I peggiori XI della Serie A

La selezione dei giocatori che hanno maggiormente deluso le aspettative nella stagione appena conclusa: da Bonucci a Kalinic passando per Hamsik.

Negli ultimi giorni gli account social di Opta hanno pubblicato le top 11 (una generale e una relativa ai soli giocatori italiani) della Serie A 2017/2018. Il fatto che in queste formazioni figurino anche calciatori che hanno vissuto una stagione complicata, dimostra come l’effettivo impatto delle prestazioni del singolo all’interno del sistema squadra prescinda dalla replicabilità di determinati numeri, essendo principalmente una questione legata alle percezioni del campo. E così come è difficile mettere insieme una sorta di “dream team” del campionato basandosi esclusivamente su dati statistici, lo è altrettanto individuare chi non è stato all’altezza delle aspettative, senza soffermarsi troppo su giudizi di valore assoluto o sulla circostanze che hanno visto qualcuno fare addirittura peggio degli undici che abbiamo individuato. Affidandoci essenzialmente al principio del “ciò che poteva essere e non stato”.

Gianluigi Donnarumma

Spesso si dimentica che Donnarumma ha 19 anni e che, quindi, alti e bassi siano assolutamente fisiologici nel suo percorso di crescita. Tuttavia un’intera stagione di polemiche, anche pretestuose, extra campo unita ad un’interpretazione del ruolo molto spettacolare e moderna, favorita da una personalità e da mezzi atletici comunque fuori scala rispetto alla maggior parte dei suoi coetanei, hanno accentuato la sensazione di un notevole passo indietro rispetto all’anno passato. E non è solo questione di numeri (pur eguagliando il proprio primato di clean sheets risulta il sedicesimo portiere della Serie A per percentuale di parate – 68.4 contro il 76.4 del 2016/2017 – oltre a registrare un impietoso -1.6 per quel che riguarda il dato degli xG subiti): in Donnarumma la componente istintiva e reattiva continua a prevalere su quella tecnica, in un’alternanza continua di parate al limite dell’inspiegabile (vs Milik e Iago Falque) ed errori di concetto e posizionamento (vs Dybala, fino a quelli nella finale di Coppa Italia e in Europa League contro l’Arsenal), con la mancanza di tempismo e spinta laterale sulle conclusioni dalla media-lunga distanza che sta cominciando a diventare una costante preoccupante. O, comunque, un qualcosa di fortemente limitante per il portiere titolare di una squadra con ambizioni di vertice.

L’errore all’Emirates contro l’Arsenal

Pol Lirola    

Rispetto al 2016/2017, Pol Lirola ha giocato più partite (24, di cui 22 da titolare, per un totale di 2023’, contro le 17 – 12 dal 1’ – e i 1547’ della stagione passata) ed era teoricamente molto più inserito in un sistema che, almeno inizialmente, avrebbe dovuto esaltarne le caratteristiche: nel 4-3-3 pensato da Bucchi a inizio stagione per sfruttare al massimo le catene laterali in fase di risalita del campo, infatti, i terzini dovevano giocare un ruolo cruciale tanto in fase di ultima rifinitura quanto in quella di consolidamento del possesso, in modo da sfruttare il campo tanto in ampiezza quanto in profondità. L’arrivo di Iachini e la conseguente necessità di far punti salvezza badando al sodo, ha richiesto un’interpretazione molto più scolastica del ruolo, con le pecche del giovane spagnolo in fase di non possesso che si sono rivelate in tutta la loro evidenza, unitamente a un drastico calo della produzione offensiva (appena un assist contro i tre dell’anno scorso al netto di un lieve aumento nei passaggi chiave reso possibile dal maggior impiego). La definitiva consacrazione è ancora rimandata.

Leonardo Bonucci

Ad inizio gennaio, nel raccontare le difficoltà che hanno caratterizzato i primi mesi in rossonero di Bonucci, Simone Torricini scriveva su Undici che «per valutare il rendimento di un giocatore non si può prescindere dall’osservazione del contesto che lo circonda», tanto più se il contesto è stato preparato per assecondare una letteratura forzata come può esserlo quella del “salvatore della patria” ad ogni costo. Il Bonucci milanista non può essere giudicato negativamente tout court, ma rientra comunque in quel regime di ordinarietà prestazionale non sufficiente a supportare le tante (troppe?) aspettative. E se le giustificazioni tecniche e tattiche non mancano (perdita nella centralità in fase di prima costruzione a causa della contemporanea presenza di Biglia, difficoltà nella rimodulazione del proprio modo di difendere nel passaggio da una difesa a tre ad una a quattro, l’essere stato affiancato da un secondo centrale comunque meno esperto di lui) non hanno certo aiutato le continue e non necessarie dimostrazioni di superomismo dentro e fuori dal campo: come se, lui per primo, sentisse il bisogno di dimostrarsi quel leader che avrebbe comunque potuto essere in considerazione del continuo ribaltamento di prospettive e percezioni intorno al Milan 2017/2018.

