Perché Mourinho funziona ancora nelle coppe europee?

La vocazione europea della Roma è legata alla filosofia del tecnico portoghese.

L’anno scorso, lungo tutto il percorso e poi in finale di Conference League, la Roma di Mourinho ha sempre dato l’impressione di poter determinare il suo destino con relativa tranquillità. Persino le due partite perse contro il Bodo Glimt non intaccarono la sensazione di controllo assoluto trasmessa dai giallorossi: al di là degli sfottò sui social, il pesante 1-6 incassato in Norvegia nella fase a gironi fu praticamente indolore, mentre la sconfitta nell’andata dei quarti fu il frutto di una gara evidentemente giocata sui 180 minuti, non sui classici 90′ – e infatti il match di ritorno all’Olimpico finì con un fragoroso 4-0. Nelle ultime sfide del torneo, poi, il Leicester e il Feyenoord furono addomesticati, contenuti e infine battuti senza soffrire troppo, sfruttando gli strumenti classici del Mourinhismo: organizzazione difensiva, primato della fisicità, capacità di leggere i momenti delle partite e di colpire l’avversario in quelli propizi, preferibilmente su calcio piazzato. Più o meno come succedeva dieci o quindici anni fa in Champions League, buona parte delle squadre che hanno sfidato Mourinho in Conference hanno creduto di dominare la partita attraverso il possesso, e invece sono state trascinate nel playground preferito del tecnico portoghese, in una palude fangosa fatta di duelli corpo a corpo, di attacchi posizionali rimbalzati come se di fronte ci fosse un muro di gomma, di punizioni e angoli velenosissimi, di ripartenze acuminate.

Ecco, la Conference League vinta dalla Roma è come se non fosse mai finita. Oppure, per dirla meglio: è come se si fosse estesa fino a oggi, è come se si fosse dilatata al punto da confluire nell’Europa League di quest’anno. Basta ripensare a tutti i doppi confronti vinti dalla squadra di Mourinho, vere e proprie prove di resistenza e intelligenza superate con le stesse identiche armi di un anno fa, magari dopo aver indovinato la mossa tattica giusta, il cambio decisivo – Dybala contro il Feyenoord, per esempio. È un discorso di identificazione, anzi di avvenuta sovrapposizione: la Roma di oggi è un’emanazione diretta e inconfondibile del suo allenatore, della sua psiche, della sua storia. Lo leggi nei movimenti e negli atteggiamenti dei calciatori, nel modo in cui attaccano e – soprattutto – nel modo in cui difendono, ma si tratta di qualcosa che va molto oltre la tattica di gioco: è un fatto fisico, psicologico e culturale, è una simbiosi assoluta che finisce per coinvolgere – anzi: per trascinare dentro – anche il pubblico dell’Olimpico.

Le due grandi stagioni europee della Roma, in attesa del possibile tripudio di Budapest, alimentano anche un inevitabile interrogativo: perché in campionato le cose vanno in maniera diversa? Se la Serie A non è una tara, allora dove vanno a finire la forza e la consapevolezza espresse dai giallorossi nelle notti di calcio internazionale? I numeri, piuttosto eloquenti, giustificano questo tipo di domande: al momento in cui scriviamo,  infatti, Mourinho alla Roma ha messo insieme 35 vittorie, 18 pareggi e 22 sconfitte in 75 gare di campionato, per una percentuale di vittorie del 46%; tra Conference ed Europa League, invece, il rapporto sale fino a toccare il 59%: 17 vittorie, sei pareggi e sei sconfitte in 29 partite. Aggiungiamo di nuovo, per quanto sia pleonastico visto che la Roma ha raggiunto due finali, che si è trattato di sconfitte sempre indolori, o al massimo ribaltate nei match di ritorno.

Per rispondere a certi dubbi e per spiegare certe discrepanze, è necessario partire dalle radici di questa Roma, quindi dall’essenza del calcio secondo Mourinho: nel corso degli anni, con un andamento progressivo e inesorabile, il tecnico portoghese ha esasperato la sua visione conservativa, la sua volontà di preparare e vivere le partite rischiando il meno possibile, inibendo il gioco degli avversari, costringendoli a scoprirsi, a sprecare energie fisiche e nervose. È chiaro – anzi: è inevitabile – che questa concezione e questa filosofia del gioco finiscano per essere più redditizie nelle gare di coppe europee. Per due motivi principali. Il primo riguarda il tempo: questo tipo di approccio può funzionare molto di più in gare che si risolvono subito, senza la trama orizzontale di un torneo tutti contro tutti, semplicemente perché ci sono meno minuti complessivi da giocare. E soprattutto perché i giocatori sono fatalmente portati ad affrontare in modo diverso le partite a eliminazione diretta, hanno bisogno di una maggiore concentrazione e la trovano e la manifestano, c’è più tensione, c’è più adrenalina, così si commettono meno errori – almeno alla Roma è andata così, ed è questo il grande merito di Mourinho.

