Stade de France, Saint-Denis, 10 luglio 2016. Proprio mentre Cristiano Ronaldo alza al cielo il trofeo dei Campionati Europei, il movimento calcistico portoghese inaugura il suo anno zero. È inevitabile che esistano un prima e un dopo rispetto a un momento come questo, del resto si tratta del primo trofeo senior nella storia del futebol lusitano. La squadra che gioisce con il suo capitano non si consegna solo all’immortalità, ma è pure in grado di rappresentare il futuro: ha i presupposti e la presunzione del talento, ci sono calciatori che possono assicurare una transizione sicura, indolore, che garantiscono per l’eredità di questo successo bellissimo e inatteso. Proprio in virtù di questo il ct Fernando Santos ha compiuto un’impresa doppia: vincere, e riuscire a farlo durante un ricambio generazionale molto promettente. La sua selezione è stata costruita in maniera composita, un gruppo di grande esperienza (quattordici over 27) ha fatto da guida ad una pattuglia di giovani e giovanissimi di alta qualità (sei calciatori sotto i 25 anni). Durante e subito dopo il torneo francese, alcuni dei prospetti più interessanti hanno già una dimensione e una riconoscibilità rilevanti nel calcio europeo – per esempio Raphaël Guerreiro, João Mário, André Gomes, Renato Sanches, William Carvalho. Poi ci sono anche i potenziali wonderkid, che guardano la storica affermazione dei grandi in tv ma intanto spingono e reclamano spazio da dietro: Bernardo Silva, André Silva, Ruben Neves.
La sensazione condivisa nell’estate del 2016 è che il calcio lusitano abbia prodotto una nidiata di aspiranti fuoriclasse, anzi in giro si scrive di come la Seleção das Quinas – le Quinas sono i cinque scudi che decorano lo stemma del Portogallo, presente anche nella bandiera verde e rossa – possieda organico e credenziali per aprire un ciclo pluriennale. In realtà la percezione era più o meno questa anche prima della vittoria in Francia: a giugno del 2016, il Telegraph riconosce la forza della squadra di Fernando Santos e sostiene che «il divo Ronaldo sembra avere a disposizione un cast di supporto finalmente all’altezza delle sue doti». Giù nel 2015 FourFourTwo pubblica un articolo in cui l’Under 21, la Nazionale delle Esperanças, viene definita come «il serbatoio della prossima generazione dorata del calcio portoghese, in grado di eguagliare i grandi successi giovanili dei primi anni Novanta, quelli del gruppo guidato da Figo e Rui Costa». Oggi, un anno e mezzo dopo la vittoria di Parigi, il percorso di formazione e affermazione dei nuovi talenti portoghesi non si è completato secondo le attese, secondo certe speranze. Oppure, per dirla meglio: non si è ancora completato secondo le attese, secondo certe speranze.
Europei Under 21 2015, Portogallo-Germania 5-0
Il Guardian, nella sua Next Generation 2014, elegge e presenta Ruben Neves come il giocatore più promettente del calcio lusitano. Il quotidiano inglese, ogni anno e anche quest’anno, ha aggiornato l’articolo raccontando l’evoluzione della carriera dei ragazzi selezionati. Le varie parti del testo dedicato al centrocampista ex Porto, ora al Wolverhampton, compongono una sceneggiatura basica, una trama comune che si può adattare – ovviamente in proporzione – a tutti i nuovi talenti costruiti nei vivai del Portogallo. «Ruben Neves», scrive nel 2014 Hugo Alvarenga, «ha battuto tutti i record di precocità, è un centrocampista box-to-box con caratteristiche difensive, sempre in grado di scegliere la migliore soluzione, soprattutto quando si tratta di appoggiare il pallone ai compagni. Si tratta senza dubbio di uno dei giovani più dotati del panorama portoghese ed europeo». Le revisioni del 2015, del 2016 e del 2017, tutte di seguito: «Un anno eccezionale per il mediano del Porto, 37 partite giocate con i Dragões e la finale dell’Europeo Under 21 raggiunta con la Nazionale. È nata una stella. / La sua crescita si è un po’ arrestata nell’ultima stagione, in ogni caso è diventato il più giovane capitano di sempre in un match di Champions League, e ha disputato 80 partite nel Porto a soli 19 anni. / La stagnazione dei suoi progressi ha portato Ruben Neves a cercare una nuova avventura. Sorprendentemente, la scelta è ricaduta sul Wolverhampton, squadra di seconda divisione inglese in cui ha ritrovato il suo ex tecnico Nuno Espirito Santo».
