Sei delusioni cocenti della Serie A 2022/23

Giocatori, allenatori e storie da cui ci aspettavamo tanto, e che invece si sono rivelate un insuccesso.

Dopo le sorprese di cui abbiamo scritto ieri, ecco un altro piccolo elenco raccontato: ci sono personaggi, storie e tendenze non proprio esaltanti del campionato che è appena finito, soprattutto se pensiamo alle aspettative iniziali. In fondo le delusioni più grosse – e quindi le più cocenti, le più dure da affrontare e spiegare – sono quelle che arrivano quando inizialmente ti aspettavi altro, un lieto fine, una nuova scoperta calcistica, un ritorno a grandi livelli dopo una o più stagioni di difficoltà. Abbiamo scelto casi davvero eclatanti, quelli che che non potevano essere ignorati, e nomi un po’ più insospettabili, pescando a ogni latitudine di classifica: purtroppo – o per fortuna, da un certo punto di vista – la geografia dell’insuccesso può colpire chiunque, può colpire dappertutto, tra i piccoli come tra i grandi.

La lotta per non retrocedere è un fiasco totale

La scorsa stagione avevamo celebrato l’impresa della Salernitana, capace di salvarsi dopo una rimonta clamorosa. I granata ci erano riusciti con (o nonostante) avessero accumulato appena 31 punti, a testimonianza di una lotta salvezza decisamente fiacca e poco competitiva. Una quota che quest’anno è rimasta invariata – chi si salverà, nello spareggio tra Spezia e Verona, se la sarà cavata con 31 punti, ancora. Due squadre, Cremonese e Sampdoria, sono uscite rapidamente dalla lotta salvezza, destinate a retrocedere con ampio anticipo.

Dalla stagione 2004/05 la Serie A non prevede più quattro retrocessioni ma tre, pur avendo allargato il numero di partecipanti a venti: minor turnover significa continuità – sportiva ed economica – per più squadre, e di conseguenza un campionato più competitivo a tutti i livelli. Casi virtuosi, in questo senso, ce ne sono stati, ma molti di più sono stati quelli non virtuosi: il meccanismo del campionato, così da solo, non basta. E così vediamo il Verona fare un impensabile salto all’indietro dopo tre stagioni nella top ten di A, o lo Spezia diminuire il proprio bottino di punti anno dopo anno, senza proiezioni di crescita. Dopo una lotta salvezza così deludente, sarà il caso di apportare qualche correttivo? (Francesco Paolo Giordano)

Simone Inzaghi a.k.a. Harvey Dent

La stagione 22/23 verrà ricordata come quella in cui Simone Inzaghi si è tolto la maschera e ha mostrato due facce paradossali? Una ispirata e sorprendente nelle coppe, un’altra fragile e sfibrata in campionato? Può darsi. I numeri relativi alla Serie A sono crudeli, perché inappellabili: 3° posto, -18 dal Napoli, 12 sconfitte in 38 partite di Serie A. Si è parlato della ripetitività e prevedibilità del gioco, della dipendenza dallo stato di forma di alcuni uomini chiave, così come della difficoltà nel preparare le partite che sembrano contare meno, ma che a distanza di mesi possono incidere sensibilmente sulla classifica finale. Tutto vero. C’è però una puntata, nella diciassettesima stagione dei Simpson, in cui Homer recupera un manubrio e, quasi senza accorgersene, a furia di usarlo si ritrova con un braccio alla Sylvester Stallone e uno da impiegato ciambellomane qual è. A questo punto, il colpo di genio: si presenta da Boe con papillon e occhiali nerd mostrando solo il bicipite flaccido e mingherlino, per poi sfidare il ricco texano a braccio di ferro e stracciarlo con quello muscoloso. Di lì a breve vincerà anche il torneo di Capitol City contro gente all’apparenza molto più tosta di lui.

Ora, non dico che la strategia dell’allenatore dell’Inter fosse questa fin dall’inizio, tutt’altro: del resto nemmeno Homer ha un piano quando inizia a sollevare il manubrio senza sosta. Dico solo che se in questa strana stagione Simone Inzaghi avesse davvero un braccio ipertrofico nascosto da qualche parte, la finale di Champions League di sabato prossimo contro il Manchester City potrebbe essere il momento giusto per tirarlo fuori. (Gianluca Herold)

Un’altra stagione persa per Luka Jovic

È troppo facile trovare degli attaccanti tra le delusioni di un campionato, la parte principale del lavoro è anche quella più semplice: si contano i gol, si pesa il contributo nei momenti decisivi, e se i numeri non soddisfano allora la stagione non è andata bene. Luka Jovic ha barato, i suoi numeri li ha aggiustati alla fine: tre assist nel 5-0 alla Sampdoria, due gol consecutivi con Torino e Roma – per un bottino comunque di soli sei gol e tre assist – quando ormai il giudizio sulla sua prima Serie A era stato preso. Per raccontare il campionato di Jovic non servirebbero nemmeno i numeri. È semplicemente l’ennesima annata vacua di questo attaccante che per un attimo era sembrato la nuova sensazione del calcio balcanico, arrivato a Firenze in un percorso rinascimentale dopo un triennio al Real Madrid in cui è sembrato semplicemente fuori posto, distante dal clima della squadra e dell’ambiente. Non c’è stato verso di farlo funzionare nella squadra di Italiano. Arthur gli è passato davanti nelle gerarchie molto presto, lui non ha mai dato buone sensazioni se non dopo il gol all’esordio, e alla fine ha chiuso da titolare solo perché i giocatori più importanti si risparmiavano per la finale di Conference League. Eppure Jovic è ancora un 25enne, può ancora trovare il suo posto nel mondo e nel calcio. Il tempo c’è. Solo che i motivi per crederci sono sempre meno. (Alessandro Cappelli)

