Dusan Vlahovic è diventato trasparente

La Juventus di Allegri non è la squadra adatta per lui, che però fa fatica a limare i suoi difetti.

Non è passato molto tempo da quando il giornalista Romeo Agresti ha condiviso, attraverso il proprio profilo Twitter, un video in cui Dusan Vlahovic è impegnato in alcune esercitazioni nel gioco di sponda spalle alle porta con gli assistenti di Massimiliano Allegri. Il linguaggio del corpo dell’attaccante serbo non è dei migliori, i tocchi svogliati e imprecisi – la palla di ritorno non viaggia mai a pelo d’erba ma viene restituita sempre con un rimbalzo di troppo che non facilita il controllo del ricevitore – e l’atteggiamento percepito sono quelli del calciatore poco coinvolto e poco convinto di ciò che sta facendo, che sembra essere con la testa altrove. Un’istantanea che proviene direttamente da un momento troppo lontano eppure troppo vicino allo stesso tempo, da quel Sampdoria-Juventus 0-0 del 22 agosto 2022 in cui il centravanti serbo toccò appena nove palloni – tre nel primo tempo, di cui uno quando si è trattato di battere il calcio d’inizio – al culmine di 90 e più minuti passati a muoversi e pensare e agire in maniera totalmente afasica rispetto al resto della squadra, che quasi non si riusciva a capire dove iniziassero le sue responsabilità e dove quelle dei compagni che non erano stati in grado di leggere e assecondare i suoi ripetuti attacchi della profondità: «Nel secondo tempo ha fatto meglio, ma Dusan deve stare più sereno, imparare a prendere posizione in area e proteggere la palla. Deve cercare di non deve giocare d’impatto, di non forzare subito la giocata», spiegò all’epoca Allegri dopo la partita.  

Una settimana dopo il tweet di Agresti, Rocco Commisso ha detto che «la cessione di Vlahovic alla Juventus è stata un affare eccellente per noi. All’inizio abbiamo ricevuto tante critiche per Cabral e Jovic perché fino a poco tempo fa avevano segnato pochi gol, ma insieme finora hanno realizzato 20 reti nelle tre competizioni che stiamo disputando, mentre Vlahovic ne ha fatti solo dieci di cui due su rigore. E, dalla vendita, abbiamo incassato 70 milioni». Ovviamente si tratta di una boutade, della rilettura provocatoria e parziale di un evento fondamentale nella storia recente della Fiorentina. Eppure nelle parole di Commisso sembra celarsi comunque un fondo di verità, cioè esiste la sensazione che Vlahovic abbia sbagliato nel passare alla Juventus in un momento della sua carriera in cui aveva bisogno di altro, non necessariamente di un’altra squadra. Dopo la partita contro il Milan, vinta anche grazie al quarto gol in campionato di Luka Jovic, Commisso è tornato a insistere su questo punto: «I nostri attaccanti sono molto forti, come dimostrato dal gol di Jovic e da un’ottima prestazione di Cabral. In questa settimana ho detto che i nostri attaccanti hanno fatto 20 gol e ora sono a 21. Vediamo a quanto arriverà Vlahovic, di cui ho già parlato in settimana, ma se facciamo due conti si capisce che spendendo 15 milioni i nostri attaccanti hanno già segnato molto più di lui». 

Quella del calciatore involuto, non migliorato, persino regredito sotto certi aspetti del suo gioco, è la chiave di lettura attraverso cui si sta raccontando e analizzando la stagione di Vlahovic da centravanti titolare della Juventus. È una scelta facile, naturale, per certi versi persino prevedibile nel momento in cui si tende a valutare in maniera unidirezionale il rapporto tra rendimento del singolo e quello della squadra, ma che non tiene conto di ciò che è Vlahovic oggi, di quello di cui avrebbe bisogno per cominciare a essere il giocatore che immaginiamo possa ancora diventare, di come gli aspetti psicologici ed emotivi siano diventati prevalenti su quelli di campo. Prima ancora che tecnici o tattici, infatti, i problemi di Vlahovic sono connessi alle variabili emotive che si trovano all’interno delle pieghe della singola partita, all’umoralità che condiziona letture, scelte, soluzioni di un attaccante non riesce ancora a determinare la gara ma che tende a subirla, rientrando in quelle logiche univoche e uguali per tutti che non gli appartengono, o non gli dovrebbero appartenere.

Guardare una partita di Vlahovic, di questo Vlahovic, significa trovarsi di fronte alla proiezione sbiadita dell’attaccante che devastava le difese di mezza Serie A, significa assistere a una dimostrazione visiva di impotenza crescente: una sensazione che inizialmente il giocatore manifestava in gesti di rabbia e insoddisfazione – verso sé stesso, i compagni, gli avversari, gli arbitri – e che oggi, invece, è un continuo susseguirsi di teste basse, mani sui fianchi, sguardi persi nel vuoto, scatti abbozzati e mai compiuti. C’entra sicuramente la Juventus 3.0 di Allegri: una squadra che, spesso per scelta, risulta passiva e monodimensionale in entrambe le fasi è probabilmente il contesto peggiore possibile per un giocatore che ha bisogno di sentirsi coinvolto e in fiducia, di giocare tanti palloni e di giocarli bene, soprattutto nelle situazioni tecniche che gli sono più congeniali.  Qualcosa che nell’ultimo anno e mezzo è accaduto raramente, alimentando l’idea che Vlahovic non sia forte o che non sia forte abbastanza per stare a un certo livello, per incidere anche nelle partite in cui non tutto va come vuole lui.

