Il fallimento della Super Lega e i problemi del calcio futuro

Perché il progetto è fallito, quali erano gli errori e quali i meriti, e cosa non va nel sistema attuale. Intervista a Marco Bellinazzo, giornalista del Sole 24 Ore.

Nonostante sia durata pochissimo, l’avventura della Super Lega è stata incredibilmente intensa. Non solo per le enormi e violente reazioni suscitate in tutti gli ambiti della comunità internazionale, ben oltre il circolo del calcio e dello sport, ma anche per come è stato costruito e presentato il progetto: è accaduto tutto e subito, in pochi minuti si è fatta e disfatta una rivoluzione radicale che puntava a cambiare per sempre uno dei comparti di business più importanti e anche conservatori d’Europa. Quando questo fuoco si è dissolto, ha lasciato strascichi significativi, e anche questi si sono percepiti ben oltre il calcio e lo sport.

Era ed è inevitabile che un’operazione così vasta e disruptive avesse dei profondi significati e degli enormi risvolti economici. Anzi, sono stati gli stessi uomini-guida del progetto Super Lega – Florentino Pérez e Andrea Agnelli – a spiegare più volte come l’idea di creare un nuovo torneo con le 12 squadre più importanti d’Europa fosse un tentativo di «salvare il calcio» dalla crisi finanziaria, per dargli nuovi strumenti con cui fronteggiare il momento attuale e le sfide del futuro. D’altronde, la storia lo insegna: la stragrande maggioranza delle rivoluzioni sono state sospinte dagli ideali politici e finanche filosofici, ma gli obiettivi reali erano molto più pratici, per non dire prosaici.

È per questo che abbiamo pensato di chiedere qualche informazione in più a Marco Bellinazzo, firma del Sole 24 Ore, giornalista sportivo ed economico tra i più autorevoli del panorama italiano. La sua visione della Super Lega come progetto economico-finanziario non è completamente negativa: da una parte c’è la certezza che il piano presentato dai 12 club fondatori non potesse rappresentare una soluzione ai problemi del sistema-calcio; al tempo stesso, però, Bellinazzo spiega come questo tentativo volesse cambiare un sistema che in realtà non è per niente equo, o meritocratico, tantomeno funzionale. In virtù di tutto questo, e di una crisi estesa e profondissima, la Super Lega è stato solo l’inizio di una nuova fase. Una fase che sarà fatta di grandi cambiamenti, inevitabilmente.

Ⓤ: Il progetto Super Lega è nato ed è stato subito attaccato da tutti, in maniera compatta, nel calcio e oltre il calcio. Si è trattato di un accanimento giusto? 

Personalmente, devo dire che la reazione ha rappresentato davvero un unicum nella storia dei grandi cambiamenti calcistici: la nascita della Super Lega è stata definita come un golpe, un blitz, e in tanti altri modi molto fantasiosi. L’intero mondo politico, oltre ovviamente a quello del calcio e dello sport, si è schierato contro il progetto con grande veemenza. Ma la realtà è che si è trattato di un tentativo di cambiare un sistema che non poteva reggere a lungo termine già prima della pandemia, e che la pandemia ha finito per colpire proprio nelle sue enormi debolezze. Questo tentativo, però, era piuttosto discutibile, ed è stato pure presentato in maniera ancor più discutibile.

Ⓤ: Quali sono state queste debolezze?

È un problema di business model: i club italiani, inglesi e spagnoli hanno sempre avuto la tendenza a spendere più di quanto incassavano, soprattutto per potenziare il parco giocatori. Real Madrid, Barcellona, Juventus, Manchester City e tutte le altre hanno dovuto inventarsi qualcosa per riequilibrare la propria situazione debitoria, e per rispondere a un’ulteriore contrazione degli introiti dovuta al Covid. Secondo loro, la strada da seguire era aumentare i ricavi. Per farlo, hanno deciso di modificare il format della Champions League. O quantomeno: questa era la loro intenzione.

Ⓤ: Karl-Heinz Rummenigge, presidente del Bayern Monaco, ha fatto una proposta diversa: ridurre i costi, piuttosto che cercare un modo per aumentare gli introiti. È una strategia percorribile oppure no? Perché non è stata presa in considerazione prima di creare questo nuovo progetto?

Quando suggerisce questa soluzione, Rummenigge ha perfettamente ragione. Ma il modello tedesco è storicamente basato sul rapporto equilibrato tra costi e ricavi. Nel resto d’Europa, i club calcistici si comportano più come delle cicale, non si pongono dei limiti. E poi si tratterebbe di cambiare delle abitudini consolidate: una proposta del genere si scontra contro la presenza di un sindacato di giocatori e con un gruppo di agenti che rendono complicato pensare a qualsiasi tipo di taglio. Io non ho visto nessun calciatore che abbia proceduto volontariamente alla riduzione del proprio ingaggio, neanche durante la pandemia.

Ⓤ: Quindi l’unica soluzione possibile era proprio una nuova competizione che permettesse una nuova crescita del fatturato. Hai parlato di un tentativo discutibile: in che senso?