Il secondo motivo fa riferimento ai valori e all’approccio delle squadre in campo: un anno fa la Roma aveva una rosa decisamente più forte rispetto alla stragrande maggioranza delle iscritte alla Conference League, eppure non ha mai dovuto affrontare difese basse e chiuse, delle vere e proprie barricate fortificate. La stessa cosa è successa in questa stagione di Europa League, ovviamente a un livello più alto: Betis, Salisburgo, Real Sociedad, Feyenoord e Bayer Leverkusen hanno tutte dei valori simili alla Roma e giocano tutte in modo propositivo, sofisticato, eppure alla fine sono sbattute – letteralmente – sulla puntualissima difesa giallorossa, per poi capitolare quando si sono accesi i vari Belotti, Dybala, Pellegrini, Spinazzola, Abraham. In Italia la situazione è diversa, visto che i rapporti di forza del campionato di Serie A sono mediamente favorevoli alla Roma, indubbiamente tra le sette squadre più forti del torneo. Di conseguenza i giocatori di Mourinho si ritrovano spesso in una condizione che hanno imparato a non preferire, ovvero devono gestire e fare la partita, non possono rinunciare a tenere palla visto che sono gli avversari a chiudersi dietro e a manifestare una grande organizzazione tattica, allora la sensazione trasmessa dalle partite domestiche della Roma è la stessa del meme in cui ci sono due Spiderman identici pronti a scontrarsi tra loro, difesa a oltranza contro difesa a oltranza. E infatti i giallorossi hanno perso punti a Lecce, Cremona e in casa con la Salernitana.

Insomma, per dirla in modo brutale: la Roma è stata programmata, costruita e poi aggiustata in itinere perché potesse dare il massimo nelle coppe, fino al punto di mettere il campionato in secondo piano. Certo, su questa decisione – per altro presa e confermata per due stagioni di fila – hanno pesato anche le contingenze, basti pensare agli infortuni che hanno falcidiato la rosa nel corso dall’ultimo biennio. Anzi, proprio in virtù di tutto questo si potrebbe dire che limitare i danni in campionato e concentrarsi sul cammino europeo, a un certo punto, è diventata una necessità. Quasi un dovere morale. Ma nel calcio esistono e incidono anche le sensazioni, e la sensazione è che alla fine José Mourinho si sarebbe comportato allo stesso modo anche se avesse avuto la rosa sempre al completo.

Paulo Dybala è il miglior marcatore stagionale della Roma, sia in Europa League (quattro gol, come Pellegrini) che in assoluto, visto che ha segnato 16 reti in tutte le competizioni ufficiali (Paolo Bruno/Getty Images)

Ognuno può decidere, in base alle proprie idee, se questa scelta del tecnico portoghese sia stata e/o sia ancora quella giusta. Ma nessuno può dubitare che sia molto pragmatica, molto rischiosa, quindi profondamente mourinhista: se i risultati e i tituli sono l’impalcatura su cui si regge il mito del tecnico portoghese, e lo sono senz’altro, allora il Mourinhismo è tornato a esistere proprio attraverso le finali raggiunte dalla Roma, con la Roma. Il pragmatismo di quest’atto politico – non c’è altro modo per definirlo – sta nel fatto che, a pensarci bene, la squadra giallorossa non aveva e non ha la qualità necessaria per lottare per lo scudetto e per vivere una coppa da protagonista tutto nella stessa stagione, allora è stato più furbo, più intelligente, fare all-in su Conference ed Europa League: rispetto alle semifinali raggiunte da Di Francesco (Champions League 2017/18) e Fonseca (Europa League 2020/21), è evidente che le due finali conquistate da Mou siano state meno casuali, più cercate, più volute.

Allo stesso modo, però, c’è da fare un’inevitabile postilla teorica e pratica: se col Siviglia dovesse andare male, alla Roma resterebbe poco su cui ripartire per la prossima stagione. Certo, in ogni caso l’intero universo giallorosso ricorderà per sempre il romanticismo di questi anni, l’adrenalina per aver vissuto di nuovo certe notti, certe partite, il legame profondissimo stretto tra Mourinho, la tifoseria e la squadra. Ma sono tutte cose che non aiutano a costruire il futuro, o comunque arrivano fino a un certo punto. È questo il grande rischio che la Roma e Mourinho hanno deciso di correre: la vocazione europea esiste, ha un suo valore e può creare valore, ma può anche essere azzerata nei pochi minuti di una partita, di una finale, quelli in cui ci si gioca tutto. In certi casi, in questo caso, questa frase va ben oltre la sua retorica apparente: descrive fedelmente la realtà.