C’è nell’immaginario di chiunque la scena archetipica di quel ragazzino che arriva al campetto – di calcio o di basket o di qualsiasi altro sport – con le scarpe nuove lucide e molto costose, e i calzettoni tirati su fino al ginocchio anche se tutti usano le calze normali, e i parastinchi cromati anche se nessuno usa nemmeno i parastinchi, e magari pure i pantaloncini e la maglietta sono nuovi di chissà quale squadra che non si trovano però alla Decathlon ma bisogna ordinarli su internet e costano parecchio. A volte si presenta con il pallone direttamente, naturalmente anche il pallone è di quelli che costruiscono orbite spettacolari se colpiti sul punto giusto, pezzi di tecnologie aerospaziali progettati in laboratori segreti sulle Dolomiti, e portare il pallone è come portare una bustarella: ve lo presto, ma gioco pure io. Gli altri dicono ok, intimoriti da tutto quello scintillio, e trovano il modo di far giocare il ragazzino. Che però si rivela scarso, incapace di giocare con gli altri, capriccioso, e la cosa finisce male per tutti, lui che si offende, gli altri che lo sfottono, e quelle scarpette e quel pallone e quei parastinchi finiscono solo per peggiorare la situazione. Questo è l’archetipo. Questo è il Paris Saint-Germain.
Dal paragone tra la scenetta di prima e la partita persa contro il Real Madrid andrebbe emendata tutta la parte che gira intorno a un certo revanscismo di classe naturalmente, un po’ perché nel calcio trovare favole veramente working class agli ottavi di Champions League è praticamente impossibile, un po’ perché in realtà davanti al PSG c’era proprio il Real Madrid di Florentino Pérez, la squadra che si fregia del titolo di Galácticos perché capace di attrarre a suon di brillocchi e stipendi stratosferici i più luminosi talenti del mondo, la squadra che quest’estate era pronta a dare proprio ai francesi più o meno 180 milioni di euro per Kylian Mbappé e 50 milioni all’anno a lui. Ma quello che rimane è che ieri in campo c’era una squadra che nel campetto della storiella ci sa stare e ci sta da sempre, tra alti e bassi (pochi, va detto), e una che proprio non sa come ci si comporta. Né dentro le righe bianche né fuori.
Per quanto ci si sforzi di trovare un’interpretazione deterministica al calcio, ci sono cose che non si possono spiegare con il meccanicismo e i rapporti di causalità, e la partita tra Real Madrid e Paris Saint-Germain lo prova. È la stessa cosa di quando Massimo Moratti comprava il meglio del mondo per l’Inter, e poi l’Inter non vinceva. È in parte pure quello che sta succedendo a Manchester, sponda United naturalmente. È qualcosa di magico che nel mondo iper razionale di oggi ci fa un po’ strano pensare e allora diciamo che è un je ne sais quoi, a Roma da qualche decennio si chiama invece ambiente, è quel risultato di energia emanata da persone che sanno cosa vuol dire giocare a calcio per vincere, voler vincere e volerlo fare come una squadra. Mi rendo conto che ci sia il rischio di scivolare in certe parodie di Al Pacino con musica tipo Il Gladiatore in sottofondo, ed è per questo che non si dovrebbero descrivere queste cose, perché la magia, gli spiriti non sono fatti per essere compresi.
Ieri lo spirito del calcio, diciamo così, ha accompagnato il Real Madrid a una vittoria meritata, straordinaria, eroica per come si è sviluppata. C’è un sacco di simbolismo nel protagonista e nell’antagonista della partita di ieri: Benzema, l’attaccante forse più sottovalutato di questo decennio – non dagli allenatori, ma da quest’altra identità volatile che chiameremo hype – che è rimasto al Real Madrid resistendo a ogni voce di mercato che voleva a scalzarlo Neymar, Haaland, Mbappé, uno che non se n’è andato e che ha continuato a segnare e giocare senza parlare mai, che è sì stato un vero villain romanzesco, di quelli parecchio cattivi per la storia dei ricatti al compagno di Nazionale, che si è poi redento senza troppe parole, Benzema che segna una tripletta a Gigio Donnarumma, che è il contrario di lui: quello che ha lasciato il club in cui è cresciuto e che l’ha reso grande (e che ha contribuito a far tornare un po’ grandicello, va detto) andando a Parigi solo in cerca di soldi, sbeffeggiato qualche giorno fa dagli account social del Milan che hanno scritto: «Oggi è il compleanno di Gigio Donnarumma» senza scrivere manco mezzo augurio, insomma il giocatore che agli occhi di moltissimo pubblico incarna i grandi mali del calcio contemporaneo.
Ci sarebbe anche il deuteragonista, anche lui personaggio straordinariamente simbolico, scisso tra Parigi e Madrid, che è l’unico che sembra voler davvero vincere, l’unico che sembra sapere cosa significa, Kylian Mbappé, e ci si impegna come per spezzare una maledizione e sembra pure farcela, e poi invece si fa travolgere come tutti dall’inevitabile destino. E però vuole anche scappare da Parigi, perché ha capito Mbappé che per vincere, come si dice nel calcio, bisogna andarsene via e andarsene forse proprio a Madrid.
E poi c’è tutto il contorno che rende il possibile film sulla partita di ieri anche e soprattutto tragicomico, più che epico: intanto Neymar che prova a picchiare proprio Gigio, dicono le voci di spogliatoio, ma soprattutto la figura di Nasser Al-Khelaïfi. Presidente del Paris Saint-Germain ma anche del fondo sovrano Qatar Investment Authority, ministro dell’emiro al-Thani, accusato di uno scambio di favori con la Fifa per l’assegnazione dei diritti televisivi dei Mondiali 2026 e 2030 alla sua conglomerata media BeIN Sports, sospettato anche se in modo sommario e un po’ giustizialista di essere un’ombra oscura dietro l’assegnazione sempre dei Mondiali al Qatar, e ancora odiatissimo da tutti perché spalla di Ceferin e di Blatter e di Infantino ma pure gonfiatore del mercato con miliardi su miliardi che hanno reso il Parco dei Principi un museo di figurine costosissime, insomma questo Nasser Al-Khelaïfi che dopo la partita sbrocca completamente e come il dottor Stranamore con quel braccio destro che scatta pavlovianamente va a minacciare l’arbitro direttamente nella stanza degli arbitri e spezza anche una bandierina o un accessorio del direttore di gara e urla «ti ammazzo!» a un tizio che stava riprendendo il tutto.
Sempre ieri, nel dopopartita, Giuseppe Pastore tirava fuori su Twitter una meravigliosa clip video di quando Al-Khelaïfi era tennista, perché lo è stato davvero, sempre in modo poco sportivo, cioè comprandosi una wild card per lo scomparso ATP austriaco del 1996, e si faceva regalare l’unico game del torneo dall’ex numero 1 Thomas Muster, che fingeva di mancare le risposte come fanno i papà quando il figlio quattrenne calcia verso la porta e loro devono fargli fare gol. E Nasser si rende conto che tutti ridono sugli spalti per quella sceneggiata ubermacchiettistica e allora ride anche lui, esulta forse prendendosi in giro, perché non si può non essere autoironici quando tutto è così enormemente umiliante, ma il dubbio che lui non lo sappia alla fine rimane.