L’analisi del miglior momento della carriera di Miralem Pjanic ruota attorno a un ribaltamento delle prospettive individuali e di squadra: il centrocampista bosniaco è diventato insostituibile pur non essendo mai stato ritenuto insostituibile, e tutto questo sta accadendo proprio mentre la Juventus è diventata squadra che attua un sistema con compiti e funzioni ben definiti. C’erano dei dubbi su Pjanic in questa nuovo contesto, nonostante la sua qualità assoluta e il potenziale da doppia cifra per gol e assist – effettivamente espresso nella sua ultima stagione romanista, quando raggiunse quota 10 reti e 12 passaggi decisivi –, ma questo inizio di stagione li ha cancellati tutti: così come sono state riscritte quelle gerarchie e quelle convinzioni sul centrocampo bianconero che l’estate sembrava aver cristallizzato, Pjanic è giunto, alla soglia dei 30 anni, al termine della sua evoluzione e a un passo dal consacrarsi come uno dei migliori registi al mondo.
Nato trequartista ma affermatosi ad alti livelli come mezzala di possesso per adattarsi alle esigenze del calcio moderno, il bosniaco sembra aver trovato in Maurizio Sarri il tecnico in grado di garantirgli quella dimensione da “centro di gravità permanente” necessaria alla sua definitiva maturazione tecnica e psicologica. Perché in una Juve maggiormente attenta alla qualità dell’espressione del gioco, tutto passa dai suoi piedi: 67,2 la media dei passaggi effettuati ogni 90 minuti – 229 nelle sole partite contro Brescia e Spal – 1,4 quella relativa ai passaggi chiave, con una precisione nel tocco che sfiora il 90%.
Soprattutto, Pjanic sta mostrando una verticalità e un’immediatezza nella giocata che non sembravano appartenergli. Anche perché, al netto delle inevitabili differenze con quello che gli veniva richiesto da Massimiliano Allegri – «mi diceva di cercare spesso i nostri esterni alti, ora invece devo cercare di più la verticalizzazione perché ho tanti giocatori davanti a me che si muovono bene tra le linee», ha detto qualche settimana fa – l’ex romanista non ha mai avuto i tempi del regista “classico”, in grado di organizzare e riorganizzare la manovra consolidando il possesso. La sua qualità migliore stava nella capacità di alternare i passaggi sul lungo e sul corto, esaltando la dimensione creativa del suo repertorio, un set di giocate che richiedeva velocità di piede e di pensiero diversa, non necessariamente declinabile nei termini di migliore o peggiore, ma che si traduceva in un effettivo vantaggio solo quando l’intera squadra era in grado di alzare il ritmo del palleggio in maniera organica – vale a dire una delle maggiori criticità dell’ultima Juventus di Allegri. Anche Pjanic è stato travolto da questa problematica, spesso non riusciva a esprimere la sua creatività, finendo con l’essere causa e conseguenza della mancanza di velocità e proattività della squadra bianconera.
La nuova impostazione di Sarri, ben più dei benefici portati dal passaggio al 4-3-1-2, è il dettaglio che sta facendo tutta la differenza del mondo. Per la Juventus, per Pjanic, per la Juventus di Pjanic. Derogando ad alcuni capisaldi della sua filosofia, Sarri ha scelto di mettere il suo numero 5 al centro di un sistema “liquido” che fosse al servizio di questa sua diversa cerebralità, che la esaltasse invece di limitarla. Del resto, se non si può insegnare a Pjanic a giocare e pensare come (un) Jorginho, si può insegnare al resto della squadra a giocare e pensare come Pjanic, quindi “in avanti” anche in fase di non possesso, cercando di sfruttare una migliore lettura anticipata delle linee di passaggio avversarie. Il tutto senza la necessità di sacrificare le caratteristiche di base dei calciatori migliori sull’altare del dogmatismo: non a caso, durante la sua conferenza stampa di insediamento alla Juve, Sarri disse di voler vedere Pjanic «toccare 150 palloni a partita, ma dobbiamo allenare la capacità degli altri giocatori di dargli sempre la palla».