Il gol contro la Juventus allo Stadium, il punto più alto della prima stagione in rossonero di Bonucci

Danilo

Il roller coaster tecnico ed emozionale attraverso cui si è dipanata la folle stagione dell’Udinese, tra ventilate ambizioni europee e il baratro retrocessione sempre incombente, ha la sua ideale cartina di tornasole nel rendimento di Danilo: capitano, leader difensivo, primo ad essere travolto dallo tsunami delle undici sconfitte consecutive costate la panchina a Massimo Oddo dopo un inizio promettente. Del resto non poteva essere altrimenti: sul centrale brasiliano (al minutaggio più basso dal 2012/2013, senza problemi fisici significativi nella seconda parte di campionato) l’ex tecnico del Pescara aveva costruito gran parte del proprio sistema difensivo, anche in fase di prima costruzione della manovra. Venuto meno il presupposto della verticalità che aveva fatto le fortune dei bianconeri nel filotto di sei vittorie consecutive tra dicembre e gennaio, si sono palesati tutti i limiti strutturali in fase di non possesso, in particolare per ciò che riguarda le marcature sui calci piazzati e le difficoltà nel fronteggiare avversari in grado di portare un pressing aggressivo sui portatori di palla anche nella propria metà campo. E Danilo è finito costantemente preso in mezzo, senza la possibilità materiale di rimediare in alcun modo.

Alex Sandro

A un certo punto della scorsa stagione Alex Sandro era il primo giocatore della Juventus per recuperi difensivi, occasioni create, cross e contrasti vinti: una sorta di arma totale sui due lati del campo, in grado di fare tutta la differenza del mondo tanto dal punto di vista fisico quanto da quello tecnico. Per questo, al netto di un rinnovo di contratto che continua a non arrivare e le conseguenti incertezze sul futuro, l’involuzione del terzino brasiliano è difficile da spiegare: perché la crisi non è nei dati (le presenze non sono diminuite, il numero di gol e assist è rimasto pressoché invariato – dopo gli attaccanti è l’elemento che contribuisce di più alla fase offensiva – così come quello relativo ai contrasti e agli intercetti) ma nell’effettivo coinvolgimento in un sistema che non lo vede più così determinante. Mancanza di concentrazione, partecipazione ed applicazione hanno fatto il resto, con Allegri che gli ha più volte preferito Asamoah nelle sfide decisive e con Tite che lo ha escluso dalla lista dei 23 per la Russia nonostante le imperfette condizioni di Filipe Luís. Da soluzione a primo dei problemi da risolvere il passo è stato fin troppo breve.

Claudio Marchisio

Nella prime due Juventus di Allegri Claudio Marchisio era stato fondamentale, surrogandosi prima e interpretando il ruolo secondo i dettami di dinamicità e continuità predicati dal livornese poi, nella posizione che fu di Andrea Pirlo. La rottura del crociato del ginocchio sinistro sul finire del 2015/2016 ha di fatto pregiudicato le ultime due stagioni del numero 8, proiettato in un limbo di astrazione e indeterminatezza che lo ha portato a disputare meno partite rispetto all’annata post infortunio (9 vs 15).  Non a caso, parte dei problemi del centrocampo juventino di questa stagione nascono anche dalla parziale sottovalutazione del recupero a pieno regime di Marchisio che, al di là dell’incapacità di riuscire a ritrovare uno stato di forma accettabile, pare aver perso quella capacità di lettura anticipata di spazi e tempi che avrebbero consentito di affiancare a Pjanic un giocatore di qualità in grado di consolidare il possesso e facilitare l’uscita della palla dalla difesa. Il fatto che Allegri, in occasione dell’andata dei quarti di Champions con il Real Madrid, coincisa con l’assenza per squalifica del bosniaco, gli abbia preferito Bentancur spiega come il giocatore sia ormai ai margini del progetto tecnico.

Marek Hamsik   

Si può inserire il centrocampista slovacco tra le delusioni dell’anno, tanto più nella stagione che gli ha visto battere lo storico record di reti in maglia azzurra di Diego Armando Maradona e infrangere il muro delle 100 reti in Serie A? La questione è complessa e riguarda la dicotomia tra ciò che Hamsik rappresenta per Napoli e ciò che può ancora dare al Napoli: da un lato c’è la narrazione dell’ultima delle bandiere che non può essere messa in discussione, dall’altra la realtà del campo che racconta di un elemento vittima di un pauroso downgrade dal punto di vista fisico che gli ha impedito di tenere un ritmo alto per più di un certo minutaggio in ogni partita e con le continue sostituzioni di Sarri studiate proprio per preservarlo sul medio-lungo periodo. Nella sua miglior versione (quella dello scorso anno), Hamsik è stato il regista dinamico del Napoli, l’uomo che organizzava di volta in volta la manovra, spostando il pallone sulla prediletta fascia sinistra, o tagliando il campo in orizzontale, risultando il calciatore più creativo della squadra, con 2 occasioni create per partita e 5 palloni lunghi. Quest’anno si è scesi, rispettivamente, a 1.3 e 2.3, in una perdita di centralità sempre più evidente e che sta mettendo in discussione il futuro in azzurro.

