Manuale di autodistruzione della Roma

Da Monchi a Petrachi, tutti gli errori che hanno portato al ridimensionamento della società giallorossa.

Ogni impresa contiene già il seme della propria futura disfatta. Perché vittoria e caduta sono annodate l’una all’altra. Indissolubilmente. Il trionfo è per sua stessa natura un concetto episodico. Non si può eternare, ma solo dilatare nel tempo. È l’idea speculare a quella di fine. Qualcosa di procrastinabile, ma che resta comunque ineluttabile. La grandezza sta nell’ampliare quel delta, nel mettere più unità di tempo possibili fra luce e abisso. Il punto più alto della storia recente della Roma ha gli occhi espansi di Kostas Manolas: il 10 aprile del 2018, il difensore greco corre sull’erba verde dell’Olimpico, le braccia spalancate, i palmi aperti, la bocca deformata da un grido che suona muto, perso nell’ambiente circostante. Quello che ha appena realizzato non è un gol, ma una sentenza. Il greco ha fissato il risultato sul 3-0. Il 4-1 subito a Barcellona è ribaltato. Significa semifinali di Champions League. Vuol dire sognare un posto stabile fra le grandi del calcio continentale.

È un incubo travestito da sogno. Perché è proprio in quella serata che inizia il processo di dissoluzione dei giallorossi. La doppia sfida contro il Liverpool è un pugno allo stomaco. Prima della gara di Anfield, l’allenatore Eusebio Di Francesco si presenta in conferenza stampa. «Nello spogliatoio sappiamo come gioca Salah», dice. «Ho già preparato molte partite contro di lui», garantisce. Il campo racconta una storia diversa. L’egiziano è imprendibile. Segna una doppietta. Così come Firmino. Alla fine il tabellone luminoso dello stadio di Liverpool è impietoso: è 5-2 per i Reds. I miracoli si compiono una volta sola. Altrimenti diventano prestidigitazione. Al ritorno la vittoria giallorossa non si trasforma in rimonta: la Roma si impone 4-2, ma è fuori dalla coppa. È una delusione che accelera quel processo di disgregazione iniziato circa un anno prima prima, quando James Pallotta aveva deciso di cambiare il demiurgo della sua Roma. Addio Walter Sabatini, benvenuto Ramón Rodríguez Verdejo, detto Monchi. L’arrivo dello spagnolo nella capitale era stato salutato come una garanzia sulle ambizioni future del club. Anche perché quello che aveva fatto con il Siviglia lo aveva trasformato in un rabdomante del talento, in una rockstar.

Per la prima volta l’arrivo di un direttore sportivo aveva avuto la stessa narrazione riservata all’acquisto di un grande centravanti. Monchi aveva smesso di essere persona, era diventato personaggio. I suoi occhiali a specchio e le sue giacche sportive erano diventati il simbolo di un successo scritto a modo suo. Monchi come il Capofortuna di Rino Gaetano: «Sembra immortale ma è come noi». Qualche tempo dopo, Walter Sabatini commenta: «Lo spagnolo è stato presentato come un autore di grandi gesta, lo confermo e lo sottoscrivo, ma lui viene presentato oggi come un deus ex machina, un uomo infallibile». Sembra invidia. Invece è fredda cronaca. Nella sua conferenza stampa Monchi mitraglia un aforisma dopo l’altro. «Il problema maggiore nel nostro lavoro non è vendere, ma comprare male», dice. E ancora: «La Roma non ha un cartello su cui è scritto si vende, ha un cartello in cui c‘è scritto si vince. Nessuno è cedibile, nessuno è incedibile. Sul mio metodo di lavoro, poi, ci sarebbe bisogno di un’intervista a tu per tu». Il problema è proprio questo. Perché la fiducia nel proprio metodo, che nel frattempo viene codificato anche in un libro, diventa benzina per l’autocombustione giallorossa.

