5 giugno 2005, diciassette anni fa, Rafael Nadal vinse il suo primo Roland Garros. Aveva compiuto diciannove anni da due giorni. Sconfisse in finale l’argentino Mariano Puerta, che al termine dell’incontro disse: «È terribile, vuol vincere tutto, anche il lancio della monetina al via del match. Secondo me scriverà una pagina della storia del tennis e diventerà una leggenda». Come giocatore, Puerta era modesto. Ma gli va riconosciuto che aveva occhio. Era la prima volta che quel ragazzo irrefrenabile coi capelli lunghi partecipava al torneo di Parigi, anche se non era affatto un perfetto sconosciuto. L’anno prima aveva sconfitto Federer sul cemento di Miami. Ma a Parigi non riuscì a giocare a causa di una frattura da stress al piede sinistro. E qualche mese dopo il suo successo, a ottobre 2005, vinse il Master Series di Madrid nonostante un infortunio allo scafoide tarsale del piede sinistro. Fu in quella occasione che l’enfant terrible del tennis scoprì di avere una malformazione congenita al piede. Con cui avrebbe imparato a convivere, sia pure dolorosamente.
Diciassette anni dopo, stesso giorno: 5 giugno, Nadal torna a vincere al Roland Garros. Per la quattordicesima volta, in quattordici finali. Dal 2005 al 2022, solo quattro volte non è stato lui a trionfare sulla terra rossa di Parigi. È riuscito a giocare grazie a una serie di infiltrazioni al piede. «Devo anestetizzarlo per non risvegliare i nervi, altrimenti dal dolore non potrei giocare. Ma non posso continuare così», ha spiegato in conferenza stampa. Nel frattempo gli anni sono diventati 36. E il guaio che lo tormenta ha un nome: si chiama sindrome di Muller-Weiss. Una deformità di una delle ossa situate nella parte centrale del piede. Viene definita una malattia rara, degenerativa, difficilmente curabile e spesso inoperabile. Le riviste specializzate riportano che «i pazienti soffrono di dolore significativo e progressivo accompagnato da deformità ossea che può finire per portare all’artrosi». Difficile trovare atleti capaci di primeggiare nonostante una simile sofferenza. Nel calcio dei giorni nostri Ibrahimovic può essere un esempio. Altrettanto, e forse di più, lo sono i motociclisti capaci di scendere in pista e girare a trecento all’ora anche con fratture.
È in queste condizioni che Nadal ha vinto lo Slam numero ventidue della sua carriera. Nessuno come lui. Djokovic e Federer sono fermi a venti. Rafa lo ha vinto da underdog. Come aveva fatto agli Australian Open. Testa di serie numero 5 nel torneo di Parigi che per l’ennesima volta era stato presentato come quello della svolta generazionale. Nel tabellone Rafa è considerato la vittima sacrificale di Novak Djokovic nei quarti di finale. È accompagnato da una serie continua di voci sul suo ritiro. Voci cui lui, come in un thriller, conferisce il timbro dell’ufficialità. Lo fa in conferenza stampa dopo aver battuto in cinque set il canadese Auger Aliassime, allievo di zio Toni, l’uomo che ha forgiato Nadal. «Quella contro Djokovic potrebbe essere la mia ultima partita al Roland Garros». Bum. Il piede non gli dà pace. A marzo si è anche fratturato una costola a Indian Wells, in finale. Ovviamente non si è ritirato, ha giocato fino alla fine e ha perso. Ha saltato Montecarlo, Barcellona e ha perso sia a Madrid (da Alcaraz, l’erede designato) sia a Roma.
I fazzoletti sono pronti. Si gioca di sera, martedì 31 maggio. I terribili vecchiacci, ancora loro. Sono rimasti in due, Federer è ancora in infermeria. Non ne vogliono sapere di arrendersi. Rafa parte a tutta. Il primo punto è un dritto alto sparato di poco fuori. Il secondo scambio è di ventidue colpi, mena come solo Joe Frazier sapeva fare. Il primo game dura più di dieci minuti, tanto per gradire. E break in apertura. Mentre sul centrale compaiono gli spettatori avvolti nelle coperte, Nadal va 6-2 3-0 con due break di vantaggio nel secondo set. Eppure non sono in pochi a pensare che stia solo andando incontro alla bella morte. Come quei ciclisti che vanno in fuga al chilometro uno per tentare l’impresa epica, lasciare un ricordo memorabile di sé per poi scoppiare a venti chilometri dal traguardo. Quando Djokovic sale 4-3 e poi vince il secondo set 6-4, chi vuole bene a Rafa comincia a guardare con le mani intrecciate davanti agli occhi. Presagisce un finale di partita a senso unico. Che invece resta tale solo nel timore dei tifosi più ansiosi. Rafa ricomincia a mulinare dritti e rovesci, toglie tempo e respiro a Djokovic, esalta il pubblico. Vince il terzo set 6-2.
