La Juventus ha bisogno di essere resettata?

E dovrebbe riguardare prima di tutto la cultura, la filosofia e la comunicazione del club, prima ancora che i nomi in campo e in panchina.

Da qualche tempo, diciamo pure da quando a fine gennaio è stato nominato responsabile dell’intera area sportiva della Juventus, le interviste e le dichiarazioni di Francesco Calvo si somigliano tutte. Nei contenuti, certo, ma soprattutto nella prossemica, nel modo in cui il linguaggio del corpo restituisce a chi lo ascolta quell’idea di incertezza nel futuro che, per certi versi, è persino più logorante di una stagione da 16 sconfitte in 54 partite, una ogni tre. C’entrano, naturalmente, le vicende extra-campo connesse alle logiche non sempre chiare e coerenti della giustizia sportiva – e che, per questo, sfuggono a qualsiasi tipo di controllo e programmazione. Ma c’entra in particolare il non sapere cosa fare e da dove ripartire dal punto di vista del campo e di un progetto sportivo che è evidentemente naufragato. Che si è manifestato male quando era ancora nella fase embrionale, a causa della distanza emersa tra ciò che si voleva fare e ciò che, invece, era necessario fare.

La sensazione, andando oltre la seconda stagione consecutiva senza trofei e le prospettive nebulose di un possibile ridimensionamento tecnico ed economico, è che la Juventus sia una società incapace di programmare e di progredire, prigioniera di retaggi e convinzioni che hanno trasformato la squadra dei nove scudetti consecutivi in un mostro che mangia sé stesso, una specie di uroboro in grado di sovvertire il normale rapporto causa-effetto. Fino al punto da rendere impossibile anche solo pensare di progettare qualcosa senza che sopraggiunga il fantasma dell’ennesimo fallimento previsto e prevedibile. 

In questo senso le dichiarazioni che Calvo ha rilasciato ai microfoni di Sky prima della semifinale di ritorno di Europa League contro il Siviglia sono lo specchio della difficoltà di mettere ordine in un contesto caotico in cui alle parole non seguono i fatti. E in cui i fatti finiscono spesso con lo smentire le parole: «Stiamo costruendo il presente, ma anche il futuro. Vogliamo rendere orgogliosi i nostri tifosi. Con i giocatori e gli agenti parliamo quotidianamente per via dell’incertezza che riguarda il futuro visto che non sappiamo ancora per cosa giochiamo. Ma abbiamo calciatori che stanno bene qui ed è facile dialogare con loro. In più oggi in prima squadra abbiamo tre giocatori nati dopo il 2000 e di questo siamo molto orgogliosi». 

Queste frasi contengono due tipi di verità: una più oggettiva, e cioè che da gennaio la Juventus è una squadra che gioca per obiettivi che sa già di non poter raggiungere, e che convive con le difficoltà emotive di una situazione per cui l’annuncio ufficiale di una nuova penalizzazione arriva letteralmente a dieci minuti dal fischio d’inizio di una partita decisiva per un posto in Champions League, con tutte le conseguenze del caso; la seconda riguarda l’orgoglio per lo spazio e il minutaggio che tanti giovani hanno trovato e stanno trovando in prima squadra. Anche questa verità è altrettanto fattuale fino a quando non si constata l’assoluta casualità – da intendersi nel senso proprio del termine, quindi come di un fatto accidentale o comunque non cercato volontariamente – di uno dei pochi aspetti positivi della stagione bianconera.  

Questo discorso è la rappresentazione plastica di tutto ciò che non funziona nella Juventus attuale al di là di penalizzazioni e deferimenti, il motivo per cui il reset da effettuare dovrebbe riguardare prima di tutto la cultura, la filosofia e la comunicazione del club, prima ancora che i nomi in campo, in panchina, dietro la scrivania. Quando Calvo ci racconta dei giovani che sono il presente ma soprattutto il futuro della Juventus, fa riferimento – e non potrebbe essere altrimenti, almeno in pubblico – alla conseguenza e non alla causa, o meglio al motivo. Quindi non alla circostanza che se i vari Fagioli, Miretti, Iling Jr., Soulé e Barbieri sono diventati così importanti per la prima squadra è per via degli infortuni in serie occorsi a Chiesa, Pogba, Di María, Vlahovic e Milik. E per via delle difficoltà di Allegri di trovare una quadra, anzi una coerenza di fondo, in una rosa che ha espresso oltre 100 formazioni diverse in due anni. 

La prevedibile obiezione secondo cui l’obiettivo della valorizzazione del talento prodotto in casa è stato comunque raggiunto viene facilmente smentita da tutto ciò che è successo nel frattempo in termini di svalutazione del parco giocatori, di impatto sui risultati individuali e collettivi, di legittimazione dei rapporti di forza nei confronti di società con rose costate la metà o un terzo rispetto a quella dei bianconeri. Tra tutte, la mossa-simbolo di questa progettazione non proprio lungimirante sembra essere il rinnovo automatico scattato per Alex Sandro – un calciatore dal rendimento insoddisfacente, almeno in questa stagione – dopo un certo numero di partite disputate. Se il progetto-giovani è esistito ed esiste davvero, qual era il senso di inserire questa clausola nel rinnovo firmato nel 2018? Qualcuno potrebbe obiettare: nel 2018 le cose erano diverse. Vero. Ma nel frattempo perché non sono state trovate delle alternative valide e/o un accordo per scongiurare questo rinnovo automatico? Le strategie del club non sarebbero potute cambiare, alla luce di ciò che è successo dentro e intorno alla Juve? 

