Nel giugno 2019, quando si è concretizzato a parametro zero, il passaggio alla Juventus sembrava la scelta migliore per provare a risolvere l’enigma legato ad Adrien Rabiot, la mossa giusta – o forse l’unica possibile – per dare un senso compiuto alle qualità di un giocatore che fino a quel momento non era stato possibile inquadrare davvero. Nonostante un vissuto calcistico di tutto rispetto, da titolare nel PSG delle stelle strappate a suon di milioni agli altri campionati europei, su di lui sopravvivevano moltissimi dubbi di carattere tecnico, ma anche emotivo. Oggi sono passati quattro anni e il suo contratto è nuovamente in scadenza a giugno – «Non so ancora se resto alla Juve, è ancora presto per parlarne, adesso il mio focus è sul Mondiale», ha detto recentemente. Eppure Adrien Rabiot è rimasto un giocatore strano, indecifrabile, la cui valutazione resta ancora fin troppo subordinata alla volatilità del contesto, all’hic et nunc di un singolo momento che può durare lo spazio di una giocata, una partita, un mese, una stagione. Per questo non stupisce, o non dovrebbe stupire, che il Rabiot visto ai Mondiali del Qatar, quello in grado di rimontare praticamente da solo il gol di Goodwin nella prima partita della Francia, sia lo stesso Rabiot che, nell’immaginario collettivo, personifica il fallimento del modello gestionale e sportivo di Andrea Agnelli, il colpevole di comodo – perché quello più facile da individuare e colpire – di una banter era annunciata e in divenire.
C’è tanto da dire su quest’ultimo punto, sulle difficoltà vissute alla Juventus. Pesa sicuramente il sanguinoso quadriennale da oltre sette milioni di euro a stagione, ma ci sono anche sei gol e quattro assist nelle ultime 13 partite disputate con i bianconeri e in Nazionale. Più di tutto, però, sulla percezione distorta e incerta che abbiamo di Rabiot incidono le versioni che Rabiot fornisce di sé stesso dentro e fuori dal campo, più o meno consapevolmente: è lui, in prima persona, ad alimentare quel cortocircuito valutativo che non permette di definire la sua reale dimensione tecnica, anche se sta vivendo un momento della carriera in cui gli altri calciatori raggiungono l’apice del proprio sviluppo psico-fisico. Persino l’attuale momento di forma, che in condizioni normali giustificherebbe una narrazione fondata sull’idea per cui dobbiamo chiedere scusa a Rabiot per non averlo capito fino in fondo, vive su un paradosso difficile da spiegare: negli anni ci siamo convinti che Rabiot fosse un discreto giocatore di sistema, un centrocampista sovradimensionato al servizio di sovrastrutture complesse, e invece oggi il campo racconta di un giocatore autonomo, decisivo, dominante in senso assoluto, che fa la differenza in due contesti, quello della Juve e della Nazionale francese, in cui la dimensione individuale della giocata prevale su quella collettiva.
Ad esempio, l’azione del 2-1 della Francia contro l’Australia, quella che riconduce all’ambito della normalità una partita che sembrava si stesse incanalando sugli stessi binari dei debutti shock di Argentina e Germania, è un qualcosa che Rabiot crea da solo nel nulla, pressando, recuperando il pallone, dettando la traccia per il passaggio decisivo a Theo Hernández, servendo a Giroud il più comodo dei palloni da spingere in rete. «Sta vivendo un buon momento, prima si limitava come raggio d’azione, oggi è cresciuto tanto. Mi piace la formula che ha utilizzato per descriversi, si è definito un giocatore che dà equilibrio. Può non sembrare una cosa di grande valore, ma lo è per un allenatore. E lo è anche per il commissario tecnico di una Nazionale». Queste parole, piuttosto profetiche, sono state dette da Didier Deschamps il 10 novembre, il giorno in cui il ct della Francia aveva ufficializzato la lista dei convocati in partenza per il Qatar.
Il primo gol di Giroud contro l’Australia, inventato letteralmente da Rabiot
In effetti se dovessimo far riferimento solo a ciò che sta raccontando il campo, chiedere scusa a Rabiot non solo avrebbe un senso, ma troverebbe una sua ragion d’essere proprio guardandolo giocare, riconoscendo la qualità e la quantità delle prestazioni che lo hanno reso il giocatore chiave della Juventus, la pietra angolare su cui Massimiliano Allegri sta provando a costruire una difficile rimonta in campionato. Le sue caratteristiche di base sono il motivo per cui, nell’ormai celebre chiacchierata informale con Mario Sconcerti pubblicata sul Corriere della Sera all’indomani della sconfitta di Monza, il tecnico livornese disse che «a me oggi manca molto Rabiot. Lo discutono in molti, ma è un giocatore che fa 13-14 cose buone a partita e sul campo pesa sempre perché ha tecnica e fisico».