Ruben Neves e Nuno Espirito Santo non hanno in comune solo la nuova esperienza nelle West Midlands inglesi, ma anche il procuratore, anzi l’agenzia di rappresentanza, la Gestifute di Jorge Mendes. Se prima abbiamo scritto che è possibile riciclare la storia di Ruben Neves, è perché la Gestifute cura gli interessi di molti altri calciatori: Bernardo Silva, André Silva, André Gomes, Renato Sanches, William Carvalho (fino a febbraio 2017). Più Nelson Semedo, Gonçalo Guedes e Ivan Cavaleiro, che hanno una popolarità inferiore ma hanno vissuto la stessa dinamica di mercato. Il sistema di Mendes, dal punto di vista del trasferimento del calciatori, si può condensare in una frase fatta ma non banalizzante: tutto e subito, dal Portogallo dei piccoli a quello dei grandi e poi in un top club, o comunque in una società dall’ampia disponibilità economica, in grado di garantire fin da subito un ingaggio importante al giocatore – e commissioni consistenti alla Gestifute. In un documentario tv che racconta il lavoro e la figura di Mendes, i presidenti del Porto, del Benfica e dello Sporting Braga definiscono il superagente come «un benefattore», perché «diverse centinaia di milioni di euro sono entrati in Portogallo grazie a lui». Non a caso, secondo Forbes, Mendes è il terzo procuratore sportivo più ricco del mondo. Al primo posto c’è lo sports agent numero uno della Mlb, Scott Boras; al secondo c’è Constantin Dumitrescu, che attraverso la Mondial Sports Management detiene le procure, tra gli altri, di Edinson Cavani, Phillipe Coutinho, Douglas Costa e Nemanja Matić.
Il caso di Ruben Neves è una sorta di livello bonus all’interno del gioco di ruolo: la squadra che ha scelto per riaccendere la sua carriera, il Wolverhampton, è praticamente una colonia, una succursale della Gestifute. Insieme a lui, ci sono altri quattro giocatori gestiti dalla sua stessa agenzia (Roderick Miranda, Ivan Cavaleiro, Diego Jota e Helder Costa), tutti portoghesi. Il rapporto particolare tra Mendes e il Wolverhampton è similare a quello costruito negli anni scorsi con il Valencia di Peter Lim, ed è stato il tema di un articolo di approfondimento del New York Times: «La dirigenza dei Wolves non ha mai nascosto il fatto che Mendes sia un noto associato di Fosun, la società cui fanno capo i proprietari cinesi del club. Del resto, Fosun possiede una parte delle azioni della stessa Gestifute. L’attuale capolista della Championship appartiene con pieno titolo al “sistema-Mendes”, una rete di società in tutta Europa – alcune grandi, alcune piccole, alcune nell’ombra –, che formalmente o informalmente si rivolgono a Mendes per consigli di calciomercato, buoni uffici nei confronti dei calciatori, aiuto nelle trattative. Una di queste società, prima o poi, acquisterà i clienti della Gestifute, in questo modo mercato è sempre in movimento, e per ogni operazione l’agenzia guadagna una nuova commissione».
