La grazia, Zidane, quel gol contro il Bayer Leverkusen

La girata al volo che decise la finale di Champions League del 2002, e che racconta al meglio quello che era ZIzou: la massima espressione artistica del calcio.

Un nuovo appuntamento di Bellissimo, la rubrica in cui, al centro del racconto, c’è un singolo momento indimenticabile: una partita, un dribbling o un gol. Potete recuperare gli appuntamenti precedenti qui e qui.

A metà anni Duemila l’industria cinematografica si era accostata al racconto del calcio, e non l’avesse mai fatto: abbiamo finito per sorbirci più e più volte la storiella paternalistica del calciatore talentuoso con poche o nulle opportunità, la presenza del villain di turno – generalmente un padre all’antica – a rendere ancora più incasinate le cose, il momento rivelatore che spianava la strada al lieto fine. Ma proprio quando meno ce lo aspettavamo, arrivò un prodotto visionario, qualcosa che non era mai stato concepito prima di allora: Zidane: A 21st Century Portrait, l’opera di Douglas Gordon, che parte da un’idea semplice – filmare Zidane e solo Zidane, in ogni singolo momento di un altrimenti dimenticabile Real Madrid-Villarreal – eppure talmente avanguardistica che, ogni volta che ci penso, meriterebbe di stare in un museo.

In quei 90 minuti – la durata della partita, appunto, o quasi, visto che Zidane fece pure in tempo a farsi espellere – e dirlo sembra quasi un’assurdità, in quei 90 minuti il calcio è sullo sfondo. L’andamento della partita, le indicazioni degli allenatori, i moduli tattici, le stesse giocate salienti: rimane tutto sullo sfondo. Al centro c’è solo il numero 5 del Real Madrid, che controllerà il pallone forse per tre, forse per quattro minuti complessivi, sicuramente per un tempo infinitamente piccolo rispetto alla durata del film. Se un alieno arrivasse sulla Terra e decidesse di avvicinarsi al calcio con questo film, cosa capirebbe? Di certo non saprebbe dire quanti giocatori ci sono in campo, e nemmeno qual è lo scopo ultimo del gioco. Non sarebbe nemmeno in grado di capire il ruolo di Zizou.

Ma in un film di questo genere – dove, essenzialmente, si riprende il corpo di Zidane per captarne l’interiorità, l’alone magico che lo circonda, e tanto alcune mirate frasi pronunciate dal francese quanto le musiche oniriche dei Mogwai accentuano la “spiritualità” della pellicola – non avrebbe potuto esserci altro protagonista. A vederlo, questo berbero allampanato dai lineamenti duri non sembrava particolarmente aggraziato. Il suo caracollare era incerto, procedeva quasi ingobbito, la testa incassata nel corpo come se gliel’avessero fissata in un secondo momento. Nel film, a volte, lo si sorprende con lo sguardo fisso nel vuoto, la maglietta fuori dai pantaloncini, tutta raffazzonata, e quell’immagine gli dava un’aria di spaesamento. Non aveva certo l’aspetto del calciatore alla moda. Poi, una volta in possesso del pallone, la magia prendeva forma. Le sue serpentine, le sue finte di corpo, i suoi cambi di direzione, il modo in cui la sfera sottostava alle sue disposizioni mistiche. Zidane era la massima espressione artistica del calcio. Nessun altro avrebbe potuto rappresentare così bene lo spirito del film.

David Winner, nel suo Brilliant Orange, scrive: «Il calcio dell’Ajax degli anni Settanta era indiscutibilmente arte. Ma quale arte? Il candidato più ovvio è il balletto. L’idea che i calciatori in generale, e Cruijff in particolare, fossero dei ballerini cominciò a radicarsi nel 1972, con l’uscita del film di Maarten de Vos su Cruijff, Nummer 14. Le immagini più indelebili sono quelle che immortalano la straordinaria grazia di Cruijff al rallentatore». Sembra scritto su misura per Zidane. Più avanti, Winner fa parlare ballerini e coreografi. Uno di loro dice: «Cruijff era un artista, aveva una velocità incredibile e un tale controllo del suo corpo e dei suoi movimenti che era bellissimo vederlo in azione». Viene raccontato che persino Rudolf Nureyev fosse un fervido ammiratore di Cruijff. «Rudolf sosteneva che Cruijff avrebbe dovuto fare il ballerino. Era intrigato dai suoi movimenti, dal suo virtuosismo, dal modo in cui riusciva a cambiare immediatamente direzione lasciandosi tutti alle spalle, e a fare tutto ciò mantenendo un controllo, un equilibrio e una grazia perfetti».

