Tutto ciò che non va da decenni nella Uefa e nella Fifa

Il progetto della Super Lega sembra svanito tra gli imbarazzi, ma il calcio non può rimanere vittima dello status quo degli ultimi decenni.

Il calcio ha vissuto le 48 ore più imprevedibili, assurde, irripetibili degli ultimi decenni. Siamo passati dall’intravedere il bagliore di un futuro immaginifico allo smantellamento di una fortezza che si è rivelata un castello di carte, neanche troppo solido. La Super League è stata annunciata, criticata e poi smantellata in un tempo talmente ridotto che è difficile intuire se il mondo del calcio sarà in grado di tornare allo status quo ante, come se nessuno avesse visto nulla, o se questa serie di eventi avrà ripercussioni profonde sui club fondatori e sull’intero sistema. Non ci sono molte certezze al momento in cui scrivo, ma salvo altri impronosticabili cambi di rotta la prossima stagione di calcio europeo sarà molto simile a quella di quest’anno e degli anni precedenti. Sarà, cioè, quello governato dalla Uefa. L’organo internazionale, in questi ultimi giorni, è stato quasi elogiato per il suo ruolo in difesa di un calcio sano, opposto a quello dei miliardari che volevano e avevano effettivamente creato una nuova competizione: l’opinione pubblica ha quasi ridisegnato i contorni della confederazione europea quale organizzazione buona che fa il bene dei tifosi e del popolo, che difende i valori fondanti del calcio dall’aggressione dei ricchi, potenti, cattivi.

La verità è ovviamente diversa da questa visione: la Uefa non è un ente benefico, non è una onlus, non distribuisce benevolenza. È un’organizzazione che «fa i suoi interessi», Guardiola dixit, proprio come i dodici club fondatori della Super League sono stati accusati di fare solo i loro interessi. Anzi, in un certo senso è stata proprio la Uefa a propiziare la polarizzazione del calcio che ha portato i top club a scegliere di separarsi da quelli mediocri che non hanno appeal, né sono in grado di produrre ricavi (parafrasando Florentino Pérez). Lo ha fatto, per esempio, con l’istituzione di quel Fair Play Finanziario che ha funzionato solo a metà. O meglio, ha funzionato solo per qualcuno. Doveva essere un piano di austerity per tutti i club, che non avrebbero potuto e quindi dovuto spendere più dei loro ricavi, e il risultato doveva essere la riduzione del gap economico tra le società. Il regolamento prevedeva anche sanzioni sportive di un certo peso, come l’esclusione dalle competizioni internazionali, solo che la Uefa è stata severissima con i club dei Paesi più periferici, e invece più clemente con quelli di maggior lustro: la lista delle squadre penalizzate, Milan a parte, tocca solo campionati minori – le società effettivamente punite sono state Galatasaray, Stella Rossa, Cluj, Bursapor, Sion e altri nomi decisamente poco altisonanti. Intanto i top club – dal Manchester City al Paris Saint-Germain, che secondo un reportage del New York Times ha gonfiato il bilancio con sponsorizzazioni sospette mentre «La Uefa si è arresa senza combattere» – hanno speso somme enormi. Soprattutto sul calciomercato.

Una distribuzione diseguale della ricchezza che Jonathan Wilson denunciava già nel 2016, al termine di una fase a gironi di Champions League soporifera, senza la minima sorpresa, in cui le squadre più ricche avevano passeggiato sulla media borghesia europea senza patemi, proprio perché la differenza tecnica era (già) diventata abissale: «La fase a gironi della Champions è diventata noiosa. Ma se le gare sono a senso unico come spesso lo sono adesso, che senso ha?». Lo stesso Wilson però proseguiva con una frase che letta oggi sembra molto meno fantasiosa: «La Uefa è impotente, in parte perché ha bisogno dei ricavi che portano i grandi club, in parte perché ha il terrore che questi possano staccarsi per formare la propria competizione. L’avidità sta distruggendo il calcio europeo. La spietata espansione globale ha arricchito pochi a scapito di molti, e senza qualche terribile shock e qualche fallimento eccellente, che richiede un ripensamento delle basi dell’economia del calcio, è difficile immaginare che si risolva il problema in breve tempo».