Di qui la decisione di optare per il trequartista, ovvero un ulteriore elemento tra le linee in grado di fungere da riferimento per una verticalizzazione immediata dopo la prima costruzione, ma anche di essere il vertice di un triangolo composto da Pjanic e da una delle mezzali, per facilitare la risalita del campo attraverso scambi stretti e rapidi per vie centrali. Contro il Brescia, con Ramsey e Dybala a scambiarsi la posizione di vertice alto del rombo, Pjanic ha toccato il pallone 124 volte: 115 passaggi, di cui quasi il 38% in avanti, con una precisione da record del 95%. «Sta facendo bene», ha sottolineato Sarri dopo il successo contro la Spal, «il suo apporto a livello quantitativo è in crescita perché tocca sempre più palloni ed è importante per noi che sia in crescita anche l’apporto qualitativo, perché sta verticalizzando sempre di più».
Quanto esattamente? Stando ai dati di Wyscout, dei 473 passaggi completati da Pjanic (su 525 tentati) il 35,6% sono in avanti e l’85,6% effettuati nella metà campo avversaria. Numeri mostruosi che, più che un’inversione di tendenza dal punto di vista tattico, dicono di un giocatore pronto a diventare quello che si è sempre creduto potesse essere e che non era ancora stato. Non sempre per colpe sue. Una delle sue ultime dichiarazioni lo conferma: «Sono sempre stato un giocatore che vuole la palla tra i piedi. Far giocare gli altri mi piace molto, così come mi piace come siamo messi in campo, come sto e come riusciamo a giocare».
Non deve perciò stupire la rapidità di adattamento del bosniaco a un’idea di calcio che già gli apparteneva intrinsecamente, e che gli sta permettendo di fare la differenza sempre e comunque. Soprattutto nelle occasioni che contano: contro Napoli, Atletico Madrid e Inter – non a caso le più partite più convincenti dei bianconeri dal punto di vista tecnico e della prestazione in questo primo scorcio di stagione –, Pjanic è stato per distacco il migliore in campo oltre che quell’ideale trait d’union tra un 8 e un 10 che è poi il motivo per cui fu acquistato nell’estate 2016. Un playmaker, cioè, in grado di abbassarsi per iniziare l’azione e facilitare l’uscita del pallone, alzarsi per rifinirla e, perché no, concluderla a modo suo, sfruttando quelle qualità balistiche che non gli hanno mai fatto difetto nemmeno nei periodi dal rendimento ondivago: undici delle ultime dodici reti di Pjanic in Serie A, infatti, sono arrivate da conclusioni dalla distanza. Quello realizzativo, inoltre, è l’altro aspetto che alimenta l’idea secondo cui Pjanic sia approdato nella top 3 del suo ruolo: con i gol a Brescia e Spal il bosniaco è diventato il quarto giocatore (dopo Messi, Cristiano Ronaldo e Ibrahimovic) dei top-5 campionati europei per numero di gol da fuori area dalla stagione 2007/2008.
Il Pjanic di oggi non è un giocatore diverso. Semplicemente è quel giocatore condizionante che in fondo è sempre stato e che, eppure, ancora non riusciva ad emergere in tutta la sua complessa multidimensionalità. Un giocatore, cioè, in grado di sopperire alle relative carenze fisiche grazie alla brillantezza delle sue intuizioni e al suo saper pensare (e giocare) meglio e prima degli altri. E se a Massimiliano Allegri va il merito di aver intuito le sue potenzialità di e da regista – «Presto diventerà uno dei migliori al mondo in quel ruolo», disse il tecnico livornese in tempi non sospetti – è toccato a Maurizio Sarri mettere concretamente in pratica ciò che fino a ieri era solo talentuosa e incostante teoria.