Nuoto e depressione

Phelps,Thorpe e molti altri: perché molti grandi nuotatori hanno vissuto problemi di salute mentale?

Missy sorride. È metà febbraio ed è seduta in un hotel di Monte Carlo durante i Laureus World Sports Awards, racconta ai giornalisti la sua nuova vita e sorride, sorride a tutti come se fossero suoi vecchi amici, anche a me che mi avvicino per salutarla, presentarmi e dirle quanto l’ammiro. Missy è la statunitense Melissa Franklin, ha 23 anni e da pochi mesi (dicembre 2018) si è ritirata dal nuoto. Ha vinto 5 ori olimpici e 11 ori mondiali, molti dei quali quando non era neanche maggiorenne. L’hanno fermata vari infortuni alla spalla e la depressione: «Ero arrivata a Rio 2016 nella miglior forma della mia vita, dopo il miglior anno di allenamento che avessi mai avuto, ma non è servito a nulla perché mentalmente mi sentivo inutile. Ero in una situazione terribile, non riuscivo a controllare i miei pensieri come facevo prima e quand’è così tutto l’allenamento che hai fatto non conta più a niente».

Poche settimane fa ha annunciato l’addio al nuoto anche la lituana Ruta Meilutyte. La sua carriera ha molti punti in comune con quella di Missy Franklin: entrambe sono diventate campionesse olimpiche giovanissime (Franklin a Londra 2012 aveva 17 anni, Meilutyte addirittura 15) ed entrambe hanno vissuto problemi di salute mentale. L’anno scorso, infatti, la ranista diceva: «Combatto contro la depressione ogni giorno. È una battaglia. Con l’aiuto della mia famiglia e dei miei amici ho trovato il modo di stare meglio, ma non me ne sono ancora liberata e sento di dover lavorare a lungo per uscirne». Non ne è uscita.

Se si cerca su Google “swimming depression” o “swimming mental health”, anche in italiano, i primi risultati che compaiono riguardano la possibilità di affrontare la depressione attraverso le bracciate in acqua. Una specie di terapia, non una conseguenza. Invece basta aprire Wikipedia, cercare la classifica degli atleti che hanno vinto più medaglie ai Mondiali di nuoto e leggere i primi nomi della lista: Michael Phelps, Ryan Lochte, Katie Ledecky, Missy Franklin e Ian Thorpe. Quattro su cinque — tutti tranne Ledecky — hanno smentito la frase del collega Matt Grevers («Se hai demoni interni, il nuoto probabilmente non è lo sport che fa per te»), e quei demoni interni li hanno resi pubblici più volte.

Phelps è il più grande nuotatore di sempre: ha vinto 23 ori olimpici (su 28 medaglie totali) e 26 ori mondiali. Eppure c’è stato più di un momento in cui non voleva più vivere. Ian Thorpe, fuoriclasse australiano tra fine anni Novanta e inizio Duemila, è finito più volte in riabilitazione e anche lui ha ammesso di aver pensato al suicidio. La lista dei giganti fragili dell’acqua è lunga: c’è per esempio l’americana Allison Schmitt, che oggi sfoggia fiera una maglietta con la scritta “mental health is as important as physical health” (la salute mentale è importante tanto quanto la salute fisica).

Ci sono poi altri due australiani, Grant Hackett e Cate Campbell: il primo, tre volte campione olimpico e dieci volte iridato, per uscirne ha accettato proprio l’aiuto di Phelps; la seconda ha 27 anni ed è tornata a gareggiare dopo essersi presa una stagione di pausa per smaltire la delusione delle Olimpiadi 2016. A Rio era la favorita, si è presentata da detentrice del record del mondo dei 100 metri stile libero. È arrivata sesta e in seguito ha spiegato: «Mi sono ritrovata vedova. Il nuoto, il mio unico amore, mi aveva tradita. Morire sarebbe stato meno doloroso. Tutto è capitato la notte prima [della finale], mi ha mandato un massaggio un amico: I can’t wait to see you win gold. Non vedo l’ora che tu vinca l’oro. Il mio cuore è impazzito, ha iniziato a battere velocemente, non riuscivo più a respirare. L’Australia era piombata sulle mie spalle, la sua felicità dipendeva da me».