Quest’idea, però, non corrisponde alla realtà. Semplicemente perché tutti abbiamo visto cosa sia in grado di fare Vlahovic quando è messo nelle condizioni di farlo, persino in una stagione in cui il rapporto di reciprocità tra le prestazioni individuali e quelle della squadra è talmente stretto da costituire la base di giudizi e valutazioni ondivaghi e non lineari, in misura uguale e contraria alla differenza che passa tra le partite in cui il serbo riesce a segnare e quelle in cui talvolta non riesce nemmeno ad avere un’occasione per calciare in porta. I gol contro Verona e Villareal praticamente al primo pallone toccato, la doppietta a Empoli con due giocate alla Benzema, la punizione contro la Roma, sono i riflessi accecanti di un diamante purissimo eppure ancora grezzo, un giocatore ciclonico ed esaltante nelle giornate di grazia, irritante quando si trova a fare i conti con le amnesie tipiche di chi all’improvviso si rende conto di avere dei limiti e non sa come superarli, a Parigi così come a Haifa, Lisbona o La Spezia.        

Quest’assenza di zone grigie nelle prestazioni di Vlahovic dipende, come detto, anche dalla Juventus, dal modo in cui lo staff tecnico non è ancora riuscito a trovare il modo di lavorare sui difetti storici del centravanti serbo – il primo controllo spalle alla porta, la capacità di assorbire i contatti, la pulizia di tocco nelle sponde – esaltando al contempo le qualità nel gioco in verticale e nell’attacco dello spazio. La gara-manifesto, in questo senso, è la sconfitta di San Siro contro il Milan, partita in cui Vlahovic toccò 29 palloni, nessuno nell’area di rigore e uno, sciagurato, verso Milik al minuto 54 che avvia l’azione del 2-0 di Brahim Díaz, il tutto prima di essere sostituito quasi per disperazione. Quella sera, per la prima volta, si avvertì tutta la distanza tra Vlahovic e la Juventus, tra Vlahovic e la squadra di cui avrebbe dovuto essere la stella e che, invece, ha finito con il trasformarlo in qualcosa d’altro, qualcosa di diverso, qualcosa che non era e non potrà mai essere, cioè un centravanti da spizzate e sportellate, uno di quelli per cui si tende a utilizzare il termine generoso quasi solo per voler provare a nascondere il fatto che di segnare ormai non se ne parla, se non in quei fugaci momenti in cui Di María o Chiesa riescono a spezzare un raddoppio o a trovare una linea di passaggio meno piatta e prevedibile del solito. Quando questo non accade, le partite di Vlahovic si trasformano in un triste peregrinare senza meta alla ricerca di un pallone che non arriva mai o che, quando arriva, lo fa sempre con un secondo di anticipo o di ritardo anche perché è lui per primo ad essere o troppo avanti o troppo indietro, o troppo veloce o troppo lento.

Intermezzo: ecco l’ultimo Vlahovic prima della Juventus, metà stagione 2021/22 con la maglia della Fiorentina

Nel secondo tempo della gara contro la Roma all’Olimpico il serbo è stato tangenziale alla gara stessa, di fatto escluso dalle (poche) azioni offensive che la Juventus è riuscita a imbastire, segnalandosi solo per due palloni – un cross basso di Di María e un retropassaggio avventato di Zalewski a Rui Patrício – mancati di un soffio e per un tocco in area di rigore farraginoso tanto quanto quelli visti nel video in cui si allena con gli assistenti di Allegri e non riesce a far da sponda: «Ha fatto una buona partita, migliore dell’ultima anche dal punto di vista tecnico. Ha avuto occasioni anche se poi non è riuscito a tirare, è stato molto presente in area», ha detto l’allenatore della Juventus. Ed è proprio in questo concetto, in quest’idea che un attaccante come Vlahovic possa giocare bene ed essere pericoloso anche se non tira, che si annida il cortocircuito narrativo e tecnico alla base della sua involuzione. 

Un’involuzione di cui anche lui è corresponsabile. Essersi ritrovato a giocare in una squadra dalle caratteristiche opposte alle sue ha portato Vlahovic a fermarsi, a sedersi sugli allori, a crogiolarsi nel vittimismo e nelle scusanti – che ci sono e sono oggettive – quando invece avrebbe potuto e dovuto lavorare di più e meglio, provando ad andare oltre sé stesso e i suoi limiti per diventare un attaccante forte, anzi un attaccante incisivo, anche quando mancherebbero le condizioni per esserlo. Oggi la percezione comune è quella che Vlahovic e la Juventus siano avviluppati in una convivenza forzata che non fa bene a nessuno. Una convivenza in cui a mancare, oltre alle basi tecniche e tattiche, è soprattutto la voglia di assecondarsi a vicenda, di fare l’uno un passo verso l’altra per provare a far funzionare le cose. Una convivenza che ha trasformato un centravanti in costruzione in un centravanti da ri-costruire, tecnicamente e psicologicamente. La sensazione, che per alcuni è persino una speranza, è che sarà compito di qualcuno diverso da Allegri e dalla Juventus. Perché Dusan Vlahovic non era questo, lo sappiamo, lo abbiamo visto. Perché Dusan Vlahovic, quindi, non può essere questo.