Kid Pambelé non è stato solo un pugile, ma anche un simbolo della Colombia

Il re dei superleggeri degli anni Settanta raccontato nel libro L'oro e l'oscurità di Alberto Salcedo Ramos.

Hai guardato bene le nocche di quel figlio di puttana di un nero? […] Beh, sono delle nocche durissime e grosse, come se quello lì avesse in mano un mazzo di cinque martelliCi sono, in fondo alla Colombia, storie che non conosciamo, storie che passano il confine con il Venezuela e ritornano, storie che ci raccontano cose che non ci sono state mostrate. Sappiamo poco della Colombia, sappiamo della povertà diffusa, immaginiamo il caos di Bogotà, qualcuno che è andato in vacanza ci ha detto di quanto sia bella Medellin. Ricordiamo i capelli di Valderrama prima ancora che i suoi dribbling, ci viene in mente Higuita prima ancora che per le sue parate per il colpo dello scorpione. Sappiamo del narcotraffico, o meglio sappiamo quello che è accaduto nelle stagioni della serie tv Narcos. Molti di noi conoscono, ammirano, hanno letto i libri di Gabriel Garcia Márquez, li hanno amati. Forse è lui il colombiano più famoso di tutti i tempi, ma non è stato sempre così, ecco cosa accadde una volta: «Racconta l’ex presidente Belisario Betancur che una volta, a una riunione di colombiani a Madrid, qualcuno aveva accolto Gabriel García Márquez esclamando: “È arrivato l’uomo più importante della Colombia!”. Allora García Márquez, guardandosi intorno come se stesse cercando qualcuno sul ring, rispose: “Dov’è Pambelé?”».

Dov’è Pambelé? Dove è stato uno dei più grandi boxeur della storia mondiale fino a poco fa? Perché qualcuno non si è mai preso la briga di raccontarci le vicende di un pugile straordinario, di un uomo folle e fragile? La vita di Kid Pambelé, nome d’arte di Antonio Cervantes – campione mondiale dei superleggeri, tra il 1971 e il 1976, con una breve interruzione, dal 1977 al 1980 – era nota solo agli appassionati di boxe e, naturalmente, a tutti i colombiani. Oggi possiamo scoprirla leggendo L’oro e l’oscurità di Alberto Salcedo Ramos (Polidoro editore, 2019, traduzione di Alberto Bile) uno dei maggiori esponenti del giornalismo narrativo sudamericano. Lo scrittore colombiano ha lavorato a questo libro (apparso per la prima volta nel 2005) per circa due anni, realizzando una quarantina d’interviste, ricostruendo incontri, vita privata, fatti nascosti, traversie e eccessi di un pugile eccezionale; per capirci, uno che nella sua categoria vale Muhammad Ali, fatte le debite proporzioni storiche e di contesto sociale. Perciò, in fondo alla Colombia, dal suo passato, conosciamo oggi un personaggio in più, un uomo che ha insegnato ai suoi connazionali qualcosa che non sapevano, gli ha insegnato che potevano vincere.

Nelle prime pagine del libro leggiamo: «”Divenne oggetto di culto”, spiega Juan Gossaín, “perché fu l’uomo che ci insegnò a vincere”. “Prima di lui”, aggiunge, “eravamo un paese di perdenti. Ci consolavamo coniugando il verbo quasitrionfare. Festeggiavamo ancora il pareggio con l’Unione Sovietica ai mondiali di calcio del ’62. Pambelé ci convinse che si poteva fare, ci mostrò per sempre cosa significasse passare dalle vittorie morali a quelle reali”». La costruzione del mito, dell’oggetto di culto nasce da qui, ma il libro e quindi la figura di Pambelé è interessante, perché se la boxe ha “salvato” un paese non ha salvato lui.

Pambelé nasce in una famiglia povera, il padre, in maniera quasi disperata, in Venezuela avvicina Ramiro Machado un manager che gli domandò perché gli raccomandava il figlio. Manuel non rispose nulla circa il talento, non ne sapeva nulla, disse solo che in quindici anni non aveva dato ai suoi figli nemmeno una caramella. Il padre cercava un’occupazione per il figlio, Machado lo stette ad ascoltare e andò a guardarlo combattere, ebbe l’intuizione e la pazienza giusta e da lì tutto cominciò.