La Roma americana è una squadra che balla intorno a un totem chiamato plusvalenze. Ogni anno un pezzo pregiato viene sacrificato sull’altare del mercato. Serve a evitare ricapitalizzazioni. Serve a finanziare il mercato per continuare a vivere al di sopra delle proprie possibilità. Monchi è l’uomo che deve trasformare questa tendenza in arte, che deve garantire un futuro lussureggiante alla rosa giallorossa. Solo che la sua opera si trasforma in una scarnificazione continua del talento giallorosso. La prima sessione di mercato giallorossa assume i contorni del film horror. Via Rüdiger, via Paredes, via Salah – sì, quel Salah. L’egiziano viene spedito al Liverpool in cambio di 50 milioni di euro. Sembra una cifra esosa. Solo che qualche giorno dopo Neymar passa al PSG per 222 milioni. I parametri del calciomercato, insomma, vengono riscritti in poche ore. E allora ciò che era una soddisfazione diventa inevitabilmente rimpianto. Anche perché sostituire Salah si rivela molto più difficile del previsto. Monchi pensa di avere in mano Riyad Mahrez. Tutti lo danno vicino ai giallorossi: le radio, i siti, i giornali. Solo che l’algerino si tira indietro all’improvviso. Lui resta a Leicester, almeno per un altro anno.

La Roma ha bisogno di un Piano B. Che prende le sembianze di Grégoire Defrel. L’attaccante del Sassuolo prende la maglia numero 23. Come a voler ricordare i milioni che sono stati spesi per acquistarlo. Qualcuno solleva qualche perplessità: nel 4-3-3 di Di Francesco, il francese giocherebbe da adattato. Ma in fin dei conti un panchinaro potrebbe sempre fare comodo. In una stagione, Defrel giocherà 15 partite. E segnerà solo un gol. Su rigore. Perché Dzeko gli offrirà la possibilità di sbloccarsi. Anche gli altri acquisti faticano. Arrivano Héctor Moreno, Gonalons, Ünder, Karsdorp e Kolarov. Solo il serbo riuscirà a ritagliarsi un posto importante, prima di esaurire la propria spinta e accasarsi all’Inter. Il grande problema è un altro. Perché, pur di riempire il vuoto in attacco, Monchi sconfessa uno dei pilastri del suo credo: non si acquistano calciatori infortunati se non a un prezzo più che vantaggioso. L’andaluso decide di puntare su Patrik Schick. Piccolo problema: il ceco non è un esterno, ma una seconda punta. Altro dettaglio: l’attaccante non ha superato le visite mediche con la Juventus. Monchi decide di puntarci 42 milioni di euro. È un problema tecnico che si risolve in un problema di cifre. L’attaccante più costoso nella storia della Roma segna cinque reti in campionato in due stagioni. Ma viene consegnato all’immortalità per aver calciato su Wojciech Szczesny il pallone del possibile pareggio giallorosso in casa della Juventus.

La seconda campagna acquisti di Monchi è finanziata con tre cessioni eccellenti: Alisson, Nainggolan e Strootman. I tre hanno in comune un dettaglio: sono tutti acquisti di Sabatini. E ora fruttano quasi 140 milioni di euro. Una montagna di quattrini. A cui vanno aggiunti a che i guadagni della bella cavalcata in Champions League. La Roma può spendere. E lo fa malissimo. Monchi ripete con Malcolm lo stesso errore che aveva fatto con Mahrez. E se lo fa soffiare dal Barcellona. Col senno di poi è è un pericolo scampato. Ma, intanto, questa operazione fallita obbliga il direttore sportivo a forzare la mano: arrivano Mirante, Olsen, Fuzato, Marcano, Santon, Coric, Cristante e Kluivert. Il centrocampista dell’Atalanta e l’ex portiere del Parma sono gli unici a offrire un contributo importante. Gli altri falliscono tutti. Miseramente. Monchi acquista Bianda per 6.5 milioni. Nessuno lo ha mai sentito. E verrà considerato inidoneo anche per la Primavera. Per le casse della Roma è piombo che neanche l’arrivo di Zaniolo riesce a controbilanciare. Gli acquisti di Nzonzi e Pastore non sono cervellotici: sono inspiegabili. Come può, una squadra che vive di plusvalenze, spendere quasi 60 milioni due giocatori che oscillano intorno ai 30 anni, che hanno stipendi altissimi e che non offrono garanzie fisiche? È un disastro annunciato. Nzonzi diventa subito un costosissimo esubero. Pastore un orpello con un contratto fino al 2023.