Ecco perché c’era un (bel) po’ di hype per Luka Jovic

La scomparsa del vero Belotti

A pensarci bene, Andrea Belotti ha sempre dato la sensazione di essere un po’ goffo, ha sempre avuto una postura di corsa e un tocco di palla non proprio eleganti. C’è stato un tempo, però, in cui questa sua mancanza di charme calcistico andava in compensazione con altre doti molto evidenti, e che lo rendevano unico: una forza esplosiva e una resistenza straordinaria, che gli permettevano di attaccare continuamente la profondità, di aggredire i portatori di palla avversari, quindi di tenere sotto pressione i difensori che dovevano fronteggiarlo. E poi Belotti aveva anche un istinto speciale per il gol, nel senso che il suo fisico anomalo gli permetteva di essere sempre lì, l’abbiamo detto, ma poi c’era anche una predisposizione innata al tiro in porta, alla coordinazione complessa: la sua caccia alla rete era un atto di presenza, di insistenza, ma c’era anche una certa qualità, dopotutto non si segnano 100 e più gol in Serie A solo perché si occupa o si attacca l’area di rigore.

Non sfugga che abbiamo usato solo verbi al passato. Perché? È semplice: Andrea Belotti oggi è un calciatore diverso, i suoi difetti storici hanno preso il sopravvento sui pregi, continua a dannarsi l’anima per la sua squadra, a pressare tutti, ad attaccare la profondità, ma è come se spendesse tutte le sue energie in quei momenti. E così si ritrova scarico al momento più importante, quello della conclusione in porta. Proprio in virtù del giocatore che è, che è sempre stato, delle cose di cui abbiamo parlato finora, il tremendo “0” nel tabellino dei gol in Serie A non può che essere il frutto di una regressione atletica, e in effetti era andata così anche nell’ultima stagione al Toro, costellata di infortuni, immalinconita dai dubbi sul futuro. A Roma è andata ancora peggio, ed è questa la vera delusione: potevamo assistere a una rinascita fisica e quindi di prestazioni, invece abbiamo guardato un grigio remake del passato recente. Belotti era un calciatore selvaggio e ora non lo è più, un po’ come successe a Rocky Balboa dopo aver vinto il titolo mondiale: nel terzo film della saga, l’allenatore Mickey gli dice che non avrebbe potuto battere Clubber Lang perché «ti è successa la cosa peggiore che può succedere a un pugile: ti sei civilizzato». Ecco, per Rocky era una questione di atteggiamento, di pura violenza che diventava foga agonistica. Per Belotti era una questione di forza, resistenza, istinto per il gol, tutte cose che sono diminuite troppo rispetto a qualche anno fa. (Alfonso Fasano)

Sulla tristezza di Charles De Ketelaere 

Ho un amico che per tutta la stagione, ogni settimana, si è giocato 3-1 Milan+gol di Charles De Ketelaere: non ha mai vinto una schedina. De Ketelaere è ovviamente la delusione più grande del campionato per quanto è stato pagato (35 milioni e mezzo di euro), per aver realizzato zero reti e un solo assist in 32 partite, e soprattutto per la mestizia con cui tutti noi tifosi del Milan abbiamo vissuto questi mesi. Dopo un inizio promettente, i gol sbagliati in serie — ogni situazione sempre più facile, ogni errore sempre più assurdo: il liscio contro il Monza all’andata, le parate di Ochoa a Salerno, il colpo di testa fuori contro il Tottenham in Champions League, il salvataggio sulla riga di Pessina contro il Monza al ritorno, il tentativo di dribbling su Carnesecchi contro la Cremonese, li ho visti tutti dal vivo — lo hanno intristito e spento come quando ti entra una spina invisibile nella ruota della bicicletta. Durante il primo tempo di Milan-Cremonese tutta la curva prima e tutto lo stadio poi hanno inneggiato a lui per almeno venti minuti consecutivi. Poi anche il lanciacori si è arreso: «Questo qui non segna neanche se appare Gesù Cristo». (Francesco Caligaris)

Paul Pogba è ciò che non funziona alla Juve

Quando Paul Pogba si è accasciato al suolo al 24’ di Juve-Cremonese – prima partita da titolare un anno dopo l’ultima, un dimenticabile Manchester United-Norwich giocato il 16 aprile 2022 – è stato impossibile non empatizzare con lui. Nell’epoca in cui anche gli infortuni sembrano essere una colpa del singolo calciatore, vedere il numero 10 della Juventus in lacrime, preda della disperazione più profonda, è stato un duro colpo anche perché sappiamo quanto Pogba sia ancora in grado di incidere in un contesto di alto livello. E però se da un lato sarebbe ingiusto bollare come “delusione” un giocatore che ha disputato appena 162’ in stagione, dall’altro farne la rappresentazione fisica dei fallimenti bianconeri non è poi così sbagliato, soprattutto se ne facciamo una questione di scelte, dei criteri che hanno portato i dirigenti bianconeri a costruire una rosa attorno a due (ex) fenomeni generazionali piuttosto fragili come lui e Ángel Di María: e, quindi, Pogba diventa la delusione della stagione della Juventus pur senza aver sostanzialmente mai giocato, proprio perché è il simbolo di un modus operandi che ha mostrato tutti i suoi limiti e tutte le sue incongruenze, soprattutto al termine di un’annata del genere, che impone una seria riflessione sul futuro della Juventus, sul reset da effettuare per ripartire davvero. (Claudio Pellecchia)

Paul Pogba in Juve-Cremonese prima dell’infortunio