Il Manchester City è a un passo dalla perfezione?

Anche senza una punta di riferimento, i Citizens sono una squadra che attacca costantemente, che segna tantissimo e che riesce anche a essere equilibrata.

Tra tutte le narrazioni connesse alla figura di Pep Guardiola, quella relativa al suo famigerato overthinking – la tendenza a pensare troppo e a stravolgere la sua squadra prima delle partite importanti, in particolare quelle europee – è l’unica ad avere un riscontro nella realtà del campo, soprattutto se declinata nella sua accezione negativa. È accaduto, ovviamente, anche in occasione della sconfitta in finale di Champions League 2020/21 contro il Chelsea di Tuchel: Jonathan Wilson, dopo lo 0-1 firmato da Havertz, aveva parlato addirittura di «panic button» e di «ansia indotta da tutte le altre sconfitte nelle grandi sfide europee a eliminazione diretta negli ultimi dieci anni», riportando al centro del dibattito l’idea di un Guardiola che diventa troppo spesso facile preda di quei demoni e di quelle insicurezze che lui stesso contribuisce a crearsi,  forse perché ossessionato dall’idea di dover controllare l’incontrollabile, ovvero la componente episodica delle partite senza domani.

«Quando deve affrontare squadre di alto livello, Pep è sempre molto combattuto: non sa se restare fedele alle proprie convinzioni oppure cambiare le cose per giocare meglio quella singola gara. A volte le sue direttive risentono di questa confusione, non tutti i giocatori in campo sono sicuri al 100% di quello che devono fare», disse tempo fa Thomas Müller, testimone diretto dello 0-4 che, nel 2014, il Real Madrid di Ancelotti rifilò al Bayern Monaco nella semifinale di ritorno all’Allianz Arena. In quell’occasione Guardiola decise di cambiare radicalmente la sua squadra: passò dal 4-3-3 al 4-2-4, tenne Rafinha in panchina e riportò Lahm sulla fascia destra, nel suo ruolo naturale di terzino, dopo una stagione in cui il capitano aveva dato il meglio di sé da pivote. All’epoca nessuno poteva saperlo, ma si trattò di una sorta di preludio di ciò che sarebbe accaduto in altre gare di Champions League e, soprattutto, sette anni dopo nella finale di Porto, quando la rinuncia al “doppio falso nueve” – l’intuizione che lo aveva condotto in finale a dieci anni dall’ultima volta – ha portato al re-inserimento di Sterling al centro dell’attacco, all’arretramento di Bernardo Silva sulla linea dei centrocampisti accanto a Gündogan e De Bruyne, all’esclusione di Rodri, Fernandinho e Cancelo, all’inserimento di Zinchenko, ovvero il “terzino” che si perde il taglio di Havertz in occasione della rete decisiva del Chelsea.

«Volevo avere la maggior quantità possibile di talento e qualità in campo, così ho spostato Gündogan in un ruolo che ha svolto tante volte nel corso della sua carriera. L’obiettivo era trovare giocatori piccoli, di grande tecnica, tra le linee avversarie», è stata la spiegazione di un Guardiola dopo la finale. Nelle interviste del postpartita, Pep è apparso visivamente provato dal rimpianto di essersi, ancora una volta, preoccupato degli altri più che di sé stesso, contraddicendo nei fatti la visione antropologica ed emotiva del suo calcio. Un calcio in cui a preoccuparsi dovrebbero essere appunto gli altri, quelli che affrontano la sua squadra: «Il City non deve avere paura di nessuno. Il gioco che facciamo noi non lo fa nessun altro al mondo: siamo l’esempio di cosa significhi giocare bene ed essere superiori in tutti i campi. Le altre squadre non ci interessano, non hanno nulla di cui noi possiamo essere invidiosi», ha detto recentemente Aymeric Laporte in quest’intervista al Guardian, dimostrando come i giocatori siano spesso più guardiolisti di Guardiola stesso – almeno per ciò che riguarda la consapevolezza dei propri mezzi e la fiducia nel loro sistema.

Si tratta di un dettaglio non secondario per una squadra come il City, in cui portiere è l’equivalente del quarterback di una franchigia NFL, in cui Cancelo è un regista a tutto campo nemmeno tanto occulto – oltre 80 tocchi di media a partita con l’85% di precisione – e in cui Walker è il braccetto di una difesa a tre che accorcia sistematicamente quando le prime due linee di pressione vengono saltate. Il fatto che il City risulti una squadra solida, compatta, equilibrata, credibile, nonostante queste distorsioni che non sarebbero possibili altrove, dipende proprio dalla disponibilità dei giocatori a perseguire quest’utopia di grandezza individuale e collettiva, al loro credere fermamente che questo sia l’unico modo per farcela davvero.