La rete di Hamsik al Torino, la sua centesima in Serie A

Kevin Strootman

Quando si parla in generale del rendimento di Kevin Strootman, non bisognerebbe mai dimenticare la tremenda storia clinica che ha caratterizzato il suo ultimo quinquennio. Scendendo nel particolare, tuttavia, non si può non notare come il 2017/2018 sia stata la stagione della definitiva “normalizzazione” del centrocampista olandese, sia nei numeri (circa 500’ in meno rispetto al 2016/2017, nessun assist  – contro i sette dell’anno scorso – e drastica riduzione dei passaggi chiave: da 1.5 a 0.9 di media a partita) che nella percezione del suo effettivo contributo in campo, tanto più nella prima, complessa, esperienza da allenatore di una grande di Eusebio Di Francesco. Proprio il tecnico, in ragione dei problemi fisici di De Rossi e Gonalons, ha cucito su misura per l’olandese un ruolo di centrocampista centrale che coniugasse le sue indubbie doti di lottatore con una regia lucida e più verticale. In realtà ciò che ne è venuto fuori è stato una sorta di ibrido: Strootman ha toccato molti meno palloni rispetto all’ultimo campionato (45 vs 60.7), con una pass accuracy rimasta sostanzialmente invariata (85%) e con la costante difficoltà nell’ associarsi con gli esterni offensivi e a leggere i tempi di sviluppo dell’azione avversaria in funzione del recupero palla (due i contrasti andati a buon fine ogni 90’) e della successiva transizione. Della “lavatrice” che fu nel 2013/2014 sotto Rudi Garcia sembrano essersi perse definitivamente le tracce.

Antonio Candreva

In questo articolo su Undici di settimana giorno fa, Claudio Savelli ha scritto che «le qualità tecniche e tattiche di Candreva sono coerenti con il ruolo di esterno offensivo classico – corsa, resistenza, postura, coordinazione nei gesti tecnici – ma non con il ruolo di esterno offensivo oggi, nel calcio contemporaneo». In fondo al di là dei numeri, delle statistiche, di un gol che manca da oltre un anno, le difficoltà dell’ex laziale in questa stagione si spiegano proprio nella sua scarsa adattabilità a un’idea di calcio associativa e moderna come quella che Luciano Spalletti ha da subito pensato per la sua Inter. La monodimensionalità, la costante perdita di almeno un tempo di gioco nell’esecuzione di una giocata con l’unico risultato di forzarla successivamente, la difficoltà di ragionare in una dinamica di coppia con il terzino di riferimento per facilitare la risalita del campo attraverso le catene laterali, hanno finito per oscurare quelle capacità aerobiche e di applicazione che, di fatto, gli hanno assicurato una titolarità indiscussa (33 presenze e 2563’ complessivi). Almeno fino a quando non arriverà qualcuno non necessariamente più forte ma, almeno, più adatto a una certa interpretazione del ruolo.

Quello ad Icardi in occasione del ko interno contro l’Udinese dello scorso 16 dicembre è l’ultimo assist di Candreva in Serie A 

Cyril Thereau

Nella prima parte di campionato, Cyril Théréau si era confermato come uno dei giocatori più affidabili della Serie A anche con la maglia della Fiorentina. Alla lunga, però, gli infortuni che tra gennaio e aprile lo hanno costretto a saltare sette partite, hanno finito con il condizionarne il rendimento, progressivamente in calo, e la considerazione di Stefano Pioli  che, nello sprint finale per l’Europa (22 punti nelle ultime 12 partite, nelle quali l’ex Udinese è stato impiegato la miseria di 13’) gli ha costantemente preferito Saponara e/o Gil Dias. Finché è stato in una condizione di forma accettabile, Théréau è stato più che utile alla causa viola ma l’impressione è che la squadra, nella sua confermazione attuale, più immediata, verticale e imprevedibile, possa tranquillamente fare a meno di lui: cinque gol e quattro assist in 16 presenze non sono certo la statline che ci si attendeva da lui alla prima grande occasione con una contender da medio-alta classifica.

Nikola Kalinic

I contorni tragicomici della stagione di Kalinic assumono tratti ancora più netti se si pensa alle premesse, a ciò che avrebbe dovuto essere e non è stato, al fatto che un ragazzino alla prima esperienza nel calcio professionistico si sia fatto preferire in tutti quegli aspetti di gioco che avevano convinto il Milan a sceglierlo come centravanti titolare del nuovo corso. Non è nemmeno una questione tecnica o di numeri (comunque impietosi – cinque gol in 20 presenze) quanto questo suo progressivo lasciarsi trascinare dagli eventi, come se a un certo punto il fallimento fosse l’unica opzione contemplata e i fischi di San Siro a cadenza domenicale la giusta espiazione per un peccato commesso in qualche vita precedente. O, forse, più semplicemente, ha ragione Gattuso quando dice: «Per come si muove e per la tecnica che ha, è un giocatore molto importante. Ha sempre fatto gol, ma forse non siamo stati bravi nemmeno noi a metterlo nelle condizioni di far male agli avversari».

L’errore di Kalinic contro la Juventus