Il difficile equilibrio dello sport tra diritti e regimi

Dalla Cina al Qatar, che posizione dovrebbe prendere il mondo del calcio sulle violazioni dei diritti umani?

«Come società di calcio, l’Arsenal ha sempre aderito al principio di non farsi coinvolgere in politica». Così il club londinese ha risposto alle polemiche innescate da un post del suo giocatore Mesut Özil in merito alla repressione dell’etnia turcofona e musulmana degli uiguri nello Xinjiang. La presa di posizione dell’Arsenal dice molto dei rapporti del calcio europeo con la politica internazionale, specialmente quella esterna al continente.

Perché, come molti hanno fatto notare, per un Arsenal che prende le distanze da ciò che succede nel lontano Xinjiang, c’è un Arsenal a cui sta bene che il proprio terzino Héctor Bellerín twitti contro Boris Johnson sotto elezioni. Allora, ecco la prima cosa che capiamo: parlare di politica interna ai Paesi democratici è diverso dall’andare a toccare i ricchi regimi che nel calcio riversano ingenti quantità di fondi e, oggi più che mai, tengono in piedi l’intero sistema.

La politica inglese divide più o meno equamente l’elettorato e anche i tifosi – seppur quelli dell’Arsenal siano tradizionalmente appartenenti alla classe lavoratrice londinese e vicini ai laburisti – e su questo fronte ai club sta bene difendere la libertà d’espressione dei propri tesserati. Ma, a ben vedere, l’Arsenal non ha preso posizione né nel caso di Bellerín né in quello di Özil, si è mantenuta equidistante da entrambi. Solo che, nel secondo caso, ha pensato bene di sottolinearlo immediatamente.

E il modo in cui l’ha fatto è significativo: un post su Weibo, il principale social network cinese, per precisare che il messaggio doveva essere recepito principalmente nel Paese asiatico. Ed è facile intuire perché: il caso Houston Rockets, nella Nba, è ancora fresco, e il mondo dello sport occidentale ha capito che non è il caso di far indispettire i cinesi (che, per esempio, alla Premier League stanno fruttando 235 milioni di dollari all’anno in diritti tv).

Se qualcuno sta pensando di tuonare contro lo sport di oggi, governato dal vile denaro, si fermi: non solo perché lo è sempre stato, ma perché l’economia è politica, e dietro ai soldi che la Cina fa girare nel calcio c’è una delle chiavi degli equilibri geopolitici mondiali. Anche i Paesi arabi investono tanto denaro nel football, ma questo non impedisce alla tv pubblica spagnola di rinunciare a trasmettere la Supercoppa che, nei prossimi giorni, si giocherà in Arabia Saudita, protestando contro le limitazioni ai diritti delle donne. Né impedisce al Liverpool di chiedere chiarimenti al Qatar, dove si sta giocando il Mondiale per Club, riguardo la situazione dei diritti umani, o di rifiutarsi di soggiornare in un hotel che maltratta i lavoratori.

L’offensiva turca contro i curdi siriani è iniziata il 9 ottobre 2019. In due mesi, secondo la Ong “Institute for Human Rights – Jazira” sono stati uccisi oltre 280 civili, sono stati sfollate 400mila persone, almeno 5 pozzi petroliferi sono caduti in mano ai jihadisti dell’Isis (Alain Jocard/AFP via Getty Images)

Tutto ciò, con la Cina, non sarebbe stato possibile. I paesi del Golfo, evidentemente, hanno una posizione politica più debole rispetto al colosso orientale: consapevoli di avere un’economia basata su una risorsa in rapida diminuzione, sono da tempo alla ricerca di investimenti stranieri per garantirsi un futuro indipendente dal petrolio. Sono Paesi in via d’espansione, mentre la Cina oggi è una potenza che siede al fianco di quelle occidentali e, per tanto, non accetta lezioni da nessuno.

Un caso simile, seppure su scala ridotta, lo abbiamo sperimentato con la Turchia, un altro Paese che sa di poter vantare un ruolo di primo piano in Europa per via del suo “lavoro” sul fronte migratorio orientale: alle proteste per l’offensiva contro i curdi, i calciatori della Nazionale, probabilmente su ordine governativo, hanno più volte usato il saluto militare a Erdoğan durante le partite. Un’altra prova di forza, per dimostrare al resto del continente che la Turchia non ascolta le prediche altrui. Nessun club europeo (ad eccezione del St. Pauli) ha preso provvedimenti di alcun tipo verso i calciatori turchi che hanno sostenuto pubblicamente l’invasione della Siria. E per l’Arsenal, Özil che appoggia la dittatura turca crea meno imbarazzo dello stesso Özil che critica la dittatura cinese. E questo è il secondo punto fondamentale della vicenda.

Ma la reazione cinese va ben oltre quella di Ankara: come fatto in precedenza con gli Houston Rockets, i pronti chiarimenti dell’Arsenal non sono bastati a evitare la cancellazione della partita che la tv cinese avrebbe dovuto trasmettere qualche sera fa. Il che apre a un paradosso: ha senso prendere le distanze da un tuo tesserato che critica la Cina, se tanto poi vieni punito lo stesso? È comprensibile che il club inglese volesse evitare conseguenze peggiori, ma ha finito per aggiungere una beffa al danno.

