La nera del calcio

Le risse inglesi di Drinkwater e Özil, ma anche omicidi, servizi segreti e cartelli di trafficanti: quando il calcio finisce nella cronaca.

A leggere le cronache delle ultime settimane, la Premier League, pur senza Brexit, vive un periodo turbolento fuori dai campi: pochi giorni fa Danny Drinkwater, centrocampista del Burnley, uno dei protagonisti della cavalcata trionfale del Leicester nel 2016, è stato picchiato a sangue da sei persone fuori da un pub di Manchester. Secondo il Sun, il centrocampista avrebbe infastidito la ragazza di Kgosi Ntlhe, calciatore del Scunthorpe United, che milita nella quarta serie inglese. I sei avrebbero aspettato fuori dal locale Danny e gli avrebbero dato una lezione. A fine luglio era invece toccato a Mesut Özil e Sead Kolašinac, entrambi dell’Arsenal, finire sulle pagine di cronaca nera britannica dopo essere stati assaliti da tre giovani armati di coltelli a Golders Green, un quartiere residenziale nella parte nord di Londra.

La cronaca nera è zeppa di notizie che coinvolgono stelle (più o meno lucenti) del mondo del calcio, ben più gravi di “tranquille” risse al pub. La madre di tutte le storie coinvolse Andrés Escobar, idolo dell’Atlético Nacional e difensore della nazionale colombiana. La sera del 2 luglio del 1994 il calciatore fu crivellato con sei colpi mentre usciva da un ristorante di Medellín. La sua colpa: aver realizzato l’autogol con cui la sua Nazionale fu eliminata dai Mondiali del 1994 negli Stati Uniti. A condannare Andrés una deviazione maldestra attorno alla mezzora del primo tempo nella gara decisiva contro gli Usa. Andrés, uno dei migliori difensori del suo Paese, era a cena in un ristorante del quartiere di Las Palmas, dove viveva. All’uscita dal locale è circondato da alcuni uomini e freddato da alcuni spari. L’anno prima, sempre a Medellín, René Higuita, il portiere delle parate spettacolari e delle uscite fino a metà campo, era finito in galera per sette mesi per aver fatto da intermediario al rapimento della figlia di un industriale. Il danaro del riscatto doveva finanziare la fuga del boss Pablo Escobar.

«Ma che razza di sport è il calcio?», si è sempre chiesto lo scrittore Don De Lillo. «Uno sport dove i giocatori non possono usare le mani a eccezione del portiere? Le mani sono strumenti essenziali per l’uomo: afferrano, tengono, fanno, prendono, portano, creano». E a quanto pare, sparano.  Nel dicembre 2015 a finire crivellato di colpi è stato l’honduregno Arnold Peralta, 23 presenze e una rete in Nazionale, a pochi passi da un centro commerciale a La Ceiba. Poche ore prima di morire il centrocampista 26enne del Deportivo Olimpia, ex Glasgow Rangers, era stato convocato dal ct dell’Honduras, Jorge Luis Pinto, per un’amichevole contro Cuba. Nell’ottobre del 2018 Daniel Correa Freitas, ex trequartista 24enne di Botafogo e San Paolo, viene trovato cadavere in un bosco di São José dos Pinhais, vicino Curitiba. Ucciso a colpi di machete e poi mutilato da tale Edson Brittes Junior, compagno della donna con cui Daniel aveva una relazione.

Un caso che fece clamore negli anni ‘70 è stato quello di Octavio Muciño, carismatico e rissoso attaccante dei messicani Chivas. “El Centavo” ha solo 24 anni e sta cenando al Carlos O’Willys, ristorante tra i più in voga della città di Guadalajara, quando all’improvviso viene aggredito da un gruppo di tifosi dell’Atlas, l’altra squadra della città, guidati da Jaime Muldoon Barreto. Vola qualche pugno ma la lite sembra esaurirsi lì. Non è così. Poco più tardi fuori dal locale, Barreto e i suoi sono ancora lì. Octavio li vede, si avvicina, cerca di fare pace ma viene ferito da tre colpi d’arma da fuoco. Il primo lo colpisce al petto, il secondo a una spalla ma il terzo lo colpisce in testa, sulla tempia. Morirà due giorni dopo, senza aver mai ripreso conoscenza.

Escobar non morì per motivi prettamente calcistici: il suo autogol avrebbe fatto crollare moltissime scommesse, bruciando grosse somme di denaro (Mike Nelson/Afp/Getty Images)

Ci sono, naturalmente, anche i carnefici. Bruno Fernandes das Dores de Souza, oggi 34enne, è stato portiere del Corinthians, Atlético Mineiro e Flamengo con cui vince il campionato brasiliano nel 2009. Nel 2013 viene condannato a 20 anni e 9 mesi di carcere per aver assassinato la sua compagna e madre di suo figlio, la modella Eliza Samudio, e aver dato il suo corpo in pasto a dei rottweiler. Proprio poche settimane fa Bruno ha ottenuto la semi-libertà ed è stato messo sotto contratto dal Poços de Caldas, club che ha sede nella regione del Minas Gerais.

