Le cose da salvare e quelle da buttare

Un ragionamento a freddo all'indomani del fallimento dell'Italia che non va ai Mondiali per la seconda volta di fila. Il movimento, i giocatori, e come ripartire.

Nei minuti in cui ho realizzato che l’Italia non avrebbe partecipato ai Mondiali, che stava succedendo di nuovo, ho pensato a una cosa che dissi d’istinto ad alta voce alla fine di Italia-Svezia 0-0, quattro anni e mezzo fa: «Non credevo che avrei mai visto una cosa del genere, nella mia vita». Ora che ho provato di nuovo le stesse sensazioni, è difficile – diciamo pure impossibile – pensare e scrivere qualcosa che non sia apocalittico, riguardo la Nazionale. In più, questa volta c’erano delle cose che, col senno di poi, percepisco come aggravanti: la qualità della Macedonia del Nord che ha battuto gli Azzurri era nettamente inferiore a quella della Svezia che pareggiò 0-0 a San Siro dopo aver vinto 1-0 a Stoccolma; e poi questo (primo) spareggio si giocava in partita secca, in casa, in uno stadio caldo e amichevole, lontano dal grande calcio e quindi non sporcato da cose che non c’entrano niente con la Nazionale ma con le antipatie dei tifosi dei club per i propri ex giocatori – mi riferisco ai fischi riservati dal pubblico di Milano a Gigio Donnarumma che ho sentito quando sono andato in curva a vedere Italia-Spagna 1-2, semifinale della Nations League: era qualche mese fa, e ora sembra passata una vita.

Ecco, ripenso proprio a Italia-Spagna 1-2 e ricordo che quella Nazionale, seppur in dieci uomini per più di un’ora e poi battuta meritatamente da un grande avversario, aveva le fiamme negli occhi. Non giocava bene come agli Europei, era andata in svantaggio e aveva subito il possesso avvolgente della Roja di Luis Enrique per tantissimi minuti, ma era una squadra tatticamente e tecnicamente e fisicamente valida, in grado di spaventare i suoi avversari, di produrre calcio con leggerezza e serenità; poi le prestazioni e (soprattutto) i risultati sono spesso inficiati anche da altri fattori, però c’era una sensazione di competitività che non poteva far presagire il disastro cui abbiamo assistito, per di più c’era già stata anche Italia-Bulgaria 1-1 – il vero momento di svolta negativa, la gara che ha compromesso la qualificazione diretta ai Mondiali – e gli Azzurri sembravano comunque vivi, inferiori alla Spagna ma tranquillamente in grado di battere le Svizzere e le Irlande del Nord del caso. Figuriamoci le Macedonie del Nord.

Ieri sera, mentre riflettevo su quanto fosse crudele questo giro sulle montagne russe dopo la vittoria degli Europei e anche dopo una partita come Italia-Spagna 1-2, mi sono imbattuto in decine di editoriali, tweet, commenti e post che collegavano la sconfitta con la Macedonia con tutto ciò che non va nel movimento calcistico italiano. Non si può negare che la Serie A, la Federcalcio, la Lega e perfino alcuni club del nostro Paese abbiano dei problemi di visione, di governance, di funzionalità economica e persino di etica civile – penso al razzismo, all’omofobia, alla convivenza e alla connivenza con gruppetti di tifosi violenti – a dir poco significativi. E non si può non pensare che gli errori commessi da chi guida il carrozzone finiscano inevitabilmente per avere un impatto, ovviamente negativo, su quello che succede in campo. Subito dopo, però, ho dovuto pormi la domanda inversa: perché tutto questo non ha fermato la Nazionale di Mancini anche agli Europei giocati pochi mesi fa? Da qui, inevitabilmente, mi è sorta un’altra domanda: ma allora che vuol dire movimento?

Guardiamo a ciò che succede anche fuori dall’Italia. Pochi mesi fa, per esempio, leggevo sul New York Times che alcuni dirigenti della Federcalcio francese sono stati accusati di bullismo e sessismo dai loro stessi impiegati; qualche settimana prima, Noël Le Graët, il presidente della stessa Federazione, aveva detto che «il razzismo nel calcio non esiste»; inoltre, diverse partite della Ligue 1 2021/22 sono state sospese e poi rinviate per intemperanze dei tifosi, e una squadra francese non vince una coppa europea dal 1996. Eppure la Nazionale di Deschamps è reduce dalla vittoria del Mondiale e della Nations League, è arrivata in finale agli Europei del 2016 e si è qualificata tranquillamente a Qatar 2022. Si può dire, insomma, che la Francia abbia vinto e continui a vincere nonostante i problemi del suo movimento, esattamente come l’Italia a Euro 2020. Allo stesso modo, per fare un esempio opposto, si può dire che le Federazioni tedesche e inglesi siano degli ambienti per così dire “sani”, eppure la Nazionale tedesca è reduce da un’eliminazione ai gironi dei Mondiali e da un Europeo giocato praticamente da outsider. E non c’è bisogno di aggiungere nulla, in questo senso, sulla Nazionale inglese.

