Quanto pesa il ritorno di Rafa Leão?

Il Milan di Pioli, soprattutto in questo periodo interlocutorio, non può fare a meno del suo talento più scintillante.

Al settimo minuto di Milan-Lazio, Olivier Giroud riceve palla nel cerchio di centrocampo e, istintivamente, alza lo sguardo alla ricerca di Rafael Leão. Il portoghese è già scattato in progressione, quindi a Giroud basta il tempo necessario a effettuare il primo controllo per sapere cosa fare subito dopo: è un’azione – anzi: una reazione – automatica, per certi versi persino naturale, un tocco d’interno in diagonale per il numero 17 che si trova 40 metri di campo da attaccare palla al piede e con l’intera difesa avversaria sbilanciata sul centro-destra e costretta a correre all’indietro, senza che nessuno dei cinque che lo inseguono abbia la dimensione atletica necessaria a reggere un uno contro uno in campo aperto contro di lui.  Poco prima di entrare in area di rigore Leão rallenta la sua corsa per una frazione di secondo, come fa sempre prima di ri-accelerare di colpo e sfruttare la rapidità del suo cambio di passo, in quella sorta di surplace in movimento che è già diventata il suo marchio di fabbrica. Questa volta, però, qualcosa va storto, e non solo perché il tocco per saltare Romagnoli si è rivelato impreciso favorendo l’uscita bassa di Provedel: il rientro a centrocampo è macchinoso, Leão sente che c’è qualcosa che non va e se ne rende definitivamente conto nell’azione successiva, quando non riesce a completare il suo taglio per attaccare senza palla il centro dell’area. La sostituzione è necessaria e, a quel punto, tutto il resto diventa un fastidioso dettaglio, anche se la partita è potenzialmente decisiva nella difficile rincorsa del Milan alla zona Champions League.  

Alla fine i rossoneri vincono (2-0) e convincono ma a nessuno sembra importare davvero, tanto che nel post gara quasi tutte le dichiarazioni di Pioli riguardano l’infortunio di Leão, E, naturalmente, le previsioni sui tempi di recupero a nemmeno quattro giorni da uno dei due derby che decideranno la stagione: «Rafa l’ho visto poco fa, mi sembrava sereno e tranquillo. Non dovrebbe essere niente di particolare anche se i problemi muscolari si valutano sempre il giorno dopo». dice il tecnico rossonero. Pioli ha un’aria tranquilla, il suo tono di voce è calmo e deciso, sa benissimo che non sta parlando solo ai giornalisti ma anche a tutti quei tifosi che, ormai già da un paio d’ore, stanno refreshando compulsivamente le home page dei siti specializzati alla ricerca di notizie e diagnosi più o meno certe. Le sue dichiarazioni, perciò, assumono i contorni di un “atto politico” dovuto, l’espressione della strategia comunicativa obbligata del capo di governo che deve fare tutto ciò che è in suo potere per evitare che il panico si diffonda. 

Nelle ore e nei giorni successivi Leão diventa il protagonista di un Truman Show individuale e collettivo: qualcuno scandaglia gli account social di Leão alla ricerca di indizi che possano rivelare la sua presenza nel derby, qualcun altro manda whatsapp modello “messaggio in bottiglia” al parente o all’amico medico per capire cosa sia e in quanto sia guaribile questa “elongazione del muscolo adduttore lungo della coscia destra”, qualcun altro ancora cerca di capire la situazione guardando in loop i video registrati durante le sessioni di lavoro personalizzato con il fisioterapista. Così quando, la mattina del 10 maggio, arriva la conferma che Leão la sera non sarebbe sceso in campo, il Milan – il gruppo squadra ma anche l’ambiente nel suo complesso – ha già prosciugato prima del tempo tutte le energie nervose necessarie ad affrontare una semifinale di Champions che mancava da 16 anni. L’Inter ci mette un quarto d’ora per prendersi partita e un pezzo di qualificazione: curiosamente, per un crudele scherzo del destino, i gol di Dzeko e Mkhitaryan arrivano all’8’ e all’11’, vale a dire gli stessi minuti in cui, il sabato precedente, Leão si era infortunato ed era stato sostituito. 

