Il Fair Play Finanziario funziona o no?

Sembra che i grandi club, come City e Psg, trovino sempre nuovi modi di farla franca. Ma le regole in vigore sono sufficienti?

Negli ultimi anni il calciomercato del Manchester City è stato più volte oggetto di indagini da parte di questa o quell’istituzione, indagini che poi sono state raccontate e vivisezionate dalla stampa internazionale e che spesso si spegnevano nell’inconsistenza delle sanzioni comminate alla società, mai rilevanti per davvero. Era successo nel 2018 con l’inchiesta “Football Leaks” dello Spiegel, era successo all’inizio del 2020 con una squalifica dalle coppe europee per violazioni del Fair Play Finanziario – poi alleggerita dal Tas di Losanna in una multa da 10 milioni di euro –, è successo di nuovo in questi giorni, con la Premier League che ha deferito il City a una commissione indipendente, sempre per presunte violazioni del Fair Play Finanziario. Si sta indagando su un arco temporale che va dal 2009/10 al 2017/18 e si parla di «violazioni sui ricavi, inclusi quelli di sponsorizzazione, gli aspetti correlati e i costi operativi», secondo la Premier League.

Ogni volta che si parla di casi come questo del City ci ricordiamo di come i club negli anni abbiano modulato i loro comportamenti in materia economica per provare a stare nei paletti della Uefa o delle federazioni nazionali, provando ad aggirare i regolamenti in un senso o nell’altro. Il grosso scoglio è quasi sempre lo stesso: il Fair Play Finanziario introdotto dalla Uefa nel 2009 con l’obiettivo di rendere le società europee di calcio più stabili economicamente e ridurre il rischio di fallimento – insomma, un piano di austerity per garantire la sostenibilità dell’industria calcistica a partire dai suoi attori principali, i club. Negli anni questo strumento è stato più volte aggiornato, rivisitato. L’ultima, ad aprile 2022, quando la Uefa ha annunciato un cambio di priorità, dall’equilibrio tra ricavi e costi alle spese della squadra (trasferimenti, commissioni, stipendi), che non devono superare il 70% delle entrate.

In un riflesso quasi inconsapevole, l’introduzione di norme di questo tipo induce le società a modificare strategia e condotta in modo da sfumare il più possibile l’effetto delle nuove limitazioni legislative. «La soluzione individuata è stata quella di fabbricare plusvalenze», dice Fabio Ciaponi, economista dell’Università di L’Aquila, autore dello studio “The Consequences of Accounting-Based Regulation: Real Effects on European Football Players Transfer Market” con i colleghi Massimiliano Bonacchi (Libera Università di Bolzano), Antonio Marra (Bocconi) e Ron Shalev (Rotman School of Management University of Toronto). Nello studio analizzano 4.600 operazioni di mercato nei cinque maggiori campionati europei, tra il 2008 e il 2018, e il loro effetto sulle società. In queste transazioni l’utile medio – che poi diventa plusvalenza – è aumentato del 115%, con i prezzi delle cessioni di giovani calciatori lievitato del 60%. L’incremento è ancora più marcato quando la cessione avviene all’interno di uno scambio (+141%). Chi segue la Serie A, o semplicemente non è stato sulla Luna nell’ultimo mese, deve essersi accorto che il calcio italiano conosce molto bene tutte queste pratiche e le ha messe in atto in ogni sfumatura, in ogni versione possibile.

Nell’ultima sessione di mercato il Chelsea ha battuto ogni record di limite di spesa per il mese di gennaio, costringendo tutti ad aggiornare la definizione ormai scaduta di “mercato di riparazione”. Gli acquisti sono molti, sono costosi, sono ricchissimi. E sono ammortizzati in periodi molto lunghi, grazie a contratti quasi decennali che il proprietario dei Blues Todd Boehly ha mutuato dal baseball. In questo modo il Chelsea ha di fatto schivato le regole del Fair Play Finanziario in modo del tutto legale, inserendo in ogni bilancio annuale una porzione relativamente piccola dei costi dei cartellini di Badiashile, Mudryk, Madueke, Enzo Fernandez e tutti gli altri. Ovviamente accettando – potendoselo permettere – il rischio sportivo di legarsi a un giocatore per molto tempo.

