Se facessimo riferimento solo ai numeri, la stagione che si è conclusa poche settimane fa dovrebbe aver sancito la consacrazione definitiva di Federico Chiesa: il nuovo giocatore della Juventus ha infatti stabilito tanti nuovi record nella sua ancor giovane carriera, per quanto riguarda i gol segnati (dieci), gli assist serviti (sei), il rapporto tra dribbling tentati e riusciti (2,7 e 1,5), il numero di passaggi chiave (1,5) per tocchi di palla effettuati (quasi 75) ogni 90’. Queste statistiche, però, non restituiscono pienamente le sensazioni che si provano quando si vede giocare Chiesa, un calciatore la cui crescita non sembra essere ancora in linea con le premesse e le promesse degli esordi.
Certo, il suo percorso evolutivo è stato condizionato dalla discontinuità progettuale della Fiorentina, che l’ha portato a essere allenato da quattro tecnici diversi in quattro stagioni vissute in prima squadra. Il fatto che sia dovuto cambiare per necessità, che abbia dovuto modificare il suo modo di stare in campo e adattarsi di volta in volta a sovrastrutture mutevoli – per non dire opposte tra loro – ha finito per rendere i suoi difetti marcati quasi quanto i pregi, portando a interrogarsi sugli effettivi margini di crescita e sull’impatto che potrebbe avere in una squadra come la Juventus – che, a sua volta, è alla ricerca di una nuova, precisa identità tecnico-tattica.
C’è un gol, realizzato contro la Spal nel settembre 2018, che ancora oggi può essere usato come parametro di riferimento per raccontare il gioco di Chiesa, nel bene e nel male. Dopo aver facilitato il raddoppio e il recupero palla sulla propria trequarti difensiva, tra l’altro al termine di una corsa all’indietro di 20 metri, Chiesa entra in possesso della sfera e parte a testa bassa in conduzione; punta direttamente la porta avversaria, resiste a un contrasto e scarica su Marko Pjaca pochi istanti prima che l’avversario gli chiuda ogni linea di passaggio. A quel punto Chiesa sprinta ancora, alla massima velocità, fino al limite dell’area di rigore, poi rallenta per trovare la miglior posizione possibile nella zona centrale, infine aggredisce la seconda palla, calciando di prima intenzione dopo il rimpallo.
Federico Chiesa, in breve eppure nella sua totalità
Che Chiesa non sia ancora riuscito ad andare oltre questa idea di gioco frenetica, diretta, immediata, verticale – che poi è l’unica che conosce – è il sintomo di come il miglioramento progressivo nelle principali voci statistiche non sia stato seguito da un contestuale sviluppo delle sue qualità di lettura e reazione in situazioni diverse di quelle che prevedono l’attacco della profondità, con e senza palla. Da questo punto di vista, infatti, Chiesa fatica spesso a trovare soluzioni efficaci a problemi complessi. Magari è solo perché non è mai stato abituato a farlo, magari lui e i suoi allenatori ritenevano sufficienti la sua prestanza fisica e atletica, la sua esplosività nel breve in situazioni di uno contro uno.
Proprio il dribbling, da potenziale punto di forza, si è trasformato nel simbolo della volontà di potenza di un giocatore che crea tanto, tantissimo, ma sbaglia troppo, e che ha un bisogno costante di un riferimento fisico di facile lettura (la linea laterale) per esprimere le sue qualità. Per questo Chiesa spesso è parso un giocatore facilmente arginabile, non a suo agio quando deve ricevere dietro gli avversari, occupare gli spazi alle spalle delle linee di pressione, creare superiorità numerica e posizionale entrando dentro il campo, insomma è sembrato un elemento dalla dimensione creativa limitata, sia per ciò che riguarda la rifinitura nell’ultimo terzo che per la capacità di associarsi ai compagni in fase di risalita. Le giocate che sbaglia, quindi, sono insufficienti non tanto per l’esecuzione tecnica quanto, piuttosto, per il tempismo – a causa di un numero di tocchi spesso superiore al necessario – e la capacità di scelta in relazione a ciò che gli oppone la difesa; queste difficoltà sono acuite dalla tendenza a giocare sempre e comunque sovraritmo, con una tecnica in velocità non ancora adeguata a supportare un dinamismo e una capacità di corsa fuori scala.
E anche per quanto riguarda la conclusione la situazione è più o meno la stessa: Chiesa è dotato di una grande facilità di calcio (anche con il piede debole) e possiede il giusto mix di potenza e precisione quando si tratta di calciare sia in diagonale che a giro sul secondo palo, con il pallone colpito sempre con il collo-interno del piede. Ancora una volta, però, la qualità, anzi l’efficacia delle sue giocate, è inversamente proporzionale alla quantità: l’ex viola è uno dei peggiori giocatori dell’ultima serie A per tasso di conversione delle conclusioni, sia per quanto riguarda i tiri complessivi (un gol ogni 11,2 conclusioni) che di quelli da fuori area – per vedere Chiesa segnare oltre i 16 metri occorrono in media più di 20 tentativi. Questo perché i suoi tiri sono per lo più di soluzioni forzate, affrettate, o comunque espressione di una scarsa lucidità quando è il momento di scegliere cosa fare, come risolvere l’azione.