Eppure l’immagine di Pep-overthinker risulta strettamente interconnessa, fin quasi a risultare sovrapponibile, con quella di Guardiola come «costruttore di grandi cattedrali», per usare una splendida definizione di Sandro Modeo, che nel tempo ha dovuto imparare ad adattarsi a contesti socio-culturali molto diversi tra loro per proseguire l’utopia della sua perenne rivoluzione. Il Guardiola che pensa troppo è figlio del Guardiola che vive come un’ossessione la necessità di adeguarsi e di sperimentare, al punto da rendere del tutto marginale il come e il quando della sperimentazione stessa, il momento in cui iniziare a edificare una cattedrale più nuova e – idealmente – più bella e anche funzionale rispetto a quella precedente. E se questo momento coincide con una finale di Champions League, persino quest’ultima finisce con il passare in secondo piano rispetto a un disegno di grandezza più grande e proiettato nel futuro.

L’idea di rimettere questo calciatore al centro dell’ecosistema del Machester City non era niente male, in effetti

In effetti, ripensandoci bene, la rinnovata centralità di Sterling – un esperimento iniziato proprio nella notte di Porto – oggi trova un senso anche nei numeri: l’ex attaccante del Liverpool ha segnato quattro gol e servito tre assist nelle prime dieci gare del 2022, ed è sesto nella rosa per minutaggio, a quota 2.439. Si tratta, anche in questo caso, di una contraddizione in termini, di tracciare una distanza reale e metaforica tra ciò che Guardiola dice – «A questa squadra serve un attaccante», ripete da tempo Pep – e ciò che Guardiola fa: oggi il City è una squadra che, pur essendo priva di un finalizzatore principale dopo l’addio di Agüero e la trasformazione di Gabriel Jesus in un giocatore praticamente senza ruolo, ha segnato 113 gol in 45 gare di tutte le competizioni, ha mandato in gol 18 calciatori diversi, cinque dei quali in doppia cifra. Sono numeri importanti: nel 2020/21 gli uomini di Pep hanno segnato 131 gol in totale, e ha portato sette giocatori in doppia cifra. E solo un’altra grande squadra dal rendimento straordinario, il Liverpool, sta tenendo aperta la Premier League – in attesa di capire ciò che succederà in Champions.

Al di là delle cifre, la cosa più importante è che i Citizens si sono dimostrati ancora più forti e in controllo di quanto non lo fossero a questo punto nel 2021, quando Pep decise di virare verso un approccio meno vorticoso, meno convulso, maggiormente orientato alla gestione dei momenti-chiave delle partite oltre che delle risorse fisiche e psicologiche, quelle spese e quelle da spendere. Si è trattata di una trasformazione evidente soprattutto nella fase di pressing, diventata molto più selettiva e circoscritta a singoli momenti predeterminati, come se l’input fosse quello di evitare ad ogni costo l’overdrive e il sovraccarico, scoprendo il fianco a pericolose situazioni di uomo contro uomo in campo aperto.

Questa metamorfosi è stata perfezionata nella stagione in corso, sempre cercando di concretare la teoria del creare tanto e concedere poco. È un’utopia, certo, eppure al City sta riuscendo piuttosto bene anche nel 2022: oltre 18 tiri effettuati di media a partita (appena 5.6 da fuori area) a fronte dei soli 6 concessi, con 0.7 big chances sfruttabili dagli avversari. Nell’ultima partita contro il Burnley, ad esempio, sono bastate due accelerazioni in verticale dello stesso Sterling nei primi 25’ per permettere a De Bruyne e Gündogan di segnare i due gol che hanno poi consentito ai Citizens di entrare in modalità “risparmio energetico” alla viglia di un ciclo che li vedrà affrontare Atlético Madrid, Liverpool (Premier), Atlético Madrid e Liverpool (FA Cup) nei prossimi undici giorni.

