La storia del calcio è la storia di tutti noi

Nel suo nuovo libro, I villeggianti, Marco Ciriello racconta le grandi imprese sportive, ma anche le persone che stanno dietro quelle imprese.

Raccontare lo sport è molto difficile, occorrono preparazione, estro e fantasia. Servono guizzo e immaginario, attenzione e pazienza. Non basta, non è mai bastato, descrivere una bella azione che ha portato al gol, una schiacciata a canestro, un passante lungo linea, il momento in cui un corridore passa un gran premio della montagna di una corsa a tappe. Saper raccontare uno sport è un’arte, è l’Italia vanta una grande tradizione che va da Gianni Brera a Beppe Viola, da Giovanni Arpino a Oreste del Buono, da Gianni Clerici a Gianni Minà e fino all’immenso Gianni Mura, e così via. Quando ho chiesto a Marco Ciriello se oggi fosse possibile un fax di Soriano ad Arpino con il suggerimento di prendere un Maradona, mi ha risposto così: «Devo sempre sperare che accada, che stia accadendo a nostra insaputa. E pensandolo creiamo i presupposti per farlo accadere. E se non sta accadendo, accadrà, c’è solo una pausa per la migliore delle possibilità. Per questo vado in giro, per questo racconto calciatori, partite, città, per cercare di essere Soriano e Arpino insieme: per essere, non per avere. Tento di replicare il gioco della bellezza, che esiste sono se la condividi. Come l’essere buoni è l’estensione della bontà agli altri, non la sottrazione dal mondo evitando l’esercizio della cattiveria. Arpino è una suora giovane, Soriano è sua madre testimonial di saponette, è l’estremo la parte più bella, l’essere lontani da sé, faxando».

La voce di Ciriello è inconfondibile, il suo modo di scrivere di sport, soprattutto di calcio, ha molto a che fare con la letteratura. Del resto, lo sport è letteratura già in origine, ma lo rimane solo se trova qualcuno in grado di raccontarlo, Ciriello è uno di questi. Scrive – annullando gli inutili paragoni: «Diego non è termine, è limite»; ha un passo che è un misto tra densità napoletana e mistero sudamericano, scrive in una lingua piena di fascino. E davvero le storie dell’America latina sembrano appartenergli come quelle dei Quartieri Spagnoli, perché è un figlio delle parole e del movimento che queste sono destinate a compiere se scritte con la giusta armonia. Quando gli chiedo dell’influenza della letteratura sudamericana nella sua scrittura, presente come riferimenti e come atmosfera, mi dice: «Tantissimo. Ho attraversato il continente, mi sono sentito a casa. Ho vissuto in diverse città dell’America Latina e mi hanno cambiato il modo di guardare le cose, influenzando la lingua e i racconti. Ho imparato anche a dribblare la mediazione europea, e questo mi crea molti problemi. E soffro anche di come l’Europa racconta il Sudamerica. L’altro giorno c’era una analisi di Lula completamente sbagliata, il presidente del Brasile veniva letto con i canoni europei, un errore enorme. La sinistra sudamericana viene sempre raccontata come se fosse bambina, all’inizio mi incazzavo, oggi so che forse è per questo che ha ancora futuro a dispetto di quella così matura che ci tocca in Italia ed Europa. Nel nostro continente la sinistra è così saggia e buona e corretta che infatti non conta più niente. In Sudamerica è così sbagliata da essere dinamicissima. Poi muore Chavez e il Guardian pubblica le tabelle della grande alfabetizzazione venezuelana e io rido».

Gli scritti di Marco Ciriello seguono uno schema ma sono sempre pronti a disattenderlo per consentire al guizzo di entrare nel discorso, per far sì che la cronaca diventi racconto. Nelle pagine raccolte ne I villeggianti (Milieu, 2023) sono raccolti molti anni di articoli, brani, racconti, poesie, ritratti. E il terzino viaggia sempre insieme a Soriano, e il fuoriclasse facile che lo si trovi correndo su un bus che va da Buenos Aires a Rosario, e Maradona viaggia con sé stesso e con la letteratura che ha generato. Il libro di Ciriello è un lungo viaggio tra gol spettacolari, battute fulminanti, memorie, in fondo è un romanzo. I villeggianti sono calciatori, allenatori, giornalisti, sono momenti di finzione, sono scrittori. Sono soprattutto storie di pallone, come recita il sottotitolo.

Una parte consistente del volume è dedicata a Maradona, e tutti gli scritti sono raggruppati sotto una parola bellissima che è Maradoneide, che è un pianeta, una malinconia, una nostalgia fatta persona, un racconto meraviglioso di tutto quello che Diego è stato ed ha attraversato. Su Diego, rifletto con Marco, sul quale sia il segreto, il mistero che ci tiene legati a lui in maniera indissolubile, gli domando se sia una sorta di materia che unisce fede e scienza applicata al piede sinistro, mi risponde e non poteva essere che così: «È l’amore. Proprio perché sfugge e si ricompone. Sfugge e riappare dove non crediamo possa apparire. Sfugge e ci stupisce. Sfugge e ci regala di nuovo una gioia che non pensavamo di ritrovare. Sfugge e ci salva. Sfugge e ci racconta. Continuo? Io credo che non smetterò mai di scrivere su Maradona, come non smetterò di innamorarmi e amare. È questa cosa qua il fatto, il fuoco, il centro di razionalità e irrazionalità. Ogni volta mi trovo a scoprire cose nuove ripensandoci, rivedendolo, come mi accade con i grandi film, i grandi romanzi, i grandi quadri».