Il modo in cui si riesce a far fronte all’imprevisto, all’evento – soprattutto se inteso nella sua accezione negativa – in grado di disequilibrare una situazione di stallo, è ciò che fa la differenza. Nella gara d’andata di una settimana fa l’Inter non ha fatto altro che approfittare di un Milan che aveva passato le 72 ore precedenti a logorarsi nella lugubre attesa del bollettino medico giornaliero, crollando definitivamente quando è arrivata la conferma che tutti si aspettavano ma che nessuno aveva il coraggio di accettare; come se l’identificazione pressoché totale con la propria stella avesse generato un cortocircuito tale per cui il Milan senza Leão semplicemente non esiste, o comunque non sarebbe stato in grado di affrontare una semifinale di Champions League. Men che meno una semifinale di Champions League che è anche un derby, nella stagione in cui tre derby su quattro sono già stati persi e persi male, anche quelli con Leão in campo. A un certo punto persino la notizia del rinnovo ormai imminente – arrivata a poche ore dal fischio d’inizio – è sembrato un modo per esorcizzare le ansie e le paure di una stracittadina già segnata in partenza, il dolce che aiutasse a sopportare meglio il retrogusto amaro di una sconfitta imminente e inevitabile.  

Si tratta di una visione legata alla percezione che abbiamo oggi di Leão, al peso specifico e all’impatto che le sue prestazioni hanno su un collettivo che non è più in grado di esprimere con continuità il dinamismo, l’energia e la tensione verticale che un anno fa avevano portato il Milan a conquistare meritatamente lo scudetto. E questo anche a causa di un mercato estivo rivelatosi sbagliato, che ha determinato una stagione in cui le risorse vecchie e nuove si sono progressivamente trasformate in problemi che non è stato possibile risolvere. Di fatto a un certo punto della stagione – i tre match di aprile col Napoli ne sono la conferma – è come se l’intera squadra rossonera si sostanziasse unicamente nelle giocate che Leão può o non può fare nell’arco di 90 o 180 minuti, in un rapporto di dipendenza tossica per cui l’esterno portoghese è non solo il centro tecnico ed emotivo di un gruppo in difficoltà, ma anche l’unico giocatore in grado di nascondere quei limiti che, in sua assenza, si manifestano in tutta la loro mortificante evidenza. Che, poi è esattamente quello che è accaduto nel primo tempo di una partita in cui sembrava che l’Inter potesse segnare ogni volta che superava la metà campo.  

Come è facile immaginare la questione è diventata anche e soprattutto tattica, di atteggiamento. Dopo lo 0-3 incassato nella gara di Supercoppa, con Leão in campo per tutti i 90 minuti, Pioli disse che «ci sono sempre delle ragioni tattiche dietro ogni partita che non vinciamo, ragioni che fanno in modo che la squadra non sia perfetta, che io non sia perfetto». Ragioni che sono da ricercarsi nel modo in cui gli avversari del Milan riescono a gestire le transizioni negative dopo aver perso il possesso palla nella metà campo offensiva. Negli ultimi mesi, infatti, l’intero sistema offensivo dei rossoneri è dipeso dalla velocità con cui riuscivano a risalire il campo attraverso la catena di sinistra, quindi dalla velocità con cui i due mediani riuscivano ad innescare le corse di Leão e Theo Hernández, quelle con la palla e quelle senza.  

In questo senso i due gol realizzati contro il Napoli nel doppio confronto di Champions sono la migliore spiegazione possibile del perché il Milan abbia passato i quarti grazie a Leão, e del perché rischi di non passare la semifinale a causa dell’assenza di Leão in almeno una partita su due: all’andata era stata necessaria una giocata di Brahim Diaz a spezzare il raddoppio per innescare una situazione di cinque contro tre che il numero 17 aveva rifinito premiando l’inserimento dal lato debole di Bennacer; al ritorno, con il Napoli che stava portando quanti più uomini possibile nella metà campo rossonera nel tentativo di accerchiare il Milan, il controllo sbagliato da Ndombelé aveva messo l’ex Sporting nella situazione ideale per sprigionare le sue qualità in conduzione e nell’uno contro uno in situazione dinamica. Peraltro dopo aver fatto le prove generali già nella serata di San Siro con una solo run che ai milanisti più nostalgici ha riportato alla memoria il Kakà del 2007, quello delle corse infinite nelle notti europee contro Celtic e Manchester United. 