Non è benaltrismo. È evidente che siamo di fronte a una tragedia calcistica epocale. Quello che sto cercando di dire è che sì, il “calcio” italiano inteso come raggruppamento di istituzioni ha enormi carenze politiche, strutturali e anche culturali, carenze che hanno contribuito a scavare il baratro in cui è caduta (di nuovo) la Nazionale. Ma ciò non toglie che le sconfitte o i pareggi inopinati contro la Bulgaria, la Svizzera, l’Irlanda del Nord e poi (soprattutto) contro la Macedonia del Nord, al di là dell’evidente inversione dei poli della fortuna, siano risultati nati e determinatisi sul campo, una locuzione che non rimanda solamente alla tecnica o alla tattica, ma che contiene anche altri aspetti: la capacità di gestire la pressione e la paura di fare un’altra figuraccia storica, l’appagamento dopo una vittoria e la forza di ripartire, insomma tutte cose che riguardano la psicologia dei singoli. E che, alla lunga, finiscono per compromettere le prestazioni di un gruppo di atleti, anche se professionisti, anche se reduci da un grande successo.

Fatta eccezione per la goleada contro la Lituania del settembre 2021, l’Italia nelle qualificazioni ai Mondiali post-Europeo ha segnato 2 gol in 5 partite (Claudio Villa/Getty Images)

Un’altra trappola da evitare, proprio in virtù di tutto quello che abbiamo detto finora, è cadere nel revisionismo. Le ore e la delusione sportiva che stiamo vivendo non possono, non devono cancellare gli Europei di pochi mesi fa. Le vittorie di Wembley (e di Roma, e di Monaco di Baviera) non sono arrivate per caso, ma perché l’Italia di Mancini ha giocato un calcio bellissimo ed efficace, ha esaltato le doti dei suoi migliori elementi, ha trovato il modo per segnare contro tutti gli avversari che ha affrontato, e/o per non farli segnare abbastanza. Quella scintilla di qualità era venuta a mancare ormai da alcune partite, ed è questo il punto su cui deve interrogarsi il ct: le scelte fatte per le gare decisive contro la Svizzera e poi contro l’Irlanda e la Macedonia del Nord – riproporre Immobile e Insigne, Émerson e Barella, Berardi e Jorginho, rinunciare sempre o quasi sempre a Tonali, Scamacca, Zaniolo e Raspadori – sono state quelle giuste? Puntare tutto sui fedelissimi dell’Europeo anche quando hanno iniziato a manifestare un’evidente mancanza di serenità è stata una buona idea? Non pensare mai a modificare l’assetto tattico, per esempio alle due punte pure, è stato un errore?

Un dato su tutti, secondo me, chiarisce come le cose siano cambiate in peggio negli ultimi mesi: considerando le dieci partite del girone di qualificazione agli Europei 2020 (poi disputatisi nel 2021 causa pandemia), Mancini ha fatto esordire dieci giocatori diversi, vale a dire Zaniolo, Izzo, Mancini, Pavoletti, Di Lorenzo, Tonali, Castrovilli, Meret, Gollini, Orsolini; a questi vanno aggiunti i vari Berardi, Émerson Palmieri, Barella e Kean, scesi in campo per la prima volta nelle amichevoli o nelle gare di Nations League del 2018, poco più di tre anni fa. Nelle nove gare di qualificazione ai Mondiali 2022, gli unici calciatori ad aver esordito sono stati Tolói (prima degli Europei, tra l’altro), Scamacca e João Pedro. Ecco, questa lista di nomi chiarisce che il nostro movimento così ammalato e la nostra Nazionale così zoppicante avevano le risorse per battere quantomeno la Macedonia del Nord. Solo che forse queste risorse non sono state sfruttate bene come dal 2018 fino agli Europei. Solo che forse chi è andato in campo non è stato all’altezza dell’impresa compiuta a luglio 2021, né tantomeno di battere la Bulgaria, la Svizzera, l’Irlanda del Nord.

Insomma, riformare il movimento italiano è una necessità che prescinde dai risultati della Nazionale, che non deve dipendere da una sconfitta incredibile contro la Macedonia del Nord o dalla vittoria di un Europeo, o quantomeno non solo. Ieri abbiamo assistito all’evidente crisi di un gruppo, all’involuzione di alcuni dei suoi leader tecnici e carismatici, ma questo c’entra poco con la salute del sistema-calcio, visto com’è andata solo pochi mesi fa. E allora non bisogna farsi prendere dal panico e buttare tutto all’aria per l’ennesima volta, almeno per quanto riguarda il campo: l’Italia di Mancini ha pareggiato alcune partite e poi ha perso l’ultima, erano tutte decisive e va certamente criticata per questo. Ma ha anche dimostrato – vincendo, non con i piazzamenti – di avere qualità, delle idee e soprattutto un futuro. Di poter essere la miglior espressione del nostro movimento. Sarebbe assurdo iniziare la demolizione proprio dall’unica cosa che ha funzionato, negli ultimi anni.