Perché non riusciamo a smettere, a intervalli più o meno regolari, di cercare su Youtube video del rigore di Grosso? Perché continuano a comparirci video-compilation con i gol della Nazionale ai Mondiali in Germania, anche a quindici anni di distanza? E perché a ogni pessima figura degli Azzurri si torna lì, mentre al primo lockdown le televisioni hanno mandato in onda (ancora) le immagini del Mondiale 2006? Italia-Francia, l’ultima notte felice, da poco uscito per 66thand2nd nell’ambito della collana “Vite inattese”, prova in parte a rispondere a tutte queste domande. L’ha scritto Stefano Piri – giornalista classe 1984, nel 2020 autore di Roberto Baggio. Avevo un solo pensiero, ritratto dell’ex Divin Codino – concentrandosi sulla finale con la Francia e cercando, da lì, di capire «le dinamiche dietro la storicizzazione di un match», i motivi per cui l’esito di una partita di calcio e la narrazione successiva che ne abbiamo fatto siano così pervasivi nella nostra cultura. Insomma, la mitologia, la retorica, la distorsione e al tempo stesso i vari fantasmi – sociali, sportivi – dietro quel successo.
Ⓤ: Però la prima domanda che volevo farti, in realtà, è tecnica: di solito 66thand2nd nella collana “Vite inattese” pubblica ritratti di sportivi, come tra l’altro quello tuo su Baggio, e a me come genere sembra più in voga rispetto al racconto di un match; come sei arrivato alla “biografia” di una partita?
L’idea è di Alessandro Gazoia (l’editor del libro, nda). Forse con un’altra biografia di un giocatore mi sarei annoiato. Il bello e il difficile di questa prova è stato che, rispetto al ritratto di un calciatore, sono saltati gli schemi classici. Banalmente, l’ipotesi di una narrazione lineare, persino cronologica come lo era per Baggio pur con tutte le digressioni del caso, è venuta meno in partenza – avrei forse dovuto fare la telecronaca minuto per minuto della partita? Di più: superare il fatto che la finale del 2006 fosse anti-narrativa e per niente facile da drammatizzare – certo, c’è la testata di Zidane, ma arriva alla fine del secondo tempo supplementare – è stata la vera sfida che ho dovuto affrontare. L’ho fatto analizzando come il calcio possa essere potente, emozionante, anche quando in campo, a livello strettamente di gioco, non succede poi molto.
Ⓤ: Hai notato altre differenza nello scrivere di una partita rispetto al ritratto di un calciatore?
Rispetto a Baggio, dirò due cose contraddittorie: questo secondo libro è stato più simile a scrivere un romanzo, e più simile a scrivere un saggio. Proprio perché non sei inchiodato sul fatto in sé, hai libertà assoluta di approfondire ciò che vuoi. Avevo preparato la bozza per una quarantina di capitoli, perché davvero le storie intorno a quel match erano tantissime. Alla fine abbiamo scelto di approfondirne una decina: è anche un libro di esclusioni, questo. E spero che chi lo leggerà rimarrà sorpreso dalla mancanza di certi elementi – alcuni anche molto noti – che non erano funzionali alla mia narrazione, erano già stati ampiamente raccontati o, semplicemente, non mi interessavano. Pure perché il tema fondamentale è la storicizzazione, l’ingresso nella cultura popolare, di una partita di calcio. Cioè: come fa un qualcosa di transitorio e casuale a diventare mitologia? Su quali elementi si tramanda?
Ⓤ: Prima di arrivarci, però, parentesi: perché non la semifinale con la Germania? Nel senso: ha dei contorni molto più epici.
Non ti nego che quando mi è stato proposto di fare un libro sulla Francia anch’io, istintivamente, sono rimasto perplesso, ho pensato che in realtà si riferissero alla semifinale coi tedeschi. Ma la verità è che la partita con la Germania è un momento bugiardo rispetto al nostro Mondiale: un match che l’Italia domina, in cui acciuffa all’ultimo una vittoria che probabilmente avrebbe meritato prima. Al contrario, la finale con la Francia è veritiera: c’è la sofferenza, la resistenza, la superiorità tecnica dell’avversario pareggiata e poi rovesciata con abnegazione, sacrificio, intelligenza, fortuna. Vinciamo quel Mondiale perché abbiamo una disperata voglia di non perderlo.
Ⓤ: Ora parliamo degli elementi mitologici di quell’incontro, allora.
Tre momenti e due protagonisti, cioè Zidane e Materazzi. Anche a livello narrativo, funziona: c’è prima il gol di Zizou, quindi il pareggio del nostro difensore con entrambi che si candidano a eroe della partita; infine la testata, quasi un paradosso iconografico perché chi “vince” cade e chi “perde” resta in piedi. E poi, in generale, la sorte: nel rigore di Zidane fa in modo che la palla entri dopo aver “dato un bacino” – come dicono i telecronisti – alla traversa, quasi benedicendo la sua serata, salvo poi trasformare il tutto in un crudele scherzo del destino al momento dell’espulsione.
Ⓤ: Nel sottotitolo del libro, la chiami “l’ultima notte felice”: perché?