Dal 2018 a oggi sono passati degli anni in cui la Juventus è riuscita ad azzerare un vantaggio competitivo che appariva incolmabile. Quindi la rapidità dell’implosione dovrebbe stupire fino a un certo punto: la dimensione verticale di questa crisi sistemica e di risultati è tale da farci pensare che il fondo non sia stato ancora toccato, che il peggio debba ancora arrivare perché nessuno ha ancora avuto il coraggio di guardare in faccia la realtà, per poi agire di conseguenza. Sembra quasi di assistere in loop all’iconica scena di Matrix in cui Morpheus spiega a Neo che quello in cui aveva vissuto fino ad allora era un mondo fittizio, un inganno creato da un’intelligenza artificiale che aveva progressivamente preso il controllo, costringendo la razza umana a vivere una nuova vita basata sul concetto di scelta, sulla necessità di comprendere la vera natura delle cose; all’inizio Neo ne è terrorizzato, quasi rifiuta l’idea di essere stato inconsapevolmente prigioniero così tanto e così a lungo in una prigione senza sbarre apparenti, poi però accetta il cambiamento, lo asseconda, si adatta per sopravvivere in un contesto nuovo, diverso, non necessariamente peggiore. 

Il secondo mandato di Massimiliano Allegri sulla panchina della Juventus, iniziato nell’estate 2021, ha fruttato 57 vittorie, 21 pareggi e 28 sconfitte in 106 partite di tutte le competizioni (Valerio Pennicino/Getty Images)

Il parallelismo ci sembra azzeccato nella misura in cui la Juventus continua ad apparire sconnessa dal mondo e dal tempo in cui si trova. Quindi nel modo in cui ha dato, e sta continuando a dare, risposte e soluzioni semplici a questioni ben più complesse, nel far credere che alla fine tutto dipenda dal calciomercato, dal giocatore che manca in questo o in quel ruolo – poi presi comunque, da Paredes a Kostic a Bremer – e dall’attaccante che non segna, degli ex fuoriclasse generazionali protagonisti in infermeria più che in campo, persino dall’allenatore più o meno adatto a gestire e far rendere una rosa dal valore di quasi 600 milioni di euro tra cartellini e ingaggi: «Sono convinto che Allegri abbia fatto un ottimo lavoro: ha reso quasi normale una stagione che di normale non ha avuto quasi nulla. Non è dalla singola partita che giudichiamo un allenatore, il giudizio complessivo lo diamo a fine stagione, non su una singola gara». Così aveva parlato Calvo prima che la Juve fosse eliminata anche dall’Europa League. 

Ecco, il fatto che solo a questo punto si sia arrivati a parlare direttamente di Massimiliano Allegri è la dimostrazione di come il tecnico sia una parte – rilevante – del problema, ma non certo l’origine; quella, semmai, è da ricercarsi nell’idea per cui, nel 2021, uno come lui potesse essere l’uomo giusto al posto giusto per i quattro anni successivi. Al punto da accordargli un contratto che, oltre ad alimentare la percezione di un club legato a un tecnico indipendentemente dai risultati che ottiene, ha reso inevitabile la domanda su chi fosse emanazione di chi, se Allegri della Juventus o viceversa. Il cortocircuito, perciò, è stato inevitabile. Anche perché a un certo punto è stato lo stesso Allegri ad alimentarlo, trasformandosi consapevolmente in un meme vivente, nella rappresentazione fisica di quell’anacronismo che dall’esterno si trasferiva direttamente sul campo sotto forma di una proposta di gioco superata, inadeguata, inefficace, espressione diretta di quel livore e di quella volontà di allenare per avere ragione che hanno finito per divorarlo. Per di più nella timeline in cui i successi in serie dei vari Pioli, Spalletti, Inzaghi e Sarri hanno clamorosamente smentito il “teorema delle categorie” e del «ci sarà un motivo se ci sono allenatori che vincono e altri che non vincono mai», amplificando ancor di più il fallimento di una strategia di comunicazione degenerata fino a ridimensionare di volta in volta gli obiettivi teoricamente alla portata della squadra, poi a rifugiarsi nell’alibi dell’annata «folkloristica» e nella retorica dello «stillicidio», e infine a scaricare qualsiasi tipo di responsabilità su quei giocatori – vedi Szczesny – che più di una volta lo avevano cavato d’impaccio. 

Anche in questo caso, però, la non-comunicazione di Allegri è figlia legittima della non-comunicazione della Juventus. Una società che ha lasciato a un uomo di 55 anni il compito di spiegare il calcio in un certo modo a una generazione cresciuta con canoni, esempi e modelli diametralmente opposti. Il risultato è stato quello di rendere la Juventus un brand poco appetibile, esaurendo il credito passionale ed emotivo con i suoi tifosi. Un’ulteriore dimostrazione, l’ennesima, di come le risposte della società bianconera in un’epoca in cui conta anche il percorso che ti porta a vincere – e non solo la vittoria in sé – siano state insufficienti, ben prima delle inchieste e degli sconquassi giudiziari e societari: su questi ultimi si sta lavorando per provare a porre rimedio, sui primi bisognava iniziare a lavorarci per tempo andando oltre l’idea che tutto dipendesse dalla conquista o meno di un titolo, di una coppa, di un piazzamento. E pensare che adesso basti semplicemente un altro ds o un altro allenatore non è altro che la reiterazione dell’errore, l’ultima polaroid, in ordine di tempo, dell’uroboro che mangia sé stesso rendendo impossibile cambiare davvero.