Se cercate qualcuno che incarni l’arrendevolezza, state lontani da lui. «Potrebbe essere la mia ultima partita». Che è cosa ben diversa dal dire «sarà la mia ultima partita». Djokovic lo sa fin troppo bene e se ne accorge quando, sul 5-3, va a servire per andare al quinto. Si guadagna due set-point. Uno lo butta in rete. L’altro lo giocano con uno scambio potente e interminabile. A Novak forse manca l’aria. Allontana lo spagnolo con un cross di rovescio e va a rete con un attacco dall’altro lato, non troppo angolato. Rafa ci arriva in scioltezza e lo passa in lungolinea. Di rovescio. Djokovic resta in mezzo al campo, nella cosiddetta terra di nessuno, guarda la pallina sfilare e poi allarga le gambe, appoggia la testa della racchetta a terra e piega la sua, di testa, in avanti insieme col busto. Come se fosse un condannato a morte. I grandi sono come i leoni. Capiscono quando è arrivato il loro momento. Il serbo torna a servire boccheggiando mentre l’altro ripete per l’ennesima volta il rito dell’asciugamano. Un dritto a uncino, il cosiddetto sventaglio, viene salutato da un’ovazione. Controbreak. Si passa da due palle per il quinto set, a Nadal che va a battere per il cinque pari. L’orologio segna tre ore e 47 minuti di gioco. Si va al tie-break. Nadal sale 6-1. Ha cinque match-point. Djokovic ne annulla tre. Siamo 6-4, ancora un servizio per Rafa. Se perde il punto, può succedere di tutto. Il braccino, però, Nadal non sa cosa sia. Non è contemplato nella sua mappa del Dna. Scambio da diciannove colpi, il nastro tifa per lui e chiude con un rovescio lungolinea. L’ennesimo vincente. Poi si gira verso il suo angolo e sorride, di quel sorriso che sembra dire: sono ancora qua. È l’una e un quarto di notte a Parigi. L’indomani ci saranno polemiche per l’orario, per la metro chiusa, per l’assenza di taxi. Ma assistere alla storia dovrà pur comportare qualche dazio da pagare.
Il secondo set, quello perso dopo essere stato in vantaggio 3-0 con due break, sarà l’ultimo che qualcuno riuscirà a sottrargli in questo torneo. La semifinale è quella del dolore di Zverev la cui caviglia va in frantumi al termine del punto che avrebbe condotto al tie-break del secondo set. Si era sul 7-6 per Nadal e 6 pari. Tre ore di gioco per non finire nemmeno due set. Nel primo tie-break Rafa annulla quattro set-point di cui uno con un punto straordinario: un passante di dritto in cross in recupero dopo aver percorso tutto il campo da corridoio a corridoio. Chissà come mai la regia francese, mentre il pubblico applaude estasiato, inquadra la frase di Roland Garros iscritta sul campo centrale: «Victory belongs to the most tenacious».
Tenace. Ostinato. Nadal incarna fin nelle viscere la massima non è finita finché non è finita. Ha molte più vite dei gatti. Sette è un numero irrilevante. È uno degli sportivi che più e meglio hanno trasmesso il principio dell’abnegazione. Nadal non può che essere associato all’etica del lavoro. Eppure quante gliene hanno dette. Il terraiolo che aveva osato battere e talvolta persino far piangere sua maestà Federer. Con tutti quei tic che i tennisti chiamano rituali. Persino quel toccarsi la mutanda prima di ogni punto. Sacrilego. Quando era un vulcano di energia, lo liquidavano affermando che non appena sarebbe calato fisicamente non ne avrebbe più presa una. Qualcuno ha provato persino a infangarne l’immagine con illazioni sulla sua inesauribile carica atletica. La verità è che Nadal non ha mai smesso di provare a migliorarsi. Mai. Ha lavorato sul suo servizio. Sulla sua risposta al servizio. Sul gioco a rete. Non è nato Federer (che ovviamente pure ha dedicato la vita al tennis e agli allenamenti). È riuscito a vincere due volte Wimbledon. La prima volta al termine di un’epica finale, nel 2008, contro il suo grande amico-rivale Roger. Due numeri uno del tennis che hanno sempre mostrato un rispetto sacrale l’uno per l’altro. Un’ammirazione profonda, leggibile nei loro sguardi. Mai una sbavatura.
Della loro rivalità Gianni Clerici scrisse, proprio all’indomani di quella finale: «Laddove il confronto pende in favore di Nadal, è nel rapporto sottile tra i due. Mentre la sicurezza di Nadal è blindata, Federer dubita. Laddove lo spagnolo non teme nessuno, nemmeno gli extraterrestri, Federer riflette, medita, si ribella a se stesso, perde fiducia per riacquistarla grazie ad un grande colpo, e perderla di nuovo al primo errore. Non si sono vinti, come Federer, dodici Slam, se non si crede in se stessi. Ma Nadal crede ancor di più, crede anche quando è indietro, crede quia absurdum».
È il motivo per cui nessuno, probabilmente nemmeno il norvegese Ruud, ha mai pensato che ieri Nadal potesse perdere la sua quattordicesima finale a Parigi. E infatti non l’ha persa. Ha chiuso con un parziale di undici game a zero. Non ce l’ha fatta, alla fine, a dire che non tornerà più, che è stato il suo ultimo Roland Garros. Ha lasciato una porta aperta. Anche se aveva lo sguardo tipico di chi cerca di fotografare con gli occhi quei momenti, consapevole che non li rivivrà più. Se così dovesse essere, a sconfiggerlo non saranno state le nuove generazioni ma l’inesorabile scorrere del tempo.