Da qui, la nostra riflessione arriva a un terzo punto, che inizia con una domanda: il mondo del calcio intende difendere i valori democratici, oppure è equidistante anche su questo fronte? Non è un problema nuovo: la FIFA non si fece remore a organizzare il Mondiale del 1934 nell’Italia Fascista o quello del 1978 nell’Argentina dei colonnelli; ha affidato la Coppa del 2018 alla Russia e la prossima si terrà proprio in Qatar. Per quanto si profonda in campagne anti-razziste, contro l’omofobia o in favore del calcio femminile, finisce poi per appoggiarsi a Paesi che non sempre concordano con le sue idee su diritti civili.

A fine luglio oltre mille persone sono state arrestate a Mosca, in seguito a una grande protesta contro il governo di Putin. Pochi giorni dopo il dissidente Alexei Navalny è stato avvelenato in carcere (Shaun Botterill/Getty Images)

E questa situazione non fa che ripercuotersi sulle federazioni locali, in cui troviamo replicate le stesse ambiguità: in Italia, abbiamo presidenti e allenatori che negano sistematicamente la presenza del razzismo negli stadi e non vengono mai puniti; in Spagna, il presidente della Liga Javier Tebas può rivendicare le sue simpatie neofasciste senza che alcun provvedimento venga preso contro di lui. La strategia preponderante del calcio europeo è la difesa dei principi generali e il disinteresse verso i casi specifici: tanta teoria, nessuna pratica.

L’apoliticità rivendicata dall’Arsenal e dalla FIFA è solo un paravento, perché qualsiasi posizione presa in merito a questioni che legano il calcio alla politica internazionale – compreso il non prendere posizione – è un fatto politico. Distanziarsi da Özil che parla dei diritti degli uiguri in Cina, significa ritenerli meno importanti dei propri accordi economici con Pechino.

Tutto ciò lo sa benissimo Gianni Infantino: nel giugno 2017, proprio lui aveva rassicurato che il compito della Fifa non consisteva nell’interferire con la geopolitica mondiale, e così dicendo rassicurava il Qatar in merito alle polemiche attorno alla Coppa del Mondo del 2022. Ma nello stesso giorno sempre la FIFA accettava la richiesta degli Emirati Arabi Uniti di rimuovere la direzione del match per le qualificazione mondiali contro la Thailandia a un arbitro qatariota: nella sua nota, la federazione internazionale si giustificava con la “situazione geopolitica” nel Golfo, gravata dalla crisi diplomatica scoppiata tra le due nazioni. Tenersi equidistanti da ciò che succede sul pianeta è un compito arduo, per non dire velleitario.

Eppure, non sempre il calcio europeo osserva inerte l’evolversi dei problemi politici nel mondo. La recente apertura – seppur ancora molto limitata – dell’Iran alla spettatrici donne negli stadi è arrivata anche grazie alle forti pressioni della Fifa. Certo, quello iraniano è il caso particolare di un Paese che, nonostante un ruolo di rilievo nel calcio asiatico, è economicamente poco rilevante, e politicamente da decenni avverso ai Paesi occidentali: è molto più facile utilizzare il pugno duro con una nazione non-amica.

Dopo un’indagine del canale televisivo tedesco WDR, nel giugno 2019 la Fifa ha ammesso che ci sono violenzioni nei diritti dei lavoratori addetti alla costruzione degli stadi del Mondiale in Qatar (Supreme Committee for the Delivery & Legacy for the Fifa World Cup Event via Getty Images)

Il percorso in tre punti affrontato finora converge su un’unica possibile conclusione: nessuno, qui, crede veramente alla favola dell’apoliticità. È solo una comoda scusa da usare quando ci si confronta con un avversario che si trova in una netta posizione di vantaggio; è catenaccio dialettico, ma senza contropiede, in cui si punta a un pareggio con cui guadagnano tutti. Al momento, in posizione di vantaggio ci sono la Cina e, in misura minore, la Turchia; il che rende l’episodio di Özil particolarmente spinoso anche per Erdoğan e i suoi rapporti con Pechino.

Ciò non significa che il calcio si pieghi sempre e comunque ai meri interessi economici. Sulla bilancia pesano ugualmente le ambizioni politiche delle nazioni e il loro “potere di ritorsione”, che definiscono i rapporti di dipendenza tra le parti in causa. Così, mentre noi discutiamo se il calcio debba sottostare o meno alle decisioni di un regime, dall’altra parte del mondo qualcuno si starà chiedendo se la Cina debba accettare o no lezioni da chi gioca a pallone. Questo gioco – che è, appunto, la politica – non ha una soluzione, semmai un’alternativa: non avere rapporti con i regimi illiberali ed evitarsi complicazioni e imbarazzi. Ma è una posizione che il mondo dello sport non sembra in grado di poter sostenere.

Ps: Contraddicendo prontamente la conclusione del pezzo, mercoledì il Colonia ha annunciato la cancellazione di un accordo da 2 milioni di euro per costruire una scuola calcio in Cina. Uno dei dirigenti del club tedesco, Stefan Müller-Römer, ha precisato che la decisione è dovuta proprio alla situazione dei diritti umani, e ha aggiunto: «Fare soldi ad ogni costo non è un’opzione, per me».