Nelle sue tre stagioni alla Roma, Javier Pastore ha accumulato 37 presenze e quattro gol in gare ufficiali: meno di un campionato intero (Paolo Bruno/Getty Images)

Il disastro dell’esperienza di Monchi a Roma è raccolto in un dato: ha preso una squadra al secondo posto in classifica e l’ha lasciata al sesto. Con 24 punti di distacco dalla Juventus. Per ripartire, la Roma sceglie Petrachi. La sua prima conferenza stampa ha contorni surreali. «Vogliono Dzeko? Portino il grano», dice il nuovo ds. Il problema è un altro. L’eredità di Sabatini è stata dissipata. Completamente. L’unico uomo a garantire una buona plusvalenza è Manolas. Che sceglie di andare al Napoli. È il segnale che il progetto della Roma americana è entrato nella fase discendente della sua parabola. Anche perché come parziale contropartita tecnica la Roma sceglie Diawara. Uno che faceva il panchinaro fisso a Napoli e che avrebbe fatto il panchinaro fisso anche a Roma. I giallorossi si ritrovano improvvisamente impantanati. Non possono più finanziare gli acquisti tramite le cessioni. Perché non è rimasto più nessuno di appetibile. I pochi liquidi rimasti vengono impiegati per comprare Pau López, che giocherà due annate da incubo con tanto di autogol al derby in stile Mauro Goicoechea, e Jordan Veretout. Per il resto si deve ricorrere ai prestiti. Che poi dovranno essere riscattati. Il rapporto di fiducia fra Petrachi e Pallotta si consuma subito. In un mondo iperconnesso e iper specializzato, il ds ha detto che alla base della rottura ci sarebbero stati ostacoli linguistici: «Alla radice c’è una mancata comunicazione tra me e Pallotta. L’ho visto due volte in tutto. Al telefono non parlavamo mai, io non parlo inglese. Sono pigro e poi non ho un bel ricordo della mia parentesi inglese».

Cambiano i dirigenti, non i risultati. La Roma diventa anno dopo anno meno competitiva, non riesce più ad arrivare per prima sui giocatori più interessanti. O forse, semplicemente, non le interessa più. I nomi pesanti a prezzo d’occasione hanno la priorità. Mkhitaryan diventa un raggio di luce. Così come Smalling. Solo che poi l’inglese si trasforma in un abbaglio. Il suo acquisto è un tira e molla che riempie l’estate 2020. La Roma è sicura di poterlo acquistare a prezzo di saldo. Lo United è sicuro di poterlo vendere a prezzo pieno. Si va avanti all’infinito. Fino a quando i giallorossi non decidono di staccare un assegno da più di 15 milioni per un calciatore di 31 anni. L’inglese gioca 16 partite nella stagione successiva. In questa è ancora fermo a due. È un disastro. Così come l’acquisto di Reynolds. Così come l’acquisto di Kumbulla. Così come l’acquisto di Carles Pérez. Anche Villar, uno che sembrava poter ambire a una big, si è avvitato su sé stesso.

Dopo un periodo di autarchia sul mercato, con Fienga che aveva preso il posto di Petrachi, a gennaio 2021 la Roma ha assunto Tiago Pinto. Il suo spazio di manovra è stato compresso anche per la pesante eredità con cui si è trovato a fare i conti. In poco più di quattro anni, infatti, i giallorossi hanno speso più di 260 milioni di euro in giocatori che non hanno reso secondo le aspettative – Reynolds, Cetin, Diawara, Olsen, Bianda, Santon, Coric, Nzonzi, Pastore, Kluivert, Gonalons, Ünder, Defrel, Schick, Carles Pérez, Pau López. Una gestione piuttosto allegra delle finanze societarie che ha riportato indietro la Roma di diversi anni. Quello che nel 2018 sembrava il club italiano con la più spiccata vocazione internazionale, ora si è ritrovato a vestire i panni della squadra di seconda fascia. Un caso che andrebbe studiato. Un vero e proprio manuale di autodistruzione di una big.