La Super Lega ha vissuto due grandi problemi comunicativi: il primo, quello che ha creato maggiori resistenze e discussioni, riguarda il sistema competitivo chiuso, o comunque semichiuso. In questo modo, è stato sacrificato il principio fondante del calcio e dello sportt: la competizione aperta. È controproducente, per la stessa industria sportiva, definire un format in cui manca la possibilità concessa ai più deboli di misurarsi con i più forti, anche se solo in teoria. Sarebbe stato più opportuno creare e spiegare fin da subito un meccanismo di ingresso basato sul merito, sui campionati vinti o sulle prestazioni nelle altre coppe europee. È mancato il vaso comunicante con altre competizioni, magari in accordo con la Uefa. In questo senso, l’accanimento contro la Super League da parte di tutti è stato più che comprensibile. Il secondo problema ha riguardato le modalità di ridistribuzione degli introiti: le risorse da destinare alla mutualità, ovvero ai club non iscritti, dovevano essere molte di più. Nel comunicato si parlava di 10 miliardi, approfondendo è venuto fuori che questi soldi rappresentavano una percentuale di ricavi su un certo periodo di tempo, per la precisione 23 anni. In totale, sarebbero 434 milioni l’anno: il 60% in più rispetto agli attuali 270 milioni garantiti dalla Uefa ai club che non partecipano alle competizioni europee – da questi soldi, però, vanno scorporati anche quelli che servono a mantenere le strutture e il personale della confederazione. Un aumento del 60%, però, non poteva bastare, la Super Lega avrebbe dovuto promettere il doppio, o anche il triplo, rispetto a quanto distribuito oggi dalla Uefa. Soprattutto a fronte di un aumento potenziale dei ricavi fino ai 3,5 miliardi prospettati.

Ⓤ: Ma questo aumento così imponente era davvero realistico?

Direi di sì: la Super League, con più partite tra grandi club, ha un appeal potenzialmente enorme. Senza le opportune garanzie, JP Morgan non avrebbe mai concesso 3,5 miliardi, che tra l’altro non erano un bonus, piuttosto un finanziamento a tassi agevolati concesso per l’avviamento del progetto. E poi c’era un secondo obiettivo tecnico che avrebbe portato a un’ulteriore crescita dei ricavi: penetrare meglio i mercati internazionali, andando a intercettare pubblico giovane che in questo momento si sta disinteressando alla fruizione classica del calcio.

Ⓤ: Perché c’è questa perdita di interesse?

L’economia dell’attenzione che si è imposta nell’ambito dello sport business e nell’entertainment fa sì che il calcio abbia dei competitor più istantanei e coinvolgenti. Ciò impone di creare un format di maggiore appeal: più partite tra grandi squadre, ma anche un nuovo modello di comunicazione che non preveda solo la fruizione della semplice partita, ma anche un nuovo sfruttamento televisivo e multimediale del gioco, attraverso formati più vicini e adattabili alle nuove piattaforme. Ma questi sono discorsi che si fanno da cinque anni, ormai. C’è un altro aspetto importante da considerare: il sistema attuale non garantisce alcun tipo di meritocrazia, anzi ha determinato l’instaurazione di un’oligarchia per cui alcuni club ricchissimi sono riusciti non solo a a imporsi e a vincere sul campo, ma anche ad accaparrarsi la stragrande maggioranza della torta economica. Neanche il modello tanto rimpianto nelle poche ore di esistenza della Super League prevede la presenza di un vero ascensore dei risultati per le società medio-piccole, e di certo non rispetta la funzione sociale dello sport.

Diverse tifoserie in Inghilterra hanno protestato contro la Super League nella giornata del 20 aprile, dal Chelsea al Liverpool. I Blues sono stati tra i primi a staccarsi poi dall’iniziativa (Rob Pinney/Getty Images)

Ⓤ: Uefa, Fifa e tutte le Federazioni, in questi due giorni, sono state dipinte come degli improbabili baluardi per “il calcio di tutti”, “il calcio del popolo”. 

È inspiegabile, perché l’attuale crisi dipende anche dai fallimenti del loro governo. Se solo i 12 club più importanti rischiano di accumulare perdite per oltre 2 miliardi, vuol dire che il sistema è veramente al collasso. E i top club hanno grandi basi azionarie o grandi proprietà che possono immettere capitale, mentre quelli meno ricchi rischiano molto di più. Magari perderanno meno soldi in senso assoluto, ma le cifre relative determinano rischi di impresa molto più elevati. In virtù di tutto questo, è inspiegabile anche il fatto che i tifosi delle squadre meno ricche stiano festeggiando per il fallimento del progetto Super Lega. Si sono schierati tutti contro il sistema chiuso quando in realtà avrebbero dovuto aspirare a lavorare insieme ai 12 fondatori, per costruire una riforma che unisca le esigenze industriali e la meritocrazia dello sport. L’operazione Super Lega è finita, ed è finta male, ma tutti i problemi restano sul tavolo. La Uefa deve capire le esigenze dei club, altrimenti il sistema rischia di implodere. E questa nuova fase di dialogo e trasformazione deve iniziare al più presto.

Ⓤ: La cosa più evidente, soprattutto dopo quanto successo con la Super Lega, è che gli attuali format delle competizioni non sono più funzionali. Ma si può cambiare senza pregiudicare il principio di competitività aperta?

Di certo non lo è la nuova Super Champions già presentata dalla Uefa. Per me il modello migliore è simile a quello dell’Eurolega di basket, e prevede licenze pluriennali ai club fondatori e poi un numero di posti assegnati per merito sportivo. Le squadre che ruotano ogni anno, che non hanno licenze pluriennali, dovrebbero dividersi una fetta maggiore degli introiti rispetto ai fondatori. E poi, ogni tre o cinque anni, potrebbe essere rivista l’assegnazione delle licenze, sempre in base ai risultati, non solo al diritto di fondazione. Magari i club che hanno creato e avviato il torneo potrebbero ricevere ogni anno il 10% dei ricavi, ma a un certo punto la loro partecipazione dovrebbe essere messa in discussione. Perché questo è un principio sacro per lo sport, l’abbiamo capito proprio in questi giorni.