L’avidità del calcio europeo di cui parlava cinque anni fa Jonathan Wilson aveva già prodotto mostri ben peggiori della Super League. È quella che porta le federazioni associate alla Uefa a fare accordi con governi autoritari per giocare la Supercoppa in Arabia Saudita (l’hanno fatto Italia e Spagna); ad allargare inopinatamente il numero di partecipanti agli Europei o a creare tornei per Nazionali che nessuno ha mai chiesto – la Nations League – con l’unico obiettivo di generare maggiori ricavi, anche se dovesse significare un carico maggiore sul fisico dei giocatori e una saturazione ingestibile dei calendari. E, a proposito di Nazionali, nella crociata contro la Super League c’era ovviamente anche la Fifa. Il presidente Gianni Infantino è quello che poche settimane fa proponeva la creazione di una Super League africana, ma quella europea, che stravolge il nucleo degli affari calcistici, no. La stessa Fifa che ha assegnato al Qatar la prossima edizione dei Mondiali, cancellando qualsiasi avamposto di etica, inclusività, integrità morale. Cosa significhi questa decisione lo si può capire leggendo questo breve passaggio di un articolo del Guardian del 23 febbraio scorso: «Da quando il Mondiale del 2022 è stato assegnato al Qatar, sono morti più di 6.500 lavoratori provenienti da India, Pakistan, Nepal, Bangladesh e Sri Lanka, impiegati nella costruzione di stadi e infrastrutture». E ci sarebbe anche un intero campionario di inchieste sugli scandali per corruzione e altri reati che hanno colpito la Fifa negli ultimi anni.

Il Mondiale in Qatar sarà il primo disputato in un Paese arabo, e il primo a giocarsi in un mese non estivo; il controverso processo di assegnazione è stato completato nel novembre 2010 (Francois Nel/Getty Images)

Nel sistema calcio che nessuno voleva veder stravolto dai progetti della Super League, e che ovviamente è frutto delle politiche federali e confederali, la sostenibilità aziendale in realtà non esiste. Tra processi, mancate iscrizioni e fallimenti, negli ultimi vent’anni le società di calcio lontane dai vertici sono sparite a ripetizione: dal 2002 sono finiti in bancarotta oltre 150 club solo in Italia. «Dal 2013 sono fallite 38 squadre, ne sono state sanzionate ben 71 dei campionati professionistici, con 271 punti complessivi di penalità». Il virgolettato è preso da un articolo di Calcio e Finanza datato luglio 2018. E che racchiude e racconta un periodo di appena cinque anni. È anche il calcio dominato dai procuratori, che da intermediari sono diventati star del sistema. Quelli che la Fifa vorrebbe limitare, ma in realtà finisce per favorire: secondo Philippe Renz, avvocato e fondatore di Sport 7, agenzia per la gestione delle carriere sportive, «La Fifa è il primo soggetto responsabile della collusione, anzi dell’illegalità che intercorre tra club e agenti, è un’organizzazione che continua a nascondere e perpetuare queste pratiche così da favorire una certa élite del calcio mondiale: con i suoi regolamenti troppo blandi, legalizza il conflitto di interessi, alimenta il rapporto incestuoso tra club e agenti e le remunerazioni illegali che intercorrono tra loro, che oggi costituiscono la fonte principale della criminalità nel calcio». Le commissioni dovute a questi professionisti del calciomercato hanno raggiunto cifre simili ai bilanci delle società: nel 2019 la Premier League ha versato circa 263 milioni di sterline nelle tasche degli agenti, la Serie A è arrivata a quota 180. Uno strapotere che è cresciuto esponenzialmente negli ultimi anni è che era diventato argomento di discussione pubblica soprattutto a partire dal 2016, quando il passaggio di Paul Pogba al Manchester United permise a Mino Raiola di incassare tre commissioni – dai due club e dal giocatore – per un ricavo totale di 41 milioni. Cifre enormi, che impattano a loro volta sui bilanci dei club.

È vero, non c’è (non c’era) granché di etico o di meritocratico nel progetto Super League o in una qualsiasi lega esclusiva che neghi l’accesso ad altre concorrenti. Ma comunque vada a finire questa storia, nata lunedì a mezzanotte e un quarto e apparentemente già finita, una cosa deve essere chiara: chi governa il calcio non lo fa come una associazione che vuole il bene dei tifosi e del popolo. Era evidente prima della Super League, e deve esserlo anche dopo, anche ora.