È davvero impossibile non ritrovarsi in queste parole, quando si parla di Zidane. Zizou era pura armonia: alcuni movimenti in campo sembravano innaturali, eppure riusciva assurdamente a mantenere l’equilibrio – erano gli avversari a scivolare, inciampare, ruzzolare, disorientati com’erano da qualcosa che non era plausibile nel mondo fisico. Erano delle vere e proprie prove di resistenza fisica, controllo del proprio corpo, padronanza dello spazio, il tutto in una resa esteticamente meravigliosa. Rispetto a un ballerino, però, Zidane aveva un ulteriore indice di difficoltà: le sue mosse non erano studiate, ma nascevano sul momento, in relazione agli avversari, allo spazio a disposizione, alla situazione di gioco. La sua grazia non era qualcosa di studiato a tavolino, era istintiva. Succedeva, e basta. Come quella sera del 15 maggio 2002.

Si giocava la finale di Champions League tra Real Madrid e Bayer Leverkusen. Zidane era arrivato in Spagna nell’estate precedente, e subito ebbe la possibilità di vincere un trofeo che aveva perso per due volte in finale con la maglia della Juventus. Le reti di Raúl e Lucio portarono il punteggio sull’1-1 dopo nemmeno quindici minuti. Poi, sul finale del primo tempo, Zidane riportò in vantaggio il Real. Dalla fascia sinistra, Roberto Carlos fece partire un cross – non uno di quelli in piena regola: somigliava più a uno spiovente, la palla altissima, difficile da controllare. Carlos si era ritrovato la palla rimbalzare alta di fronte a sé, e aveva deciso di colpirla immediatamente verso il centro del campo per evitare l’intervento del vicino avversario. La palla aveva preso dunque questa strana traiettoria, molto arcuata e di difficile lettura, che per un motivo davvero strano avrebbe raggiunto esattamente il piede sinistro di Zidane, fermo sul limitare dell’area di rigore.

Un pallone di quel tipo andrebbe addomesticato – e impiego il termine “addomesticato” non a caso: lo si usa quando si vuole domare una bestia senza controllo, e quella palla, con quella traiettoria, era davvero fuori controllo. Nella testa di Zidane, come solo ai grandi campioni è concesso, si era materializzato l’intero sviluppo successivo dell’azione: controllare il pallone – ammesso che ci fosse riuscito al meglio – avrebbe significato attirare su di sé due o persino tre giocatori del Leverkusen, con il rischio di perdere subito il possesso. Quando il pallone è ancora in volo, nel punto più alto in cui sovrastava l’Hampden Park di Glasgow, Zidane aveva già deciso cosa avrebbe fatto. Lo si intuisce perfettamente dai video, con il francese in una posa che non lascia dubbi: avrebbe colpito quel pallone di prima intenzione.

Quello che segue è l’epitome della grazia su un campo di calcio. Per una frazione di secondo Zidane rimane immobile, perché quel pallone è davvero molto alto, e sembra non voler spiovere più dal cielo scozzese. Zizou è in posizione di sparo, le gambe divaricate, il braccio sinistro dietro la schiena, e rimane in quella posizione piuttosto curiosa per un tempo che gli sarà sembrato più lungo del dovuto. Poi, mentre la palla finalmente si avvicina al terreno, Zidane si aziona come innescato da un meccanismo di precisione, il braccio sinistro allargato, poi subito ritratto per divaricare questa volta il braccio destro, la gamba sinistra che si muove come un pendolo e che impatta il pallone a un’altezza decisamente ambiziosa.

Nella mia memoria, quella gamba sinistra è come se si staccasse dal resto del corpo, come se roteasse attorno all’asse di Zizou. Uno slancio indelicato, troppo audace, persino pericoloso. E invece il corpo del francese, una volta calciato il pallone con una potenza e una precisione non di questo mondo, si risistema come uno di quei bambolotti giapponesi che, per quanto tu possa capovolgerli, torneranno sempre in posizione eretta. Gol. Quel movimento quasi scomposto, sbilenco, un’acrobazia decisamente al di sopra delle possibilità umane, che avrebbe costato la faccia a qualsiasi altro giocatore, in Zidane trova un’espressione di compostezza e di compiutezza. Di meravigliosa armonia, di un mondo che non è più calcio, ma è arte, un’arte prima di allora inimmaginabile.