Qatar 2022 vuole far causa a una rivista norvegese per un’inchiesta sui lavoratori in Qatar

Un ex funzionario di Qatar 2022 è stato condannato a cinque anni di reclusione, ma ci sono dei sospetti sulla veridicità delle accuse e sulla regolarità del processo.

La Scandinavia, non solo quella calcistica, è l’epicentro delle proteste contro l’assegnazione e la disputa dei Mondiali in Qatar. La fase finale comincerà tra poco più di un anno, ma da molto tempo in Svezia, Danimarca e (soprattutto) Norvegia si susseguono manifestazioni di protesta e dissenso nei confronti dell’emirato, soprattutto in relazione al mancato rispetto dei diritti umani e dei lavoratori migranti. Forse è anche per questo che tutto ciò che succede proprio in Norvegia finisce nel mirino degli organizzatori della Coppa del Mondo, e anche un articolo può creare un caso diplomatico e giudiziario. È successo alla rivista Josimar, che ha ricevuto una lettera di diffida dallo studio legale norvegese Simonsen Vogt Wiig – rappresentante del comitato organizzatore di Qatar 2022 per il Paese scandinavo – in merito a un’inchiesta dal titolo “The trial of Abdullah Ibhais”, che potete leggere a questo link in versione integrale.

Nell’articolo, firmato da Håvard Melnæs e pubblicato il 25 ottobre 2021, si parla per l’appunto di Abdullah Ibhais, ex collaboratore del comitato organizzativo dei Mondiali – il suo ruolo era di media Manager all’interno del dipartimento marketing. L’inchiesta si apre con alcune domande retoriche su Ibhais «È stato condannato a cinque anni di carcere con accuse inventate perché difendeva i lavoratori migranti in Qatar? E l’intera vicenda è stata orchestrata dal suo ex datore di lavoro, vale a dire l’organizzazione responsabile della Coppa del Mondo 2022?». Il riferimento di Josimar va a un procedimento giudiziario che si è concluso il 29 aprile 2021 con la pronuncia del tribunale sulla colpevolezza di Ibhais e una conseguente condanna a cinque anni di reclusione, oltre al pagamento di una multa di 41mila dollari americani. I reati riconosciuti sarebbero «corruzione», «violazione dell’integrità delle offerte e dei profitti» e «danno intenzionale ai fondi pubblici». Secondo l’accusa e la sentenza, Ibhais avrebbe cercato di non insabbiare la vera natura delle proteste dei lavoratori migranti impegnati nei cantieri per i Mondiali, che all’inizio del 2019 raccontavano di essere costretti a vivere in condizioni disumane e di non ricevere i loro stipendi.

In seguito, dopo alcuni contrasti con i vertici del suo stesso comitato, Ibhais è stato arrestato e poi – secondo la ricostruzione di Josimar, che cita dei report di diverse associazioni umanitarie, tra cui Human Rights Watch e FairSquare – sarebbe stato sottoposto a pressioni indebite perché firmasse la sua confessione; inoltre, non gli sarebbe stato concessa la possibilità di avere un avvocato, né tantomeno di avere contatti con la sua famiglia. All’articolo di Josimar sono allegate delle registrazioni audio e delle trascrizioni di chat, tutti elementi tratti dalle conversazioni WhatsApp intercorse tra Ibhais e alcuni suoi colleghi, che in qualche modo chiarirebbero quanto successo – e sottolineerebbero la discutibile regolarità della procedura d’arresto e del processo nei confronti di Ibhais. L’autore dell’inchiesta, nelle ultime righe del suo lavoro, ha chiarito di «aver posto diverse domande al comitato, senza ottenere alcuna risposta», però ha allegato una dichiarazione, inviatagli dallo stesso comitato, in cui viene ribadita la loro buona fede e la gestione trasparente dell’intera vicenda.

La lettera inviata dall’ufficio legale sostiene che l’articolo in questione sia «diffamatorio» e «irrispettoso di diverse leggi», con riferimento alla pubblicazione impropria di informazioni riservate e personali – vale a dire gli audio e le trascrizioni delle conversazioni WhatsApp. Secondo il comitato, la ricostruzione di Josimar si basa su «stralci di comunicazione interna presi fuori contesto», anche perché «il comitato è impegnato per il benessere dei lavoratori e ha adottato importanti misure per migliorare le problematiche sorte nel corso del tempo». La parte più importante della lettera riguarda «il diritto di chiedere la rimozione di articoli diffamatori» e la possibilità di «chiedere un risarcimento di qualsiasi perdita subita a causa della pubblicazione di informazioni non in linea con una condotta giornalistica impropria». Allo stesso tempo, però, il comitato si dice «disponibile ad accettare che l’articolo resti fruibile dal pubblico se verranno eliminati gli audio e i pdf che riportano stralci delle conversazioni WhatsApp, perché questa violazione della riservatezza altrui non può essere accettato».

La rivista Josimar ha pubblicato la lettera ricevuta dallo studio legale. E per tutta risposta – firmata dall’autore dell’articolo – ha annunciato che non apporterà modifiche al testo, tantomeno rimuoverà gli allegati: «Abdullah Ibhais, padre di due figli, è stato condannato a cinque anni di carcere con accuse inventate. E non sono state prodotte prove contro di lui, neanche in tribunale. Questo dovrebbe preoccupare profondamente qualsiasi studio legale serio. Inoltre, non esiste una cosa come la libertà di stampa o di parola in Qatar. Ma le cose in Norvegia sono diverse. Il codice etico della Norwegian Press recita, all’articolo 1.4: “È diritto della stampa fornire informazioni su ciò che accade nella società e scoprire e divulgare questioni che dovrebbero essere soggette a critiche”. In virtù di questo, è evidente che è in corso una minaccia alla libertà di stampa di una rivista norvegese da parte di uno Stato autoritario. E per questo non abbiamo intenzione di cambiare nulla della nostra inchiesta».