Bastano poco più di due minuti, gli highlights personali di una partita, per rendersi conto di quanto Ruben Neves sia fuori contesto nel Wolverhampton
Parlando esclusivamente di gioco e di campo, bypassando quindi gli aspetti legali ed etici più controversi rispetto al sistema-Mendes – le società offshore, il conflitto di interessi per l’incidenza sul calciomercato dei club vicini alla sua agenzia, la regolamentazione in merito alle TPO –, la sensazione è che la ritardata o mancata affermazione ad alti livelli dei calciatori lusitani più promettenti sia legata a un percorso di sviluppo troppo accelerato, temporizzato esclusivamente sulle dinamiche di mercato. Non c’è materialmente il tempo per coltivare e definire il talento, i club portoghesi sono ansiosi di cedere i migliori giocatori alle squadre più ricche, e questo discorso riguarda i trasferimenti interni come quelli internazionali. È una condizione inevitabile, data l’economia povera che caratterizza la Liga NOS: la prima società portoghese nella Deloitte Money League 2017 è il Benfica, 27esimo, con un fatturato di 152 milioni di euro e un totale di introiti televisivi interni pari a 33 milioni. La situazione non sembra destinata a cambiare, anzi il gap con le maggiori leghe europee continuerà ad allargarsi: per i diritti tv domestici, le tre big (Benfica, Porto e Sporting Liosbona) del calcio portoghese guadagneranno circa 400 milioni di euro a testa per dieci anni a partire dalla stagione 2018/19. La cifra media stagionale, 40 milioni, sarà pari a un terzo di quella incassata da Bournemouth o West Bromwich Albion per l’annata 2016/17. Scendendo lungo la piramide gerarchica del campionato, le quote si abbassano in maniera esponenziale: lo Sporting Braga, a dicembre 2015, ha venduto i suoi diritti televisivi nazionali a 100 milioni di euro per le successive dieci stagioni.
Con questi presupposti, il player trading è l’unica soluzione per poter ricreare un ambiente di competitività economica e sportiva. Anche i calciatori che non lavorano con la Gestifute sono condannati a una crescita praticamente istantanea, senza step intermedi, esiste e si percepisce l’urgenza di una vendita immediata dopo la prima rivelazione. Uno dei casi che ci riguarda più da vicino è quello di João Mário, gestito dall’agenzia Sbsfoot. In un articolo di Undici, il centrocampista dell’Inter viene presentato così: «Il grande equivoco che João Mario si è trascinato in Italia è di natura tattica. Qual è il suo ruolo, o meglio, in che posizione rende al massimo? Con la Nazionale all’Europeo, così come nello Sporting, Mario giocava soprattutto come “mezzo-esterno” (in portoghese “medioala”) nel rombo lusitano, il 4-1-3-2: esterno in fase offensiva, interno in quella difensiva. Un ruolo ibrido impresso nel suo codice genetico, ma non previsto oltre i confini del Portogallo». In pratica, l’Inter ha acquistato per 45 milioni di euro totali un calciatore di 23 anni, dalla grande qualità potenziale eppure ancora in costruzione, senza una precisa definizione posizionale oltre a quella – limitata e limitante – legata a un sistema che viene adottato nel suo ex club, nel suo campionato di formazione, nella sua Nazionale, ma che non è replicabile nella sua nuova realtà.
Anche l’impatto di André Silva sul nostro campionato racconta più o meno la stessa dinamica: l’ex attaccante del Porto è stato sistemato da Mendes nel nuovo Milan, portandosi dietro credenziali importanti da finalizzatore – 21 gol in 44 partite nel primo anno da titolare con i Dragões. Eppure le sue prime prestazioni sono state segnate dall’incertezza rispetto alla miglior posizione in campo, dalla difficoltà di fare emergere la sua qualità in un contesto maggiormente competitivo: «Il Milan ha deciso di utilizzarlo più in Europa League che in campionato, è evidente che alla base ci sia un ragionamento ben preciso: non esporre André Silva, completamente e repentinamente, alla fiamma del calcio italiano – più fisico, più tattico di quello a cui è stato finora abituato. Dal punto di vista dell’interpretazione del ruolo, sembra quasi che André Silva si senta più a suo agio da seconda punta che da terminale offensivo. Qualcuno, all’interno del Milan, lo vedrebbe addirittura come numero dieci, per qualità tecnica e visione di gioco» (Francesco Paolo Giordano, su Undici).
