di un raro fenomeno astrologico in un firmamento comunque costellato di altri corpi capaci di brillare seppur con meno intensità». Marc Bartra ha vinto l’Europeo Under 21 2013 ed è stato nominato nella Top 11 della fase finale, per dire.
Marco Asensio show
Il calcio spagnolo, però, non si alimenta solo dei giovani allevati a Barcellona. Il sistema di costruzione del talento, come spiegato precedentemente, funziona anche a livelli diversi per geografia e blasone: nella convocatoria di Celades per l’Europeo Under 21, ci sono cinque appartenenti alla nuova scuola basca (Odriozola e Oyarzabal della Real Sociedad, Kepa, Yeray Álvarez e Iñaki Williams dell’Athletic Club) e tre calciatori cresciuti nel Valencia (Gayà, Meré e Soler). Accanto a loro, due prodotti delle giovanili del Real Madrid (Mayoral e Llorente, nato in Castiglia nonostante un cognome tipico Euskadi) e tre giovani allevati nella Masia (Sandro, Deulofeu e Grimaldo). Ad accomunare i cinque calciatori svezzati nelle due grandi di Spagna c’è l’esperienza in prestito, lontana dalla casa madre, o la cessione definitiva: Mayoral è al Wolfsburg, Llorente è all’Alavés; Sandro è stato venduto al Málaga, Deulofeu è reduce dalle avventure con Everton e Milan e Grimaldo gioca da un anno e mezzo al Benfica.
In questi dati e percorsi incrociati c’è tutta una storia di aspettative e pressioni, c’è una difficoltà oggettiva nel riconoscere gli eredi di una generazione di fenomeni, capaci di imporsi da subito anche al Bernabeu, al Camp Nou. Sembra poterci riuscire Marco Asensio, giusto per fare un nome. Il gol realizzato nella finale di Champions ha chiuso una stagione di apprendistato positivo, nel senso dell’esito ma anche in riferimento al coinvolgimento di Zidane nelle rotazioni: 19 partite da titolare in tutte le competizioni, 38 totali. E la sensazione, confermata dalla narrazione comune (secondo Marca la sua annata era «da sogno» già prima di Cardiff), di essere di fronte a un top player futuribile che può avere un reale impatto sul futuro del gioco. Come Asensio, anche Saúl Ñíguez e Héctor Bellerín, Due calciatori fondamentali per club importanti come Atlético Madrid e Arsenal, una letteratura da wonderkid riconosciuti nonostante una carriera ancora acerba. Saúl Ñíguez è stato definito «un calciatore completo, con le qualità fisiche per ogni mansione offensiva e difensiva, le doti tecniche per portare palla in qualsiasi zona del campo e una forza mentale fuori dal comune» (Karl Matchett, Bleacher Report); Bellerín, del 2011 nell’Academy dell’Arsenal, «ha le doti per essere individuato come il talento emergente della Premier nel ruolo di terzino destro» (Michael Cox su Espnfc, gennaio 2016).
Il fatto che Asensio, Saúl Ñíguez e Bellerín rappresentino il futuro del calcio spagnolo e abbiano una dimensione internazionale già tanto certa, e verificata, potrebbe essere una garanzia per l’intero movimento. Il ruolo di guide tecniche e carismatiche dell’Under 21, condiviso con il capitano Deulofeu, è il possibile antipasto all’ingresso nella nazionale maggiore. È l’ultima parte dell’ingranaggio del futuro, di una Roja che dopo il Mondiale dovrà necessariamente completare il percorso di rinnovamento avviato – con un certo ritardo, probabilmente – da Lopetegui. La restaurazione del nuovo Ct poggia su un sistema di formazione solido, che in qualche modo dovrebbe scongiurare, almeno in parte, il timore espresso da un articolo pubblicato da Vice Sports España all’indomani della sconfitta contro l’Italia agli ultimi Europei: «Ammettiamolo una buona volta: la Spagna è tornata ad essere normale», scrive Jordi Mestre. È una visione parziale, annebbiata dalla delusione del momento: la forza della Nueva Generación, le premesse tecniche e narrative dei nuovi wonderkid spagnoli spingono a credere che la Spagna possa riannodare i fili della sua grandezza recente. Il tempo e il campo potranno confermare o smentire una speranza di eccellenza che oggi sembra abbastanza fondata, pure se pare esserci una distanza, nei punti di partenza, tra i fuoriclasse annunciati di ieri e quello di oggi. Il punto è non farsi divorare dalla fretta, dalla pressione, dall’ansia dei paragoni con il passato. È difficile costruire il futuro quando si è ammalati di nostalgia, soprattutto quella preventiva. La nuova Spagna sarà l’espressione di un modello, ma potrebbe anche essere altro da sé. Diversa e diversamente vincente, magari. La verifica tocca a Thiago Alcantara, Morata, Asensio, Koke, Saúl Ñíguez. Potrebbe andare peggio, dopotutto.