Poi ci sono tutti da Pelé a Messi, da Crujiff a Zidane, da Bale a Mbappé, da Ibra a Totti, da Vialli a Salvatore Bagni. Ronaldo il fenomeno, Higuaín, Hamsik, Gigi Riva, Gianni Rivera, Ezio Vendrame. Paolo Rossi. Su Messi e Crujiff ho chiesto un altro paio di cose a Ciriello. Sull’argentino ho voluto sapere se la sia messa via: «Messi lo sa, l’ha sempre saputo. Sono i messisti o messiani e non messianici che non lo sapranno mai. E peggio ancora sono i maradoniani che son diventati messisti o messiani e non messianici per sentirsi ancora vivi. Io continuamente trovo persone che hanno avuto la vita sconvolta da Maradona, ancora devo trovare quelli che l’hanno avuta da Messi. L’altro giorno vedendo un bell’esordio cinematografico, Piano Piano di Nicola Prosatore, mi ha colpito il ringraziamento finale a Maradona, con le parole che si riservano a un amore, alla donna o all’uomo della vita. E mi sono commosso. Perché è così che non si muore. Maradona come il cinema è opposizione alla morte». E poi gli ho domandato se le giravolte del 14 più forte di tutti i tempi gli ricordassero la danza: «Sì. Per me Johan Cruijff è eccitante come Jennifer Beals per Moretti. Per me Cruijff è come Travolta e Thurman in Pulp Fiction. Per me Cruijff è il ballo del matrimonio de Il cacciatore e la danza sui pattini de I cancelli del cielo di Michael Cimino. Per me Cruijff è Belushi che fa le capriole per John Landis, e via così. È cinema naturale».

Tutti i piedi che hanno accompagnato una palla sono confluiti in queste pagine di Ciriello, leggendo un brano dopo l’altro pare di trovarsi in un grande romanzo, un’opera letteraria che ha costruito la sua sintassi assecondando un pallone che rotola, i piedi che lo muovono. E poi gli allenatori, i ritratti sono molto belli, alcuni davvero notevoli, alcuni tecnici brillano particolarmente, come Marcelo Bielsa per esempio. Ma poi Guardiola, Klopp, Sarri, Del Bosque, Wenger, Lippi, Carlo Ancelotti, Tabárez, Menotti, Gigi Radice e tanti altri. Proprio pensando al passaggio del libro che parla del grande Radice, mi sono fatto raccontare da Ciriello una cosa, circa il fischio della palla quando fa gol: «Diciamo che era una cosa che sentiva Gigi Radice come se fosse Morricone. Per me il calcio prima che danza è musica, quindi come per il jazz, hai una partitura e sempre gli stessi strumenti da secoli, ma il punto è chi li suona, per questo ogni gol è una melodia. Ci sono anche gol muti. O gol che hanno suoni stridenti. O gol che son colpi. Per dire quelli di Haaland mi sembrano coperchi messi su pentole. Oplà. E poi ci sono gol morriconiani che sentiva Radice, e quindi fischi lunghissimi, fischi brevi, armoniche, trombe, sax etc. Alcuni gol son tanghi, per dire».

Nel libro si legge anche una bellissima chiacchierata con Jorge Valdano, una persona visionaria e con un’intelligenza superiore alla media. Ci si commuove un po’ quando si legge di Gianni Mura, di lui più che degli altri, Ciriello mostra bene il tipo di vuoto che il giornalista ha lasciato, e pare di sentire nei retrobottega di tutti i Tour de France il ticchettio della sua macchina da scrivere. Si sorride leggendo di Gianni Clerici, di Beppe Viola, e si resta colpiti da un filo di malinconia quando si arriva dalle parti di Gianni Brera. A quel punto il Po, la nebbia, la pipa diventano una cosa nostra. Così succede quando le cose sono scritte bene, così succede con la letteratura. Pensando ai romanzi russi, gli domando qualcosa sugli occhi di Kvara: «Nel ritratto che gli faccio lo paragono al personaggio di Clint Eastwood nella trilogia del dollaro di Sergio Leone. E se ci fai caso stringe gli occhi come Kvara. Credo che sia tutto lì. Certo, manca il sigaro, e per fortuna la sua pistola è il pallone. Ma siamo lì. Il segreto è nel montaggio».

Il libro è bellissimo fin dalla copertina, con Maradona e altri del Boca che corrono durante un allenamento. Ci sono una ventina d’anni di lavoro in queste pagine, c’è molto da ricordare e da rivivere, dettagli che ci erano sfuggiti anche di partite molto note, punti di vista o dettagli sui calciatori più celebrati, sugli allenatori più immaginifici che magari ci erano sfuggiti. Ciriello non ha scritto un libro di sport ma un libro con lo sport e nel con c’è lui, ci siamo noi, i libri che abbiamo letto, le nostre fissazioni, le gioie e i dolori legati al gioco del calcio, le malinconie che non ci spieghiamo, quella strana sensazione che ci prende lo stomaco quando rivediamo un gol, quando davanti agli occhi ci balena di nuovo l’inganno della finta.