Nei luoghi dove regna la prosperità ci sono più scarpette da ballo che stivaletti da boxePambelé affrontò 21 incontri per il titolo mondiale dei superi leggeri, un numero congruo, ne vinse 18. In totale, in carriera, ha disputato 106 incontri, vincendone 91. È ancora vivo. A Salcedo Ramos interessa l’uomo perché non è separato dal pugile ma sta insieme. Nel libro troviamo dettagli degli incontri, ma troviamo soprattutto il contorno, il margine, il prima e il dopo, troviamo il lusso e la caduta. Parlano i figli, la moglie, l’amante, il manager, i medici che lo hanno curato, il tassista che lo colpì con una mazza, un donna che una volta gli tirò una zuppa bollente. Parla lui.

Gli highlights di un incontro tra Antonio Cervantes, detto Kid Pambelé, e Wilfred Benítez. In questo combattimento del 6 marzo 1978, valido per il titolo mondiale dei Superleggeri, il 30enne Pambelé fu battuto dal 17enne Benítez, che divenne il più giovane pugile a vincere un titolo mondiale

Se si cerca qualche video su Youtube si vede un boxeur leggero, dal fisico perfetto, dai movimenti fulminei e dal pugno potentissimo. Se si guardano le fotografie che sono incluse nel libro e si osservano gli occhi di Kid, di quando combatteva e di quando andava in giro come Denzel Washington in American Gangster, si noterà l’eccesso di luce, il grado di instabilità delle pupille, quasi non potessero stare ferme, quasi nascondessero un vuoto, quasi ti venissero a stanare.

Forse i suoi problemi con la droga, all’inizio, rappresentavano una maniera incosciente di cercare nuove sfide fuori dalla boxe. Perché sul ring non aveva più niente da dimostrare
Pambelé è diventato milionario e poi ha sperperato tutto. Macchine di lusso, gioielli, alcool e droghe. Ha avuto una vita più irrequieta che dissoluta. Sapeva solo combattere e godere della sua fama. Non sapeva vivere senza essere idolatrato e riconosciuto. Alle domande di Salcedo Ramos risponde nei minimi dettagli se si riferiscono agli incontri, in maniera approssimativa e sfuggente se riguardano le risse, l’aggressività da ubriaco con i familiari, i mobili distrutti negli scatti d’ira. Dalle interviste si capisce che la moglie lo perdona e che i figli, pur avendo sofferto, non lo odiano, ma preferiscono tenerlo a distanza. Hanno dovuto trovare il modo di reggere l’urto.

Cervantes durante un match negli anni Settanta: in totale, ha combattuto 21 match validi per il titolo mondiale dei superleggeri, vincendone 18

Kid Pambelé in Colombia vale Maradona, ha avuto una vita altrettanto complessa, anche lui come Diego non sarà mai un uomo comune. Tra le pagine di Salcedo Ramos si capisce che però è stato un uomo solo, divorato da sé stesso, dalla depressione, dal suo essere ossessivo e ossessionato, «disturbo affettivo bipolare» ebbe a dire il dottor Ayala che lo ebbe in cura. Disturbo aggravato dalle droghe e dall’alcool.

Un ritratto affascinante, attraverso la vita di un pugile straordinario vediamo la fragilità di tutti, di come si stia sempre in bilico, di come possa essere più facile salire su un ring a combattere che attraversare la strada sulle strisce pedonali, di come tirare pugni diventi l’unica cosa in cui riusciamo, di come volere bene e non ferire chi ci ama risulti impossibile. Pambelé è un campione che somiglia agli esseri umani, perché lo è. Come racconta Salcedo Ramos, me lo immagino da qualche parte che istighi qualcuno per strada a fare a cazzotti, o seduto in un bar da solo con una birra in mano, gli occhi nel vuoto a ricordare o a dimenticare.