L’horror tour prosegue in Europa. Lutz Eigendorf è soprannominato il Beckenbauer dell’Est. In realtà Lutz è un ottimo centrocampista offensivo della Dynamo Berlino e della Nazionale della DDR. Nel marzo del 1979 riesce a fuggire a ovest approfittando di un’amichevole fra la sua squadra e il Kaiserslautern. Una beffa insostenibile per il presidente della Dynamo, Erich Mielke, che guarda caso è anche il capo della Stasi. Eigendorf sconta un anno di squalifica e passa prima al Kaiserslautern, poi all’Eintracht Braunschweig. Il 5 marzo 1983 Lutz è coinvolto in un gravissimo incidente stradale dalla dinamica inspiegabile: senza alcun motivo apparente un grosso tir gli copre la visuale mentre sta imboccando una curva strettissima. L’auto di Lutz finisce contro un albero. Dopo due giorni di agonia il calciatore muore. Ha 26 anni. Rimangono forti sospetti su un ruolo della Stasi, nonostante nessuna condanna in seguito alle indagini.

Anche in Italia la cronaca nera ha coinvolto i calciatori. Uno dei casi più eclatanti è quello che ha coinvolto Luciano Re Cecconi, fulcro del centrocampo della Lazio che nel 1974 ha conquistato lo scudetto. Il calciatore viene ucciso la sera di martedì 18 gennaio 1977. Sono quasi le 19:30, Luciano col compagno di squadra Pietro Ghedin e il profumiere Giorgio Fraticcioli, entrano nella gioielleria di Bruno Tabocchini, in via Nitti, nel quartiere Flaminio, a Roma. Luciano ama fare scherzi, ha il bavero del cappotto alzato e urla: «Fermi tutti, questa è una rapina!». Sono gli anni del terrorismo e degli espropri proletari. Proprio l’anno prima, il gioielliere era rimasto vittima di una rapina. Così Tabocchini stavolta è preparato: estrae un revolver calibro 7,65 e spara un colpo. Luciano è centrato in pieno petto e crolla a terra. Morirà pochi minuti più tardi.

Avvolta nel mistero invece è la morte, nel 1989, del centrocampista del Cosenza Donato Bergamini. Ha 29 anni quando sulla la Statale 106 jonica all’altezza di Roseto Capo Spulico viene centrato da un tir. L’incidente avviene davanti agli occhi della fidanzata. La tesi dei giudici, sia in primo grado che in appello, è che Bergamini si sia suicidato. Perché? Varie ipotesi, ma tutte fragili. La più accreditata dice che il calciatore ferrarese sia entrato in un giro di droga. Ma i dubbi restano.

Una delle ipotesi sulla morte di Eigendorf è avvelenamento: nel documentario Tod der Verrater (Morte del traditore) si ipotizza che la Stasi abbia somministrato al giocatore una miscela di sonniferi prima di costringerlo a mettersi alla guida

I protagonisti di questi lunghi cahiers de doléances hanno un padre putativo. Un pioniere che ha segnato l’inizio di questo inquietante viaggio. Si tratta di Alexandre Villaplane, un nome che ai più dirà poco eppure ha segnato la storia della criminalità francese (e non solo). Alexandre non era uno qualsiasi. Capitano della Nazionale dei galletti ai Mondiali del 1930, centromediano metodista, tocco di palla sopraffino, è stato il primo transalpino di origine africana a vestire la maglia dei Bleus. Milita nel Nimes, poi nel Racing Club di Parigi e nell’Antibes. Ma in ogni città in cui gioca frequenta bordelli e ippodromi quasi quanto i campi di gioco. Stringe contatti con la malavita parigina, frequenta i boss. Con l’Antibes conquista il titolo nazionale vincendo in finale con il Lille. Ma si scopre che quel match è truccato e che Alexandre ha architettato tutto. Inizia la parabola discendente. Nel 1935 finisce in carcere per alcune corse truccate. Torna a Parigi e finisce di nuovo in cella, qui conosce esponenti di spicco della mala come Pierre Bonny e Henri Lafont. Quest’ultimo lo fa entrare tra le fila della Dienstelle, braccio francese della Gestapo. Durante la guerra diventa uno degli uomini di punta della Brigade Nord-Africain, un’organizzazione più criminale che militare, composta interamente da immigrati nordafricani. Si fa chiamare “SS Mohammed”. A Mussidan comanda l’esecuzione di undici partigiani. Villaplane spara, uccide, tortura donne e anziani. Lo arrestano nell’agosto del 1944. Gioca ancora, milita nell’Hispano-Bastidienne. Al Tribunale della Senna gli contestano dieci omicidi, alto tradimento e cospirazione col nemico. «Saccheggiavano, stupravano, rubavano, uccidevano ed erano in combutta con i tedeschi, con i quali compivano oltraggi ancora peggiori e esecuzioni tra le più crudeli. Hanno lasciato fuoco e rovine nella propria scia. Un testimone ci ha raccontato di come abbia visto con i suoi propri occhi questi mercenari prendere gioielli dai corpi delle loro vittime, coperti di sangue e che ancora si contorcevano. Villaplane era nel mezzo di tutto ciò, calmo e sorridente. Gioioso, quasi rinvigorito», racconta l’accusa durante il processo. Viene condannato a morte. La sentenza è eseguita il giorno di Santo Stefano del 1944 ad Arcueil. Il suo corpo viene sepolto in una tomba senza nome in un luogo rimasto a tutt’oggi sconosciuto.