E allora perché la Juventus ha deciso di investire così tanto su un calciatore con pregi ben definiti, ma anche con limiti chiari in alcuni aspetti del gioco, limiti che peraltro non sembrano essere facilmente levigabili nel breve periodo? La risposta va ricercate nelle caratteristiche di Chiesa, nel giocatore che è oggi e che potrebbe diventare in un sistema in cui non debba sobbarcarsi responsabilità creative superiori alle sue reali capacità. Nell’ultima stagione le migliori prestazioni di Chiesa sono coincise con le gare della Fiorentina in cui le responsabilità offensive erano distribuite tra lui, Ribery e Castrovilli; e anche il recente gol a San Siro contro l’Inter, al termine di un’azione in cui il fantasista francese ha esaltato con un bellissimo assist la qualità e la lunghezza della corsa in campo aperto del suo compagno di squadra, spiega come Chiesa sia già un elemento di assoluto valore nel momento in cui non è chiamato ad esprimersi come il regista offensivo o il rifinitore che non è mai stato – e che difficilmente potrà essere, almeno nell’immediato.
Immaginarlo come specialista del gioco in verticale nelle partite in cui si renderà necessaria un’aggressione più rapida e immediata – magari completando un tridente con Morata e Ronaldo – rappresenta il compromesso ideale tra le caratteristiche di Chiesa e ciò di cui ha bisogno la Juventus in questa fase storica. Un giocatore, cioè, in grado di dare ampiezza, cambio di passo, resistenza e dinamismo su entrambi i lati del campo – per quanto l’apporto in fase di non possesso sia calato nell’ultimo anno e mezzo, sia per quanto riguarda il numero di contrasti portati (dai quasi due di media del 2017/2018 all’1,1 del 2019/2020) che per la profondità dei recuperi difensivi.
C’è sempre un buon per rivedere l’assist servito da Ribery, ma in realtà anche il dolcissimo tocco sotto di Chiesa merita di essere apprezzato
Il discorso si fa più complesso nel momento in cui si ragiona sul rapporto qualità/prezzo dell’operazione e sui margini di crescita di un atleta che è ancora alla ricerca della sua dimensione definitiva. Del resto Chiesa è un giocatore praticamente a digiuno di calcio internazionale per club, che arriva in una squadra con un obiettivo chiaro, ovvero consolidarsi stabilmente tra le prime otto d’Europa. Perciò la Juve che scommette forte su Chiesa fa proprio una scommessa, nel senso letterale e più profondo del termine: da un lato questa operazione offre sufficienti garanzie per la Serie A, dall’altro rappresenta un’incognita per ciò che riguarda un livello di competitività ulteriore. Anche perché, considerando la composizione della rosa di Pirlo e gli schemi utilizzati fin qui dal nuovo allenatore della Juve, gli spot nei ruoli chiave sono già occupati: nel 3-4-3 spurio visto in queste prime giornate, è difficile pensare che Chiesa sia in grado di scalzare fin da subito Cuadrado, più abituato ad agire anche da terzino nel 4-4-2 in fase di non possesso, oppure che possa prendersi immediatamente la maglia da titolare sulla fascia sinistra; anche in previsione del ritorno di Dybala, poi, ipotizzare che Pirlo inserisca Chiesa titolare nei tre davanti è un po’ eccessivo, anche in virtù delle diverse qualità dell’argentino e di Kulusevski, giocatori più adatti a spezzare il raddoppio portato nella propria zona di influenza e a muoversi tra le linee spostandosi dall’esterno verso l’interno del campo.
Forse la scommessa della Juventus sta (anche) nella volontà futura di far esplodere Chiesa come esterno a tutta fascia nel 3-4-3, magari a destra con Danilo “braccetto” della difesa a tre da quel lato e Alex Sandro sull’altra corsia, così che anche il passaggio al 4-4-2 in fase difensiva non costringa Federico a snaturarsi troppo. A quel punto, Pirlo potrebbe utilizzare la corsia di destra come luogo di costruzione e di rifinitura del gioco, con Chiesa schierato vicino a un elemento con maggiore sensibilità tecnica e quindi capace di servirlo bene sulla corsa – ci sarebbero Dybala, Kulusevski, Bernardeschi. Un altro modo modo per sfruttare il nuovo acquisto fin dalle prossime partite sarebbe il ritorno a un 4-3-3 puro, basato su un sistema di isolamenti che permettano a Chiesa di puntare costantemente il diretto avversario, di farlo con sufficienti metri di campo da attaccare davanti a sé. Si tratta di un modulo che Pirlo non ha ancora provato, in cui però Chiesa ha dimostrato di poter far bene in Nazionale – seppur partendo da principi di gioco diversi. Anche per questo servirà tempo, servirà pazienza, per esplorare i limiti e le potenzialità reali di Chiesa, della Juventus, di Chiesa nella Juventus, per valutare frutti ed effetti di un matrimonio pieno di speranze, ma anche di incognite.