Nonostante l’utilizzo non proprio continuativo, non si può dire che Bernardo Silva abbia iniziato male la sua avventura con il Manchester City
Due conferme e un’eccezione: le storie di di André Gomes, Renato Sanches e Bernardo Silva completano un quadro unitario, definito nelle spigolature come nei percorsi alternativi. I centrocampisti di proprietà del Barcellona e del Bayern Monaco rafforzano la percezione rispetto al danno provocato da operazioni di mercato affrettate, azzardate e perciò probabilmente sproporzionate nel rapporto tra contenuto tecnico e investimento economico. André Gomes, nella stagione in corso, ha disputato appena 5 partite da titolare con il Barça, per un totale di 492 minuti giocati. Un passo indietro deciso rispetto allo sviluppo lineare iniziato con Luis Enrique, dopo il trasferimento dal Valencia nell’estate del 2016, per 35 milioni iniziali più 20 di potenziali bonus. Per Sanches, acquistato dal Bayern per 45 milioni di euro tra parte fissa e variabile, la situazione è ancora più complessa: dopo una prima annata interlocutoria in Germania, e nonostante la stima di Ancelotti («Nella mia carriera non ho mai visto un centrocampista con una tale quantità di forza», queste le parole del tecnico di Reggiolo), l’ex del Benfica è stato spedito in prestito allo Swansea City per tentare un’immediata operazione recupero. In Galles, finora, sette partite da titolare in Premier (non è stato neanche convocato per gli ultimi due match) e un contributo impalpabile al gioco di Paul Clement. Il manager degli Swans, tra l’altro allenatore in seconda del Bayern Monaco fino a gennaio 2017, ha spiegato in una recente intervista che Renato Sanches è «ancora lontano dalla sua forma migliore», e quanto sia portato a tentare sempre «la soluzione più difficile, pur non possedendo la sicurezza necessaria perché possa riuscirgli».
Il paradosso è che l’esperienza più soddisfacente risulta essere quella di Bernardo Silva, un calciatore che nella stagione in corso ha giocato nove volte dal primo minuto con il Manchester City – su 25 partite in tutte le competizioni. Pochi giorni fa, Guardiola ha spiegato che l’ esterno mancino nato a Lisbona «ha avuto un inserimento persino più rapido rispetto a quello di Sané, è pronto per un ruolo da protagonista in questa squadra, piuttosto è quasi un peccato che altri calciatori dell’organico siano così in forma da costringerlo spesso in panchina». Forse non è un caso che il giocatore cresciuto attraverso il percorso più graduale, con il passaggio intermedio al Monaco posto tra gli esordi al Benfica e l’approdo in Premier League, abbia avuto un approccio comunque incoraggiante alla nuova realtà, a un contesto di livello più elevato. In un’intervista rilasciata a Radio Monte Carlo pochi giorni dopo la firma con i Citizens, è lo stesso Bernardo Silva a spiegare l’importanza di questa tappa di formazione: «Devo ringraziare il Monaco, un club in cui ho vissuto stagioni fantastiche e che mi ha dato l’opportunità e il tempo di sviluppare il mio gioco, di arrivare a confrontarmi sui palcoscenici più importanti». Secondo Transfermarkt Bernardo Silva è il secondo calciatore portoghese per valore del cartellino: 40 milioni di euro contro i 100 di Cristiano Ronaldo. Neanche questo è un caso: la percezione delle sue doti, le sue parole e soprattutto l’andamento della sua carriera raccontano l’anomalia della normalità, l’eccezione che non conferma la regola, anzi sottolinea il bug del sistema e indica il punto in cui riscrivere il modello. L’incompiutezza della nuova generazione portoghese è una condizione indotta, che nasce con il calciomercato e si concretizza con il peso delle aspettative, con la pressione di dover essere grandi fin da subito. L’attesa e la costruzione ragionata del talento sono le uniche soluzioni possibili per risolvere un equivoco che rischia di cancellare, o comunque di depotenziare, l’impatto di un gruppo di giovani potenzialmente formidabili ma ancora inespressi.