Contro l’Inter questo non è accaduto, anzi non è potuto accadere, perché nessun altro giocatore della rosa riesce ad essere così condizionante e determinante nonostante il contesto e tutto ciò che accade intorno a lui. Nemmeno Theo Hernández o Mike Maignan, gli altri due insostituibili per eccellenza. Il modo in cui Leão declina il concetto di esplosività, quel modo di correre elastico e brutale che può essere soltanto suo e che allo stesso tempo è funzionale a cambiare il ritmo più volte all’interno della stessa azione, è la chiave di volta di un intero attacco, il vero motivo per cui il Milan, o almeno questa versione ridimensionata del Milan, riesce comunque a generare occasioni in partite in cui non è tecnicamente e tatticamente all’altezza degli avversari.  

Da quando è arrivato al Milan, vale a dire nell’estate 2019, Rafael Leão ha messo insieme 159 presenze e 40 gol in gare ufficiali di tutte le competizioni (Marco Luzzani/Getty Images)

Si può dire che da elemento che dava forma e consistenza all’intero sistema, Leão sia ormai diventato il sistema stesso, soprattutto perché è l’unico che ha le possibilità di bypassarlo, di andare oltre, di farlo funzionare anche a fronte dei suoi limiti strutturali, di creare per sé e per gli altri senza dover fare riferimento a sovrastrutture più o meno complesse. Come in occasione del derby del 3 settembre, l’unico vinto dal Milan in questa stagione grazie a un gol – quello del 3-1 – creato dal nulla e nel nulla, in un momento e on una zona di campo in cui è circondato da cinque giocatori nerazzurri e la scelta più logica sarebbe quella di appoggiarsi nuovamente a Giroud che gli ha appena passato il pallone con una sponda volante: e invece a Leão occorrono quattro secondi e cinque tocchi di palla per deformare la dimensione spazio-tempo, per piegare al suo volere pallone, compagni di squadra, avversari, per uscire dal sistema conferendogli un’efficacia e un’efficienza che non avrebbe avuto se avesse seguito la linea della prudenza, della giocata più conservativa e, quindi, quella più prevedibile. Vale a dire tutto ciò che i giocatori di una squadra fanno nei momenti di difficoltà individuale e collettiva, quindi tutto ciò che il Milan ha fatto nei 90’ senza Leão e nonostante il suo sostituto di giornata, Alexis Saelemaekers, sia sembrato quello più pronto ed emotivamente connesso alle vibrazioni di una partita così in un periodo così. 

Nella giornata di ieri, prima ancora che Pioli parlasse in conferenza stampa, si è diffusa la notizia che Leão stesse lavorando da solo a Milanello dalle 11:30 nonostante la rifinitura fosse programmata per le 17:00: «Rafa sta bene, sembra stare bene. Ieri ha fatto quasi tutto in gruppo e oggi speriamo possa fare tutto l’allenamento» ha poi detto il tecnico rossonero rispondendo alla prima prevedibile domanda, non mancando di aggiungere che la sua speranza è quella di recuperare «anche Krunic e Messias». Potrebbe sembrare una frase fatta, la solita risposta preconfezionata della viglia, in realtà è una precisazione significativa: una settimana fa il Milan è naufragato sotto il peso di un’assenza resa persino troppo pesante da una narrazione auto-imposta e improntata al pessimismo cosmico; ora ci sarà bisogno di tutti gli altri, anche solo a parole, per non dare all’Inter il vantaggio tecnico ed emotivo di affrontare di nuovo una squadra fin troppo dipendente dal suo giocatore più forte e rappresentativo.