Massimiliano Allegri sta combattendo una battaglia che non può vincere

Sta continuando ad allenare la Juventus come se fosse ancora quella di qualche anno fa, con risultati evidentemente negativi.

Quando Massimiliano Allegri ha detto che «la partita più importante del girone è quella col Benfica», le critiche piovutegli addosso sono state tantissime, anche perché trasversali: gli juventini più puristi e pure quelli più modernisti non potevano accettare l’idea che la squadra bianconera e il suo allenatore dessero già per persa la partita contro il Paris Saint-Germain. In realtà Allegri aveva ragione: piaccia o meno agli juventini puristi e a quelli modernisti, in questo momento storico la Juventus – se guardiamo al valore assoluto dell’organico, alle possibilità e quindi alle ambizioni del progetto tecnico – è molto più vicina al Benfica che al Psg, e allora sarebbe stato più realistico pensare di battere la squadra portoghese, non quella di Messi, Mbappé e Neymar, trascurando tutti gli altri.

Quando Massimiliano Allegri ha detto quelle parole sulla partita più importante del girone, però, nessuno – forse neanche Allegri – pensava che la Juventus potesse risultare così lontana anche dal Benfica, in tantissimi aspetti: quelli tecnico-tattici, ovvero quelli che riguardano qualità ed efficacia del gioco espresso, ma anche quelli emotivi, cioè quelli relativi alla capacità di calarsi nel contesto della Champions League. In effetti i dati di Transfermarkt rilevano che la rosa bianconera ha un valore economico praticamente doppio (502 milioni contro 260) rispetto a quella gestita da Roger Schmidt, e che quindi c’è un gap troppo ampio per non tenerne conto quando si valutano i risultati, le prestazioni offerte sul campo, una dolorosissima eliminazione ai gironi di Champions League – per la prima volta dopo nove anni.

Certo, ora qualcuno potrebbe tirare fuori la frase di Johan Cruijff sui sacchi di soldi che non hanno mai fatto un gol, e avrebbe anche ragione. Il vero nocciolo della questione, a pensarci bene, non è che la Juventus abbia perso due gare su due contro il Benfica, e si potrebbe aggiungere anche la sconfitta contro il Maccabi, quello può succedere a chiunque e per tanti motivi, ma il modo in cui sono arrivati questi risultati. Basta riguardare la gara di Torino e quella di Lisbona, per rendersene conto: si tratta di due partite che non sono mai state davvero in discussione, perché la supremazia – tecnica, tattica, fisica – del Benfica è sempre stata chiara, evidente, ben oltre il conto elementare dei gol segnati o subiti. La sensazione restituita dai due match è che tutti gli aggiustamenti tentati da Allegri venissero compresi e assorbiti con tranquillità dai giocatori di Schmidt, che a loro volta riuscivano sempre a trovare un modo per mettere in difficoltà i bianconeri. Per dirla brutalmente: il Benfica è parso una squadra che sapeva cosa fare, e quando farlo, per poter vincere la partita che stava affrontando; la Juventus, di contro, è sembrata andare a tentativi, alternando stili e spaziature e uomini alla ricerca di una soluzione ai propri problemi. È così che Allegri ha pescato dal mazzo i vari Miretti e Soulé e soprattutto Iling-Junior nell’ultimo terzo del match di ritorno, dei jolly inattesi e impattanti che hanno approfittato del calo degli avversari e stavano per rimettere in piedi il risultato.

Per molti, Allegri in testa, la Juventus vista in avvio di stagione non è la squadra che era stata pensata e costruita in estate. È vero anche questo, ma va detto che Pogba, Chiesa e Di María sono mancati e/o mancano da un bel po’ di settimane, un tempo che Allegri avrebbe potuto – dovuto? – impiegare per lavorare su delle soluzioni alternative. Per creare nuovo valore in una Juventus un po’ meno forte di quello che lui avrebbe voluto, e che aveva immaginato. Dopotutto il lavoro sulla tattica serve proprio a questo: a compensare i difetti strutturali – o le mancanze temporali – di una squadra attraverso meccanismi ripetuti o connessioni pianificate che esaltino i pregi e nascondano dei calciatori.

Tutto ciò non vuol dire che la Juventus debba giocare un calcio necessariamente più offensivo, non è questo il punto, e in fondo anche Agnelli e Nedved erano coscienti delle idee di Allegri quando hanno deciso di riportarlo a Torino. Il punto è che Allegri allena la Juventus come se fosse ancora la squadra che allenava nel 2016 o nel 2018, con un’identità reattiva che non può più appartenere a una rosa che nel frattempo si è trasformata, o che si è logorata se guardiamo a chi è rimasto da allora. E quindi la Juventus finisce per essere una squadra dall’identità debole se non addirittura inesistente, che non ha una rete di protezione su cui contare quando le cose vanno male. Un esempio semplice su tutti: difendersi rimanendo bassi come piace ad Allegri non è certamente un reato, però deve essere una strategia funzionale, e invece la Juventus 2022/23 ha subito nove gol in cinque partite di Champions League e tre gol nelle due gare contro Milan e Roma, le uniche squadre di alta classifica affrontate in Serie A. E lo stesso discorso può essere valido per i meccanismi di costruzione dal basso, per quelli del centrocampo e della fase offensiva. Insomma, è evidente che Allegri non abbia gli strumenti necessari per poter vincere a modo suo, almeno in questo momento storico. L’allenatore della Juventus sta combattendo una battaglia che non può vincere: quella contro il tempo, che ha cambiato le cose e ha cambiato anche la Juventus, mentre lui non cambia mai.