Una nuova era per il Bayern Monaco

Nonostante il dominio su una Bundesliga sempre più stagnante, il club bavarese ha avviato una profondissima ristrutturazione tecnica e aziendale.

Sembra assurdo, forse lo è, eppure il Bayern Monaco sta per iniziare la Champions League ed è terzo nella classifica di Bundesliga: i due pareggi consecutivi contro Borussia Mönchengladbach e Union Berlin hanno un po’ rallentato l’inizio di stagione dei bavaresi, che ora sono un punto dietro una strana coppia di testa composta dal Friburgo e dal Borussia Dortmund. Per dovere di cronaca e di verità, vanno snocciolati anche altri numeri significativi, vanno ricordate altre cose importanti: finora la squadra di Nagelsmann ha disputato sette gare ufficiali in questa stagione, ne ha vinte cinque e ne ha pareggiate due, con uno score totale di 27 gol fatti e sei subiti – sì, nessun errore, avete letto bene: il Bayern ha segnato 27 volte in sette partite, quindi la sua media è appena inferiore a quattro reti ogni 90 minuti. E poi non si può omettere che il primo di questi due pareggi, quello casalingo contro il Gladbach, è arrivato al termine di un match in cui Yann Sommer, il portiere del Borussia e della Nazionale svizzera, ha fissato il nuovo record di parate in una sola gara di Bundesliga (19). Non è solo una questione di numeri, di quantità, di volume: basta rivedere gli highlights della gara disputata ad Allianz Arena per rendersi conto che alcuni degli interventi compiuti da Sommer sono stati addirittura irreali, per plasticità, per difficoltà, quindi anche per cifra estetica.

Insomma, questa sera l’Inter accoglierà e affronterà una corazzata in fase di assestamento dopo una profonda rivoluzione estiva. Ma si tratta sempre e comunque di una corazzata, di un’istituzione composita – società, squadra, staff, ambiente – che restituisce una sensazione quasi sgradevole di potenza assoluta, di invulnerabilità, di perfezione calcistica, inevitabilmente anche di arroganza nei confronti degli altri, dei comuni mortali, ovvero i club del campionato tedesco. Altrimenti non si spiegherebbero articoli come questo del New York Times, che parte dai dieci titoli nazionali dei bavaresi per parlare del «falso mito della competizione calcistica», analisi come quella del Guardian per cui «il Bayern è davvero troppo forte per la Bundesliga», oppure un vero e proprio volo nei cieli della fantasia come quello di The Athletic, che in questo pezzo – scritto dopo la vittoria per 0-7 in casa del Bochum dello scorso 21 agosto – aveva avanzato una proposta visionaria: quella per cui il Bayern «dovrebbe iniziare ogni partita di campionato sotto di un gol». I giornalisti di The Athletic si sono divertiti ad applicare questa sorta di penalità a tutte le gare giocate nelle ultime dieci edizioni della Bundesliga. Il risultato di questo gioco di sottrazione? Il Bayern avrebbe vinto il titolo solo tre volte su dieci.

La forza storica del Bayern sta nel suo modo di attraversare il tempo che passa: per il club bavarese la transizione e il progresso sono eventi non critici perché perpetui, sempre vivi, sempre in corso; sono fasi programmabili e non rimandabili, per nessun motivo. Secondo Sandro Modeo, è come se il Bayern «cercasse di modularsi sulle caratteristiche intrinseche di un organismo biologico: robustezza e plasticità, cioè i tratti “invarianti” (genetici) e quelli plasmati dall’interazione tra geni stessi e ambiente (epigenetici)». Questa tendenza al cambiamento e all’ibridazione con l’esterno, negli ultimi mesi, si è manifestata su due sentieri distanti ma inevitabilmente interconnessi tra loro: quello relativo alla società e quello che riguarda il campo, i componenti della rosa e dello staff tecnico, il gioco espresso in Bundes e Champions League. La semi-rivoluzione del board ha seguito l’iter storico, che da sempre si sostanzia nella destituzione dei vecchi manager e nell’arrivo di nuove figure sempre legate alla storia del Bayern:  poche settimane dopo la nascita e la morte istantanea della Super Lega, il presidente Herbert Hainer – ex Ceo di adidas insediatosi due anni prima – ha ufficializzato l’addio di Karl-Heinze Rummenigge e ha affidato il suo incarico, quello di amministratore delegato dell’area calcistica, a Oliver Kahn; questa scelta ha rafforzato la posizione di Hasan Salihamidzic, che già dall’estate 2017 era stato nominato direttore sportivo: non a caso, viene da dire, l’ex calciatore bosniaco ha rinnovato di recente il suo contratto fino al 2026; inoltre è stato definito «una figura che ha subito una spettacolare rivalutazione nell’ambiente-Bayern» da un quotidiano piuttosto autorevole come Der Spiegel

Come tutti i grandi giocatori diventati dirigenti che hanno segnato la storia del Bayern Monaco, si pensi ai vari Franz Beckenbauer, Uli Hoeness, Paul Breitner e al già citato Kalle Rummenigge, anche Kahn e  Salihamidzic non hanno dovuto far altro che assecondare il dna del loro stesso club, la tendenza alla rivoluzione perenne di cui abbiamo già parlato. Solo che hanno dovuto farlo in un contesto logistico e temporale molto complicato, influenzato dalla crisi congiunturale legata alla pandemia e dalla necessità di gestire un inevitabile ricambio generazionale dopo il Triplete del 2020. È stato proprio Oliver Kahn a raccontarlo in questa intervista: «Negli ultimi due anni siamo stati molto attenti, così il nostro business è rimasto redditizio. Sono molto orgoglioso di questo risultato, anche perché abbiamo operato in un mercato al ribasso e senza poter contare su investimenti esterni, perché il sistema calcistico tedesco non lo permette. Ora  le cose stanno cambiando, il calcio ha ripreso a muoversi e noi abbiamo dovuto agire di conseguenza: siamo un club di stampo tradizionale, legato alla nostra storia, ma abbiamo deciso di cambiare tanto per combattere l’autocompiacimento. Vogliamo continuare a vincere. Per questo abbiamo assunto Nagelsmann. Per questo abbiamo accettato di cedere Lewandowski e avviare una nuova era». 