Una vittoria tranquilla

Col senno di poi, dunque, si può dire che la scelta fatta prima dell’ultima finale di Champions League, ovvero riproporre Sterling salvaguardando la presenza di De Bruyne e Bernardo Silva, era quella giusta. Solo che necessitava di essere calibrata e preparata meglio da un Guardiola un po’ avventato, da un Pep dimentico del fatto che la sua squadra non può essere mandata in campo seguendo un banale processo algebrico di addizione e sottrazione di calciatori, visto che è il frutto di un’equazione che lui stesso contribuisce costantemente a sbilanciare. La questione non riguarda solo l’accumulo di talento, la possibilità di schierare contemporaneamente tutti i giocatori più forti e più tecnici, ma la capacità di equilibrarlo. Quindi di capire che la presenza di Sterling doveva contemplare un’abiura solo parziale del “doppio falso nueve”, ridimensionando l’influenza di De Bruyne nell’ultimo terzo di campo e rimettendo di nuovo Bernardo Silva al centro di tutto. Come è già accaduto, come sta continuando ad accadere: il portoghese rappresenta tutta la tipicità insita in un centravanti atipico così come lo vuole Guardiola, cioè un giocatore di tocco che sappia consolidare il possesso occupando gli spazi di mezzo alle spalle delle linee di pressione o tra terzino e centrale, e che sappia comprendere i momenti in cui liberare la zona a ridosso dell’area di rigore per renderla attaccabile dagli inserimenti senza palla dei compagni.

L’exploit realizzativo del portoghese nella prima parte di stagione – sei gol in 12 partite tra ottobre e dicembre – è stato perciò strumentale a una successiva e più equa distribuzione di compiti e responsabilità in fase di rifinitura e finalizzazione, con picchi d’eccellenza assoluti raggiunti in particolare da Gündogan (otto gol e sei assist in 34 presenze) e Mahrez (22 gol e sette assist in 36 partite). La loro importanza, però, prescinde dai numeri: il centrocampista tedesco è diventato un perfetto shadow striker del XXI secolo, il giocatore che ha «la capacità di risolvere qualsiasi problema» grazie alla libertà d’azione concessagli dall’interpretazione di un ruolo ibrido, a metà tra la mezzala e il trequartista, che gli permette di poter essere sia iniziatore che finalizzatore all’interno della stessa azione; Mahrez è diventato l’elemento fondamentale negli ultimi venti metri, quello in grado di imprimere l’accelerazione decisiva alle lunghe fasi di attacco posizionale che stanno caratterizzando questa versione meno tremendista del City, agendo tra le linee o ricevendo in isolamento sul lato destro per poi rientrare sul piede forte dopo aver creato la superiorità numerica.

Il fatto che questo video si chiami “I primi 100 gol del Manchester City in questa stagione” e il fatto che sia stato pubblicato un mese fa sono entrambi significativi

Nella conferenza stampa prima della sfida d’andata contro l’Atlético, Guardiola è sembrato ammettere tra il serio e il faceto – «Stanotte magari avrò un’ispirazione per una nuova incredibile tattica e domani giocheremo in 12» – che l’overthinking alla vigilia di queste partite fa parte di lui. Ma ne ha anche spiegato la natura retrostante, il motivo per cui può essere considerato l’essenza stessa del suo essere allenatore: «Sarebbe noioso se io scegliessi di giocare sempre allo stesso modo. Non mi piace che la gente pensi che giocherò alla stessa maniera contro l’Atlético domani e il Liverpool domenica. Giocatori, momenti e movimenti sono differenti e questo è il motivo per cui creo queste stupide tattiche». Il tono era ovviamente ironico ma quest’affermazione contiene comunque un’evidente verità: Guardiola negli anni ha dimostrato un’elasticità mentale non scontata nel suo saper e voler andare oltre se stesso, derogando ad alcuni di quei principi che hanno costituito la fortuna sua e del Barcellona.

Pep ha imparato a fare i conti con quei compromessi che la natura episodica e imprevedibile del calcio pone al suo genio creativo. Come un sarto che sembra non aver mai abbastanza stoffa a disposizione per l’abito che intende creare sul serio, il catalano fa e disfa, sperimenta e innova a piacimento, cambia compiti e funzioni prima ancora dei giocatori, prova a intercettare quelle che saranno le nuove tendenze, cerca di dare appena possibile la risposta a una domanda che non gli hanno ancora posto, e che chissà se gliela porranno mai. A Simeone e Klopp il compito di stabilire se le domande e le risposte di Pep siano quelle giuste, oppure no.