Micheal Phelps durante i Trials per i Giochi Olimpici 2016. A Rio, il nuotatore americano ha vinto 5 medaglie d’oro e una d’argento (Tom Pennington/Getty Images)

Una volta, un ex giornalista della Bbc, ci consigliò: «Se volete scrivere un articolo sulla fatica che c’è dietro lo sport, seguite gli allenamenti di un nuotatore». Gregorio Paltrinieri percorre in acqua circa 18 chilometri al giorno. A metà luglio, ai Mondiali di Gwangju in Corea del Sud, cercherà di conquistare il terzo oro consecutivo nei 1500 metri stile libero. Nel 2017 è uscita la sua prima autobiografia, Il peso dell’acqua, in cui ha scritto: «Noi nuotatori siamo sempre nudi davanti al giudizio della gente e delle telecamere, protetti solo da un sottile costume. Non siamo come la maggior parte degli sportivi che possono utilizzare maglie, calzoncini, calze e scarpe come armature immaginarie». Credo che sia una frase che individua e identifica bene uno dei fattori che rendono così vulnerabili questo sport e chi lo pratica: si gareggia praticamente nudi, soli, non si esce mai dall’acqua, si ripete un gesto fino all’ossessione. E il nuoto sotto questo aspetto è davvero unico anche tra le discipline “sorelle”: nei tuffi i movimenti si realizzano per lo più fuori dalla vasca, mentre la pallanuoto e il nuoto sincronizzato prevedono la componente squadra.

Nel nuoto, poi, la gloria dall’opinione pubblica arriva ogni quattro anni (con le Olimpiadi) o, se proprio va bene, ogni due (con i Mondiali). È una situazione paradossale: il nuoto, insieme all’atletica, è lo sport più grande tra le discipline olimpiche, ma è probabilmente il più piccolo tra i grandi sport. Non ha un’agenda stagionale ricca di eventi di cartello come il tennis o il ciclismo, per fare un paragone con altri due sport individuali seguiti e praticati in tutto il mondo. «La pressione è incredibile», ha detto ancora Matt Grevers, «non è come una partita di basket in cui se cominci male o sbagli un tiro hai un’altra possibilità. Nel nuoto se sbagli la partenza, una respirazione o una virata hai perso. E questa perfezione la devi raggiungere una volta ogni quattro anni, in un preciso momento». Alle Olimpiadi.

Cate Campbell durante una gara del 2008. La nuotatrice australiana ha vinto 5 medaglie d’oro olimpiche, di cui 2 d’oro (Clive Rose/Getty Images)

Per questo vincere o perdere alla fine cambia poco: Phelps ha sofferto ciclicamente di “depressione post olimpica” (il mondo lo portava in cielo per i suoi trionfi e poi se ne dimenticava, facendolo crollare a terra con le sue insicurezze), Franklin e Meilutyte si sono smarrite quando i risultati non sono più stati all’altezza delle aspettative riposte in loro, Paltrinieri nell’autunno 2016 si svegliava ancora con l’incubo di aver perso la medaglia d’oro in Brasile.

L’ombra del Massaggiatore Nero, un ricchissimo saggio sulla storia del nuoto scritto da Charles Sprawson nel 1992, si apre con una citazione di Jacques Prévert: «Quando vedo un uomo che nuota dipingo un annegato». La parola depressione deriva da un termine latino, deprimere, composto dalla particella “de” e da “premere”: letteralmente significa “calcare una cosa acciocché si abbassi”. Un po’ come un nuotatore a cui viene messa una mano in testa e deve lottare contro l’invisibile per non annegare, se ci pensate bene.