Con sei gol segnati in sei partite giocate, Sadio Mané è già il capocannoniere stagionale del Bayern (Kerstin Joensson/AFP via Getty Images)

Il racconto ma anche la spiegazione della rivoluzione vissuta dal Bayern Monaco sono qui, nelle parole di Oliver Kahn. In una serie di frasi che descrivono il coraggio di fare scelte radicali e difficili, anche impopolari se vogliamo, pur di continuare a mettere il club e il suo futuro prima di ogni cosa. Prima di ogni persona. Così la dirigenza accettato e attuato l’idea di rinunciare al secondo miglior marcatore della storia del Bayern – 344 gol in partite ufficiali, Gerd Müller è praticamente irraggiungibile a quota 554 – pur di non perdere un altro elemento della rosa a parametro zero dopo i casi di Alaba e Süle, finiti al Real Madrid e al Borussia Dortmund, pur di assecondare in maniera totale la visione tattica di Nagelsmann: come spiega ESPN in questa analisi, alcuni piccoli ma significativi cambiamenti impostati dal tecnico ex Lipsia – un meccanismo di pressing più intenso, una maggior concentrazione di uomini in area di rigore nelle manovre offensive – hanno determinato una certa insofferenza da parte del centravanti polacco. Che ha chiuso l’ultima stagione con 50 gol in tutte le competizioni, ma fin da subito ha chiarito – in privato e in pubblico – che considerava finita la sua avventura a Monaco. Certo, dietro questa presa di posizione così netta ci saranno state anche delle motivazioni economiche, e non è difficile crederlo, visto che il Bayern è un’azienda piuttosto intransigente quando si tratta di rinnovare i contratti ai suoi giocatori – abbiamo già parlato di quello che è successo con Alaba e Süle, ma a suo tempo anche Pep Guardiola si lamentò di come la dirigenza bavarese non avesse fatto abbastanza per trattenere Toni Kroos. Alla fine, però, restano i fatti: Robert Lewandowski è stato ceduto come se fosse una cosa normale. Anzi: una cosa inevitabile, visto il progetto che si stava delineando all’orizzonte. «Al posto di Lewandowski», ha detto Oliver Kahn, «abbiamo preso Sadio Mané: un calciatore flessibile, che può giocare in diverse posizioni del campo, come impone lo stile attraente, molto offensivo, votato al pressing, del nostro allenatore. Inoltre volevamo creare una nuova competitività all’interno della rosa, iniettare entusiasmo con nuovi giocatori. D’altronde il mio lavoro è proprio questo: sviluppare la squadra per il futuro».

Si potrebbero aggiungere molti altri aneddoti, molti altri dettagli, per esempio quello relativo all’utilizzo sempre più intensivo dell’intelligenza artificiale per fare scouting a livello internazionale, oppure l’acquisto e gli inserimenti immediati del ventenne Ryan Gravenberch e del 17enne Mathys Tel in prima squadra, o ancora l’enorme investimento fatto per prendere De Ligt e farne il leader difensivo del prossimo decennio, o anche per più tempo – non a caso Salihamidzic ha detto che acquistare il centrale olandese «è stato il nostro sogno per anni, è un giocatore che ci calza come un guanto». Il punto è che tutto questo, e molto altro ancora, fa parte di un processo di ricerca e sviluppo che non conosce pause e ostacoli. E che fa la differenza con la Bundesliga, ma anche con la stragrande maggioranza delle squadre europee. Come spiegato tra le righe da Oliver Khan, il sistema economico chiuso della Bundesliga finisce per limitare gli investimenti sul mercato dei calciatori e quindi una crescita che non sia organica e strutturale; da parte sua, il Bayern ha una dimensione – economica, commerciale, storica, finanche politico-sociale – che gli permette di essere qualcosa di diverso, qualcosa di più, ma il fatto che riesca a essere dominante in patria e competitivo in Champions è anche una questione di atteggiamento. Di modello. Come spiega Die Zeit in questo articolo, le squadre del campionato tedesco «sono riluttanti al cambiamento, si affidano sempre agli stessi allenatori e agli stessi sistemi tattici, come se quello che ha funzionato in passato fosse destinato a funzionare per sempre».

È l’esatto contrario del Bayern, un’istituzione che continua a rinnovarsi pur vivendo in un contesto stagnante, in un micromondo popolato da club che in ogni caso farebbero un’immensa fatica a raggiungere certe vette, ma che sembrano pure incapaci di provarci, come se non bastassero la superiorità finanziaria e manageriale del bavaresi. E allora il terzo posto in Bundesliga di Nagelsmann e dei suoi uomini è una situazione momentanea, casuale, destinata a ribaltarsi presto, così come è destinata ad arrivare anche la prossima vittoria in Champions League. È solo una questione di tempo, o meglio: di attraversarlo bene, il tempo, in attesa che le cose vadano come devono andare, per come sono state costruite. Nessuno, in fondo, sa farlo meglio del Bayern Monaco.