Quello del Chelsea è solo uno dei modi in cui i club con maggiore disponibilità economica e situazioni finanziarie solide si sono adattati alle nuove regole. O forse si dovrebbe dire che sono riusciti ad approfittarne per mantenere il loro vantaggio competitivo rispetto ai club meno ricchi, in una sorta di cristallizzazione forzata – più del dovuto, più del necessario – dei rapporti di forza tra aristocrazia e classe media e bassa del calcio europeo. «Certamente nel momento in cui il Fpf ha congelato la possibilità dei proprietari di club di ripianare le perdite ne hanno approfittato i club con i conti in ordine che poi sono quelli appartenenti alla lega più ricca: la Premier League», dice Ciaponi. Così, mentre in Italia si chiudeva una delle sessioni di calciomercato più deprimenti dell’epoca recente, la Premier si ubriacava del suo stesso strapotere: quasi un miliardo di euro di spesa aggregata, 300 milioni investiti dal Chelsea, di cui 121 solo per Enzo Fernandez.

A proposito di Italia. La Roma ha comunicato all’Uefa che Ola Solbakken sarà tagliato dalla lista per l’Europa League. Il calciatore era presente nell’elenco, ma l’Uefa ha riscontrato una difformità di interpretazione rispetto ai numeri della sessione invernale che «violano le norme del transfer balance» e i paletti del settlement agreement firmato a settembre. Alla fine l’attaccante non è stato inserito nella lista.

Fin da quando è stato introdotto, il piano di austerity dell’Uefa prevede ovviamente sanzioni sportive per chi non sta nei parametri. Solo che negli anni la Uefa è stata severissima con i club minori e più clemente con quelli di maggior peso economico e politico: la lista delle squadre penalizzate tocca solo campionati minori o squadre che non hanno l’appeal delle grandi società. Tra i nomi si leggono quelli di Galatasaray, Stella Rossa, Cluj, Bursapor, Sion, mentre i top club – dal Manchester City al Paris Saint-Germain, che secondo una vecchia inchiesta del New York Times nel 2018 avrebbe gonfiato il bilancio con sponsorizzazioni sospette – hanno speso somme enormi passando inosservati e impuniti.

Sul piano strettamente economico i numeri non sono poi così negativi, dall’introduzione del Fair Play Finanziario i conti dei club di tutta Europa sono complessivamente migliorati. Qualche anno fa su Undici riportavamo i dati più importanti: nel 2008 il 47% delle società europee segnava delle perdite e le 718 società di prima divisione del calcio europeo generavano circa 1,7 miliardi di euro di disavanzo negativo; nel 2017, il risultato aggregato di questi stessi club europei è diventato positivo, con i profitti che si sono attestati intorno ai 600 milioni di euro. Quindi ci sono stati grossi benefici economici per il sistema calcistico europeo. Allo stesso tempo, però, sono emerse le criticità di cui abbiamo parlato in questo articolo, problemi mai risolti, cancrenizzati dalla connivenza dell’Uefa che spesso ha chiuso un occhio quando faceva comodo. È per questo che nel 2019 The Athletic aveva invitato Nyon a riporre in soffitta il suo Fair Play Finanziario con parole drastiche: «è morto, e la Uefa deve rendersene conto».

In fin dei conti, il Fpf ha funzionato se guardiamo solo all’equilibrio economico: «Da un punto di vista formale quegli obiettivi sono stati centrati», riconosce Ciaponi. Il problema è che le modalità con cui le società si sono adeguate alle regole – perché si trova sempre un modo di adeguarsi, è il modo che non sempre va bene – hanno prodotto effetti negativi e indesiderati, plusvalenze di carta, player trading fuori controllo, sponsorizzazioni gonfiate. Il comportamento dei club è cambiato, le regole imposte dall’alto incidono sempre sul sistema generale, il problema è che il risultato non è proprio quello sperato.