Perché quella sera, quel risultato e quei festeggiamenti a livello sociale hanno rappresentato un po’ la fine dell’innocenza del nostro Paese. A parte che a livello sportivo è stata l’ultima notte felice per noi e l’ultima infelice della Francia, dal punto di vista culturale segna la chiusura di un momento storico in cui eravamo bendati. Nel 2006 tutti i meccanismi di quella che chiamiamo “crisi” erano già in atto, ma non li vedevamo; l’Italia si raccontava come prospera e con delle strutture politiche ancora leggibili, per quanto perverse. Non scordiamoci che in quella partita festeggia Prodi, tornato al governo dopo cinque anni di berlusconismo: c’era illusione di normalità, alternanza, bipolarismo anglosassone almeno di facciata, col sogno della modernità e dello sviluppo. In realtà, c’era già un sistema in crollo, visto che pochi mesi prima Berlusconi aveva chiesto di invalidare le elezioni, mentre nel 2001 avevamo assistito al G8 di Genova e a ciò che ne era conseguito. E poi Calciopoli, scoppiata qualche settimana prima del Mondiale e a nascondere un vizio italiano: da una parte chi chiede l’amnistia per la Juventus perché protagonista nella vittoria finale, dall’altra chi esige comunque pene severe; nessuno, comunque, che ponga il problema di una riforma strutturale, al di là delle sanzioni. E così il declino – morale e tecnico – del nostro calcio è continuato e continua.
Ⓤ: Ci hai mai pensato, all’impronta sociale che avrebbe lasciato quella serata se non avessimo vinto?
È affascinante rispondersi che non si può dire. Dopo la semifinale con la Germania si respirava un senso di predestinazione neanche troppo fondato, sentivamo tutti che fosse destino, che fosse la volta buona.
Ⓤ: Però, come scrivi nel libro, la nostra narrazione di Italia-Francia è distorta: fu una partita di sacrificio, sì, ma la raccontiamo come l’epilogo di un percorso da predestinati assoluti.
Esatto, sì. Scrivere questo libro è stato anche un modo ricostruire la giusta memoria della partita, perché i momenti iconici sono mistificatori. Intorno alla testata, per esempio, abbiamo costruito una memoria morale per cui alla debolezza di Zidane corrisponde la sconfitta. In realtà, se Zizou si fosse presentato ai tiri dal dischetto non avrebbe certo tolto il posto a un giocatore affidabile come Trezeguet. Di certo, insomma, non è che la Francia l’abbia persa per colpa di quel gesto.
Ⓤ: Se è per questo, c’è anche da considerare il ricordo che abbiamo di Raymond Domenech, che allora era l’allenatore della Francia e considerato un ciarlatano da noi e dai francesi stessi. Un giudizio troppo tranchant?
È il grande mistero degli allenatori: come coi politici e al contrario che coi calciatori, entrano in ballo fattori come il carisma e la gestione del potere, difficilmente misurabili; è quasi impossibile dire quanto fosse davvero bravo. Quando nel 2020 è stato chiamato dal Nantes, dopo dieci anni fuori dal calcio, i tifosi francesi l’hanno accolto con la musica del circo, equiparandolo a un clown. Rivedendo Italia-Francia, in realtà, la sua squadra era molto più moderna della nostra nella fluidità dei ruoli in campo, per dire. Ed è andato a pochi centimetri dal Mondiale: l’avesse vinto lui, come l’avremmo ricordato? E che memoria avremmo di Lippi?
Ⓤ: A proposito: ma la nostra brutta figura del 2010 ha in qualche modo intaccato la mitologia di quella Nazionale? Cioè, è stata una “caduta degli dei”?
Non l’ha intaccata, anzi l’ha rafforzata. Nel 2006 ci siamo raccontati che quello che è successo fosse un qualcosa di miracoloso, qualcosa di voluto dal destino e di provvidenziale, che ci riscatta da Calciopoli e il resto. Nel 2010? Semplicemente, la “magia” era finita. E delle prestazioni così sconfortanti, in una prospettiva del genere, hanno senso, eccome.
Ⓤ: In generale, come abbiamo elaborato negli anni il ricordo della vittoria?
La ritiriamo fuori a ogni fallimento degli Azzurri, ci stiamo davvero attaccati. Col tempo è diventata un ricordo pericoloso, perché immagine di un’Italia che anche se sbaglia, se ha comportamenti discutibili sul piano morale, alla fine la scampa. Una visione auto-indulgente. Anche per questo nel libro ho preferito cercare altri tipi di storie, come quelle di Materazzi e Fabio Grosso, simbolo di un Paese che vince quando è davvero umile. Bisognerebbe organizzare dei seminari sul concetto di umiltà: si porta dietro dei valori cattolici secondo me fuorvianti, ma con l’accezione giusta – cioè senza minimizzarsi e senza la retorica trita, ma approcciando le cose col giusto rispetto – è fondamentale. La Nazionale del 2006 è un simbolo di tutto ciò.
Ⓤ: Nonché, con le distorsioni del caso, un fantasma per le successive.
Questa di Mancini mi sembra la prima libera dal paragone, perché ha un’idea di gioco diversa e vincente. Ma sono convinto che, qualora le cose alla lunga andassero male, il fantasma tornerebbe, sempre con le sue fattezze morali dickensiane. Spiace che i nomi del 2006 siano diventati un metro di paragone per ogni gruppo che si è formato dopo, a fronte di risultati puntualmente deludenti. Addirittura, si è creata una retorica sugli “uomini”, del tipo “non siete neanche uomini come quelli del 2006”. In realtà nessuno nega che fossero – se vogliamo usare questo termine orribile – “uomini di valore”; semplicemente, il clima che c’era all’epoca con Calciopoli è stata una molla straordinaria che le Nazionali successivi non hanno avuto. Il 2006 è un incrocio di situazioni irripetibile, unico. Ma del resto i bei ricordi sono sempre anche brutti: dentro un ricordo – per il fatto stesso che è un ricordo, e quindi è passato – c’è sempre una componente di dolore.