In quel momento, con la Juventus nel bel mezzo della peggior crisi tecnica e di risultati degli ultimi dieci anni e con le prospettive sull’impiego a tempo pieno di Chiesa, Pogba e Di María sempre più nebulose, quella dichiarazione era sembrata l’ennesimo autogol comunicativo di un allenatore in difficoltà, o comunque non più in grado di connettersi con la realtà circostante. In realtà Rabiot era ed è il giocatore più allegriano a disposizione di Allegri per comprensione e interpretazione fisica del gioco, quindi era del tutto logico sottolinearne, seppur ragionando per sottrazione, il peso specifico all’interno di un collettivo ancora impegnato alla ricerca di un’identità chiara e definita.
Rabiot, invece, è probabilmente l’unico vero centrocampista box-to-box della rosa bianconera. Questa caratteristica lo rende uno dei pochi elementi in grado di facilitare la risalita del campo di una squadra che crea lo spazio da aggredire palla al piede difendendo per blocchi posizionali particolarmente bassi, di attaccare il lato debole inserendosi tra secondo centrale e terzino, di andare ad occupare “a rimorchio” la zona libera alle spalle della linea di pressione, di chiamare il passaggio sulla direttrice di corsa per poi calciare di prima intenzione con il piede forte. «Io ovviamente mi sento importante per la squadra, in questo momento sto bene in campo, mi sento bene fisicamente. Sto cercando di trascinare la squadra, di fare le cose al meglio per aiutare il più possibile i miei compagni», ha dichiarato qualche tempo fa, prima della sosta per i Mondiali.
Il rapporto di diretta proporzionalità tra questa indubbia centralità e la recente continuità di rendimento non deve però cancellare l’idea per cui Rabiot resti un giocatore fortemente limitato, che non è mai riuscito ad affrancarsi del tutto dalla necessità di un contesto su misura per lui, di giocare in una squadra che ne esaltasse le qualità e che nascondesse quelle carenze sulle quali non ha mai lavorato a sufficienza. Se si dovesse estrapolare una singola polaroid dal quadro d’insieme si potrebbe dire che Rabiot, in teoria, avrebbe tutto ciò che servirebbe per essere uno dei centrocampisti simbolo della sua generazione. Solo che, nella pratica, non ha mai fatto nulla per diventarlo sul serio.
Guardare una partita di Rabiot è un’esperienza estrema, per certi versi persino divertente, un esercizio di stile ed equilibrismo reso talvolta insostenibile dall’assenza di qualsiasi tipo di zona grigia tra l’errore marchiano e la grande giocata. Questo perché Rabiot è rimasto un giocatore fortemente istintivo, fin troppo connesso con gli aspetti emotivi della gara per non esserne, alternativamente, trascinato o travolto. La sensazione è che la facilità con cui riesce a strappare palla al piede coast-to-coast oppure a uscire da situazioni complicate con un dribbling debba per forza andare di pari passo con la sciatteria del primo controllo, la pigrizia di certi recuperi difensivi, gli errori concettuali e di misura nei passaggi talmente grossolani da risultare inspiegabili, prima ancora che comici.
Oltre il campo, l’aspetto che possiamo commentare più spesso perché riguarda qualcosa che – in teoria – conosciamo, che si manifesta davanti ai nostri occhi a cadenza settimanale, c’è anche tutto ciò che Rabiot è o mostra di essere quando non gioca. Anche tutto questo contribuisce ad alimentare – o a smentire – l’idea che ci siamo fatti di lui. Negli anni, complice anche l’ingombrante figura della madre-procuratrice, Rabiot ha spesso peccato di quella hybris che normalmente tendiamo ad associare a calciatori con uno status e una credibilità superiori: il braccio di ferro prolungato con la dirigenza del Psg, il non voler far parte della lista riserve della Francia che avrebbe vinto il Mondiale nel 2018, il rifiuto quasi sdegnato all’offerta del Manchester United la scorsa estate, hanno raccontato di come Rabiot non abbia sempre avuto una corretta percezione di sé stesso e della dimensione che aveva raggiunto, come se fosse ancora proiettato su quelle premesse da “the next big thing” che non hai mai saputo onorare fino in fondo, e che si sono ben presto trasformate in atteggiamenti da bambino viziato che gli hanno fatto terra bruciata intorno.
Oggi anche da questo punto di vista è possibile osservare un cambio di paradigma, di registro. La comunicazione di Rabiot con il mondo esterno è più prudente, ridotta al minimo indispensabile, adeguata ai formalismi del linguaggio stereotipato del calciatore medio, quasi come se volesse riposizionarsi all’interno di una logica univoca, rassicurante, che vale per tutti e quindi anche per lui: «Senza dubbio queste prestazioni mi aiutano per andare altrove, ma anche per parlare con la Juve» ha detto dopo la prestazione da MVP contro l’Australia, dimostrando una lucidità e un’aderenza alla realtà che non era scontata. E che forse completa la definizione di un nuovo Rabiot, sicuramente migliore rispetto a quello che abbiamo visto e raccontato fino a oggi.